lunedì 15 dicembre 2008

L'addio di Pilato a Saulo.

Commentando il mio romanzo "La verità ci rende liberi" che ha come protagonista Pilato un internauta mi ha consigliato la lettura del Maestro e Margherita di Bulgakov. Il suggerimento è intelligente, e lo ringrazio, ma l'avevo preceduto, al punto di inserire una pagina copiata da Bulgakov nel mio romanzo (denunciando il fatto in nota). Riporto per lui il brano del romanzo, invitandolo a scoprire dove inzia e finisce la citazione di Bulgakov.
Da "La verità ci rende liberi" cap. 23 - L'addio a Pilato.

Ma se Pilato aveva convocato d’urgenza Saulo prima di partire, non lo aveva fatto per discutere su come il nuovo discepolo aveva intenzione di impostare la diffusione del Vangelo. Prima di partire avrebbe voluto per l’ultima volta cercare di capire l’essenza di quel messaggio, cercare di darsi una risposta alla domanda che gli si era fissata nella mente da quella maledetta sera: “Che cosa è la verità”.Era venuto malvolentieri in Palestina. Aveva considerato l’incarico una sorta di punizione, se non di condanna. Aveva vissuto quegli anni nella speranza e nell’attesa d’un nuovo incarico, ed ora che l’incarico era arrivato, gli dispiaceva quasi di dover partire.Alle volte girando nel deserto, la veste si impiglia negli arbusti, dovendo proseguire, la veste si strappa e in quel brandello di veste è come se restasse qualcosa di noi. Quella domanda senza risposta era come un brandello di sé, rimasto nel deserto della Palestina. Anche se fosse finito a governare tra le nevi della Britannia, quella domanda rimasta impigliata tra le spine della Palestina, l’avrebbe inseguito fino alla morte. A meno che non fosse riuscito a darsi una risposta.Prima dell’arrivo di Saulo c’era stato un violento temporale, ma adesso il sole era tornato su Gerusalemme e, prima di andare ad affogare nel Mediterraneo inviava raggi di addio alla città odiata dal governatore e indorava i gradini dell’ingresso del palazzo. La fontana del cortile si era completamente ripresa e cantava a piena voce, i colombi erano ritornati sulla sabbia del cortile, tubavano, saltavano i rami rotti dalla furia del temporale, beccavano qualcosa nella sabbia bagnata. Sul tavolo preparato sotto il fresco del porticato, fumava un piatto di carne.“Ma cosa vuoi che ti dica che non ti abbia già detto?” disse Saulo avvicinandosi al tavolo assieme a Pilato.“Nulla finchè non ti sarai seduto ed avrai bevuto un po’ di vino,” rispose gentilmente Pilato, sdraiandosi, e indicò l’altro letto. Saulo si sdraiò e un servo gli versò del denso vino rosso. Un altro servo, chinandosi con cautela sulla spalla di Pilato, riempì la coppa del governatore. Poi questi allontanò i due servi con un gesto.Mentre Saulo mangiava e beveva, Pilato, sorseggiando il vino lo guardava attraverso le palpebre socchiuse. Avrebbe voluto entrare nella sua mente, capire che cosa veramente intendeva quando parlava d’essere stato illuminato.Saulo non rifiutò neppure una seconda coppa di vino, inghiottì con evidente soddisfazione un paio di ostriche, assaggiò la verdura lessa, mangiò un pezzo di carne. Saziatosi, lodò il vino:“Ottimo vitigno, governatore, ma non è Falerno?”“Cecubo di trenta anni,” replicò affabile Pilato.Saulo si mise una mano sul cuore, rifiutò di mangiare altro, affermò di essere sazio. Allora Pilato riempì la propria coppa, l’ospite lo imitò. Entrambi rovesciarono un po’ di vino nel vassoio e il procuratore disse a voce alta, alzando la coppa:“Per noi, per te, Cesare, padre dei romani, il più caro e il più buono degli uomini!”Dopo queste parole vuotarono la coppa e gli schiavi africani tolsero le pietanze dal tavolo lasciandovi la frutta e le caraffe. Di nuovo il procuratore li allontanò con un gesto, e rimase solo con il suo ospite nel porticato del palazzo. Solo allora Saulo notò che sul tavolo c’era una terza coppa.“Per chi è?” chiese incuriosito, immaginando che dovesse arrivare qualcun altro.“Per nessuno,” rispose serio Pilato. “E’ questa coppa il motivo per cui ti ho fatto chiamare. Non te ne avevo mai parlato. Ma forse non è un caso che sia qui… Forse la verità è come un mosaico, fatto di tante piastrine in se insignificanti, ma che ricomposte formano una figura. Me l’ha data Pietro uno dei seguaci di Jeshù, arrestato con lui in quella famosa notte. Ho visto che ci teneva, ma pur di salvarsi quella notte mi avrebbe consegnato anche sua madre. Mi ha raccontato che era la coppa nella quale Jeshù aveva bevuto la sera prima, accompagnando il gesto con delle parole misteriose.”
[1] La scena è una citazione-copia dal Maestro e Margherita di Bulgakov

mercoledì 10 dicembre 2008

La fine dei Carni.


Continuano a dirmi che le storie che scrivo sui Celti in Carnia me le sto inventando. Giuro che non è vero, che parto sempre da qualche documento. Ma nessuno mi crede. Non ho quindi grandi speranze che mi si presti fede su questo importante ritrovamento che ho fatto in una vecchia casa di Formeaso, o per l’esattezza in un rustico adiacente. Il proprietario aveva incaricato una Ditta di provvedere a rifondare l’edificio. Gli operai scavando nello scantinato, solo per caso riuscirono ad evitare un grave incidente sul lavoro. D’un tratto un pezzo del pavimento era crollato, mettendo alla luce l’esistenza di un altro piano interrato. Passato lo spavento per il rischio evitato di finire di sotto, gli operai hanno urgentemente l’impresario. Questi pensò che si dovesse andar sotto a vedere, non fosse altro perché si doveva pensare ad una variante per rimediare all’imprevisto. Si fece calare personalmente. “E’ solo una piccola grotta” disse da laggiù. “La si può riempire con una betoniera di calcestruzzo e il problema è subito risolto, senza neppure scomodare l’ingegnere direttore dei lavori”. Alla sera avvertì della cosa il proprietario, spiegandogli di come era stato efficiente nel risolvere l’imprevisto…”s’immagini se l’avesse saputo la Soprintendenza!..”Ho comunque controllato, prima di riempirla, se c’era qualcosa nella grotta, ma ho trovato solo questo recipiente arruginito che comunque le ho recuperato”.
Il mio amico s’era così trovato tra le mani una sorta di piccolo secchio chiuso con il coperchio. Avrebbe voluto inveire contro l’impresario che preso quella stupida decisione senza informarlo. Ma se la grotta era già stata riempita di calcestruzzo non c’era più nulla da fare. Non senza fatica riuscì ad aprire il secchio e si trovò tra le mani un rotolo di pergamena. Quando mi chiamò a vedere il reperto gli dissi che avrebbe dovuto consegnarlo alla Soprintendenza. Convenni con lui che sarebbe però scoppiato un casino. “Roba da finire in galera, per uno stupido di impresario!…”
Mi lasciò la pergamena per alcuni giorni e riuscii a trascriverla integralmente. Era scritta in latino e vi si parlava della conquista definitiva della Valle del But da parte dei Romani e della definitiva sottomissione dei Celti al potere di Roma. E’ vero che ho fatto l’insegnante di latino e quindi avrei anche potuto tradurla alla lettera, ma a me sono sempre piaciute le traduzioni libere nelle quali il traduttore reinterpreta il testo, mettendoci anche qualcosa di suo, e così ho reinterpretato liberamente anche la pergamena di Formeaso. Non ho competenze sufficienti per stabilire a che epoca risalisse, ma giurerei che è stata scritta all’epoca dei fatti che racconta, e quindi al secondo secolo dopo Cristo.
Racconto di come i Carni si sono infine sottomessi al potere di Roma. Così titolava la pergamena, e si capisce subito che è un racconto di parte, fatto da un carnico che non può non riconoscere la fine dell’autonomia del Carni, ma che la vuol far passare quasi come una decisione dei Carni, piuttosto che il risultato di una sconfitta militare. Da come sono andate le cose, almeno nel suo racconto, non credo abbia tutti i torti.
E’ vero che il trionfo per la vittoria sui Gallo-Carni l’aveva celebrato il console Emilio Scauro nel a.C. E’ vero che già da quei tempi la valle del But era stata occupata dai Romani che avevano costituito un loro avamposto tra Zuglio e Formeaso per presidiare la strada che portava al passo di Monte Croce. Ma è anche vero che la conquista si limitava al fondovalle e che sulle montagne della Carnia continuavano ad abitare indisturbati i Carni. Pare accertato anzi che tra i due popolo per un diversi secoli si fosse stabilita una sorta di pacifica convivenza.
Ci fu un periodo quindi nel quale la Carnia era divisa in due parti: quella romana nel fondovalle e la Carnia libera dei Celti sulle montagne. Cerano due sistemi di viabilità, una romana di fondovalle, ed una celtica in quota. E’ stato evidentemente il periodo più importante per la storia della Carnia, quello nel quale, come in un crogiuolo si sono fuse due civiltà, quella celtica e quella romana, per dare vita ad una civiltà ed una cultura nuova, assolutamente originale, derivata dall’incrocio e dalla fusione lenta tra le due culture precedenti così profondamente diverse.
Ma quando nella prima metà del Trecento, Costantino decise di creare un nuovo collante per l’impero facendo della religione cristiana una religione di stato, si pose il problema di unificare sotto lo stesso Dio tutti i popoli dei territori dell’Impero romano. Anche in Carnia si pose quindi il problema di conquistare-convertire i Carni che sulle montagne continuavano ad adorare Beleno.
Nel 370 l’imperatore Valentiniano che si era dedicato con energia alla sistemazione dei confini, volendo rafforzare il collegamento con il Norico, decise di intervenire da un lato migliorando la viabilità nella valle del But, dall’altro sottomettendo tutto il territorio. Della scelta di migliorare la viabilità resta traccia su una lapide a Monte Croce Carnico che ricorda gli interventi fatti nel 373 dal curatore Apinio Programmatio che aveva aperto nuovi tratti di strada. Della scelta di procedere alla conquista definitiva dà atto la nostra pergamena, che trova conferma nella storia ufficiale dell’Imperatore Valente (364-375) che morì per un colpo apoplettico il 18 novembre 375 a Brigezio (Szony in Ungheria) mentre era impegnato a difendere dai Quadi iconfini orientali dell’Impero..
Al mese di agosto dello stesso anno della sua morte risalgono le vicende narrate nella pergamena. Transitando per la valle con l’esercito per andare in Ungheria aveva infatti deciso di fermarsi qualche giorno a Julium Carnicum per fare una spedizione sulla montagne e ottenere la definitiva sottomissione dei Carni. Erano proprio i giorni in cui i Carni festeggiavano la festa di Lugnasad. Come si racconta anche nel libro” I Celti ritornano”, i Carni erano soliti fare festa tutti assieme ogni anno in una località diversa. Quell’anno la festa doveva tenersi nella valle del Ciaroj.
Valentiniano si accampò con le sue legioni a Julium Carnicum e pensò di approfittare del fatto che per la festa di mezza estate si radunavano tutti i capi proprio nella valle di fronte. Gli sarebbe stato facile catturarli per farli prigionieri e conquistare definitivamente la Carnia.
Nell’attesa diede anche ai suoi legionari la libertà di darsi alle feste in onore di Bacco.
A Julium Carnicum si festeggiava Bacco con il vino che le truppe romane avevano al seguito, nella valle del Cjaroi si festeggiava Beleno con una infinita varietà di idromele!
I Celti iniziarono i festeggiamenti già il venerdì, giornata dedicata alla religione ed alla cultura e alla sera mentre impazzavano le musiche celtiche in ogni villaggio della valle, dai luoghi prominenti della valle venivano lanciate le “cidules” infuocate accompagnate da versi in onore di Beleno.
Il sabato la festa dilagò e la valle fu tutta piena di suoni e di colori. Nella notte in tutti i paesi, ma anche nei casolari sparsi e fino in alto negli alpeggi, si accesero i falò incendiando le mede costruite con le fascine che avevano meravigliato a suo tempo anche Cesare.
La domenica secondo la tradizione scesero tutti ad Arta a purificarsi alla fonte d’acqua pudia. Fu allora che Valentiniano mosse l’esercito da Julium Carnicum ad Arta.
Praticamente non ci fu scontro. I legionari si mescolarono ai Celti, i capi dei Celti si incontrarono con l’imperatore e presero atto che non ci potevano essere due Carnie una del fondovalle ed una delle montagne, ed accettarono di sottomettersi alla dominazione romana.

lunedì 21 luglio 2008

Lo Sbilf di Davài.

C’è chi sostiene che Sbilfs e Gans sono la stessa cosa, addirittura che i due termini sono sinonimi. Nulla di più falso! Se non fossi così disordinato potrei anche trovare nel mio studio i documenti che attestano questa diversità. Ma visto il disordine che regna la ricerca potrebbe risultare inutile. Chiedo dunque mi si creda sulla parola. Nella valle del Degano i Gans, come si è già visto per l’altopiano di Lauco, avevano occupato il versante sinistro della valle, gli sbilfs si erano attestati preferibilmente su quello destro, ed in particolare sull’altopiano di Pani, sopra Raveo. Non è che la separazione fosse assoluta, ed infatti la vicenda dello sbilf di Davai di cui vi voglio parlare, si riferisce ad uno sbilf che aveva attraversato il fiume ed si era insediato sul terrazzo dove ai nostri tempi sorge il cimitero della Frazione di Avaglio del Comune di Lauco.
E’ noto che gli sbilf amano i luoghi ove si sente il respiro della valle sottostante e per sentire la valle del Degano il costone su cui è stato posto il cimitero è veramente eccezionale. I carnici di oggi utilizzano i posti più panoramici per costruirci i cimiteri, nell’idea di passare la vita eterna a sentire il respiro della valle. Gli sbilf, molto più pratici, pensavano che si dovessero godere in vita le bellezze del paesaggio e della natura. Per questo il nostro sbilf s’era costruito un rifugio proprio sul ciglio dello strapiombo da cui si diparte il terrazzo naturale sul quale si è sviluppato il paese di Davài. Così in lingua originale, Avaglio invece, come in qualche momento della sua storia il nome è stato tradotto da qualche scrivano ignorante.
Come casa uno sbilf non aveva bisogno di granchè…Il nostro aveva raccolto alcune stoppie di granoturco nei campi vicini, ed aveva realizzato un piccolo covone, come quelli che si vedono d’autunno in giro per i campi della Carnia. Su un lato aveva lasciato una piccola apertura che di notte chiudeva con un fascio di stoppie a mo’ di porta. Tutto qui…oltre naturalmente ad un comodo pagliericcio, ricavato con le foglie delle pannocchie di granoturco…quelle che, per capirci, anche gli umani usano per riempire i “paiòns” cioè i rudimentali materassi sui quali passano le notti.
Ma perché s’era andato a collocare proprio lì, venendo dagli altipiani opposti di Pani e Valdie? Lo capirono subito le donne di Davài che andavano al lavatoio posto all’uscita del paese: era un guardone maniaco! Se ne stava tutto il giorno a guardarle mentre lavavano i panni. Non è che ci fosse granchè da vedere. A quel tempo le donne non usavano le minigonne, ma al lavatoio per non sporcare le lunghe gonne fino ai piedi, erano solite tirarle su quasi fino al ginocchio…Così allo sbilf capitava alle volte di intravedere qualche polpaccio femminile nudo…e gli bastava quello per perdere la testa…Avendo intuito di quale piede andasse zoppo lo sbilf, Giulia la più bella ragazza del paese prese a mettersi sempre nel primo lavatoio, mettendo bene in vista i polpacci nudi…Potete immaginare lo sbilf… Non riusciva più a dormire la notte, sognandosi quella gamba di donna nuda! Sogna che ti sogna…alla fine si trovò talmente innamorato, che una sera non gli riuscì di evitare la pazzia di seguire Giulia nella sua casa. Gli sbilf infatti non dovrebbero entrare di giorno nelle case degli umani…. E tantomeno nella casa d’una ragazza sola…. Giulia infatti abitava da sola, perché gli erano morti i genitori e non aveva fratelli, proprio nella casa dove adesso c’è il bar, che giustamente è stato intitolato allo sbilf…
Giulia s’era accorta d’essere stata seguita…ma era una sbarazzina ed era molto incuriosita anche lei di vedere che cosa sarebbe stato capace di fare quel piccolo mostriciattolo dello sbilf, e lasciò aperta la porta perché potesse entrare dopo di lei…Lo sbilf era alto attorno ai trenta centimetri, se tutto fosse stato in proporzione, non c’era neppure il rischio che la potesse stuprare. Questo pensava la ragazza per tranquillizzarsi…ma se avesse potuto entrare nella testa dello sbilf e leggere i suoi pensieri sarebbe stata ancora più tranquilla…Lo sbilf l’amava intensamente, ma d’un amore platonico, gli piaceva solo guardarla, pensarla, amare l’immagine che di lei con lo sguardo di portava nel cuore…mai avrebbe avuto il coraggio neppure di sfiorarla, voleva solo guardarla, e guardandola si beava come se si fosse trovato d’incanto in paradiso, davanti al più bello degli angeli… S’era rannicchiato in un cantuccio della casa e la guardava…e gli mancava quasi il respiro…
“Non mi dici niente?” chiese lei.
“Non ho nulla da chiedere… Grazie d’avermi fatto entrare…Voglio solo guardarti, come il sole guarda l’acqua del ruscello, come la luna guarda le ombre della notte, e l’alba le gocce di rugiada appese alle corolle dei fiori…
“Siete poeti voi sbilfs!”
“La poesia è dentro alle cose e non nel cuore dei poeti…tu sei una poesia…”
“Grazie!” sussurrò Giulia che dai ragazzi di Davài, non aveva mai ricevuto un complimento così bello.
“Non hai un moroso?” le chiese lo Sbilf.
“Son tanti i ragazzi che mi fanno la corte, ma non riesco ad innamorami di nessuno. Credo che l’amore non debba essere una scelta della ragione, ma un moto istintivo del cuore”.
“Anche noi sbilfs la pensiamo allo stesso modo, ma l’innamoramento perfetto si ha quando alla scelta della ragione s’unisce l’impeto del cuore. Per ringraziarti dell’accoglienza, voglio farti un regalo, trasferendo a questa casa uno dei miei poteri magici. Tra queste mura s’incendieranno i cuori, il tuo e quello del ragazzo che avrai scelto di lasciare entrare…Questo mio potere magico resterà alle mura della casa, finchè non tornerò a riprenderlo!!!...
“Giulia non sapeva che dire…stava ancora pensando alle parole sull’innamoramento perfetto e non si accorse neppure che lo sbilf, senza aggiungere altro, senza neppure una parola di saluto, aveva aperto l’uscio e se n’era andato avvolto nelle ombre della notte che intanto erano calate sul piccolo paese…L’avrebbe cercato il giorno dopo per dirgli grazie…
Ma alle sue amiche non era sfuggita la scena dello sbilf che la seguiva in casa. Gelose, avevano raccontato la cosa ai Gans di Trava, che si erano arrabbiati di brutto…”Come? loro ad aiutare le donne e portare i pesi, e un cicisbeo di sbilf a far moine alla più bella…All’alba del giorno dopo vennero in forze da Trava a Davài, raggiunsero il costone dove lo sbilf aveva costruito il suo ricovero. Lui protestava che non aveva fatto nulla di male…che sentissero, diceva, la testimonianza di Giulia…Ma i Gans avevano già deciso, non potevano accettare d’essere stati fatti fessi da un intruso di forestiero…Fecero muro davanti allo sbilf costringendolo a ritirarsi fin sull’orlo del burrone…Sospinto da loro fu costretto a fare ancora un passo all’indietro, perse l’equilibrio e poi precipitò nel burrone con un grido straziante, che si sentì per tutta la valle…
Finì così lo sbilf di Davài, senza riuscire a riprendersi il dono magico che aveva fatto alla casa di Giulia, potere magico che è quindi rimasto attaccato alle pietre della casa, e dura ancora…Chi ragazzo o ragazza sta facendo la corte a qualcuno senza riuscire a farlo innamorare, se con una scusa qualsiasi riesce a portarlo o portarla nel bar allo Sbilf ad Avaglio…E’ fatta!...Tra quelle mura, riprende forza la magia dello sbilf… si diffonde nel ambiente come un magico profumo il potere dell’amore, ed entra inarrestabile e irresistibile nel cuore dei presenti…
Provare per credere!!!…Per questo, da quella volta, Avaglio è diventato famoso come il paese dell’amore!!!...

domenica 13 luglio 2008

ArPaZu




Al tempo della notte dei tempi, anche nella Carnia viveva il popolo dei piccoli uomini, degli Sbilfs dei Guriùts, dei Gans e delle Vinadie. Un giorno un Guriùt di nome Cjaròi, salendo sul monte Arvenis, la montagna cuore della Carnia, volle entrare a curiosare nella grotta che si trova quasi in cima al monte. E con sua grande sorpresa scoprì che dentro c’era già qualcuno. Un elfo, un piccolo uomo molto strano per nulla simile nè ai Guriuts ne agli altri elfi che aveva conosciuto sulle montagne.
Se Cjaròi avesse avuta la nostra conoscenza gli sarebbero venuti in mente i tre moschettieri. Per il cappello a larghe tese che aveva in testa, ma soprattutto per i vestito che indossava come quello dei moschettieri, o se si vuole come la pianeta che il parroco indossa dicendo messa. A tutto campo, al posto della croce c’era uno strano simbolo. Un grande cerchio, come quelli che si usano per il tiro a segno, con una freccia sulla destra e due gambe sotto.
“Da dove vieni” gli chiese Cjaròi.
“Non so bene rispose l’altro se da un altro mondo, o da un altro continente di questo mondo!”
Colpito dalla stranezza della risposta Cjaròi insistette:
“Ma se non sai da dove vieni come mai sei qui”
“Mi ha portato qui il desiderio di conoscenza”
“Il desiderio di conoscenza non può trasportare fisicamente i viventi”
“Perchè no? Se la fede può spostare le montagne, perchè la fede nella conoscenza non potrebbe trasportare i viventi”. Ad una logica così stringente ed assurda allo stesso tempo Cjaròi non seppe cosa replicare.
Gli chiese allora come si chiamasse.
“Arpazù!” rispose. “Per l’esattezza, aggiunse poi, mi dovrei chiamare Arpa Azzurra, ma sin da piccolo gli amici hanno preso a storpiare ed abbreviare il mio nome che è diventato appunto Arpazù”.
“Suona bene Arpa Azzurra!” commentò Cjaroi, mi ricorda i nomi che usavano gli indiani d’America. Ma che senso ha dare un aggettivo di colore ad uno strumento musicale?
“Da noi anche per i viventi si usano nomi poetici, e la poesia è fatta di metafore. Il suono dell’arpa evoca l’azzurro del cielo ove si perde il pensiero dei viventi seguendo il vibrare delle note dell’arpa.
Cambiando discorso gli chiese allora che cosa significasse lo strano simbolo che portava sul vestito.
“E’ il simbolo della nostra filosofia di vita” gli rispose. E’ necessario darsi lo scopo di centrare un obiettivo, allora diventa chiara la direzione da seguire, e si trova la forze nelle gambe per seguirla”.
Cjaròi invitò lo strano piccolo uomo a seguirlo, avrebbe voluto presentarlo ai suoi amici su nella valle ai piedi dello Zèrmula. Ma scesi a Zuglio mentre attraversavano il torrente But, incontrarono un gruppo di Vinadie, le fate scese dalle montagne per bagnarsi nelle acque pure e fresche del torrente. Queste, curiose come tutti gli esseri femminili, si fecero loro attorno chiedendo a Cjaròi chi fosse quel suo così strano ed originale compagno di viaggio.
“E’ uno venuto qui per conoscere!” disse Cjaròi per darsi importanza facendo il misterioso.
“Ma perchè vuole conoscere?” chiesero in coro le Vinadie.
Rispose Arpazù come se la domanda fosse stata diretta a lui: “Voglio conoscere tutto ciò che è altro, per conoscere meglio me stesso. Da noi si dice che per essere felici si deve conoscere se stessi, e che per conoscere se stessi si deve conoscere gli altri, il diverso. Per questo il mio desiderio di conoscere mi ha spinto fino qui”.
Non riusciva a spiegarsi ed a spiegare come fosse finito nella grotta sulla cima del monte Arvenis. Ma il saperlo era in fondo una curiosità inutile. Sbilfs, Guriuts, Gans ed Aganis della Carnia considerarono dei loro il nuovo arrivato Arpazù, e lo presero a modello per quel che diceva sul conoscere e fecero proprio il suo logo ed il suo motto
“assumere un obiettivo
per sapere dove andare
e trovare nelle gambe la forza per andare”.


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lunedì 2 giugno 2008

Le campane di San Pietro.



Da brava ricercatrice, Lella, dopo il racconto sulle Agane del Monte Dauda, pensò di verificare subito se nei paesi sugli altri versanti della montagna, si riportasse la stessa leggenda. Decise quindi di recarsi a Fielis. Passando con il fuoristrada sotto alla Pieve di S.Pietro in Carnia sentì suonare le campane e così d’istinto decise di cambiare programma per fermarsi a vedere se c’era qualcuno alla Pieve. Il fatto che suonassero le campane non significava che ci fosse qualcuno, le campane ormai suonano con il motore elettrico comandato da un orologio programmato. Ma per questo non si poteva escludere che ci potesse essere anche il sacrestano-campanaro.
E’ c’era infatti. La porta del campanile era aperta e lo si sentiva scendere le scale con qualche imprecazione non proprio consona con il luogo sacro. Uscì infine alla luce del sole scuotendosi i capelli per liberarsi dalla polvere. Restò sorpreso di trovarla lì ad attenderla. Se l’avesse saputo non si sarebbe lasciato andare a tutte quelle giaculatorie…
“Nei giorni feriali, non c’è mai nessuno” disse, quasi a scusarsi, rispondendo così al suo saluto.
“Stavo andando a Fielis e mi sono fermata per caso”.
“Ma guardi che anche in paese non c’è quasi anima viva. Sono rimasti quattro vecchi..”
“E sono proprio i vecchi che mi interessano. Sto facendo una ricerca sulle leggende della Carnia, sto cercando persone anziane che se le ricordino”.
“Ah! Ma sono così tante le leggende in Carnia…”
“A me interessano in particolare quelle sulle Agane!”
L’affermazione di Lella sorprese il suo interlocutore che con evidente imbarazzo replicò: “Ma le Agane non sono una leggenda, sono storia. C’erano una volta anche qui sul colle di S.Pietro le Agane”
Il sacrestano di S.Pietro aveva le stesse convinzioni del vecchio di Dolaces. Usava le stesse parole per ribadire che le Agane sono un elemento reale e non fantastico della storia della Carnia.
Lella non sapeva come interpretare questa convinzione così radicata. Non capiva neppure perché i due anziani ci tenessero a sottolineare allo stesso modo la differenza tra la storia, riporto di avvenimenti realmente accaduti, e la leggenda, riporto di vicende inventate. Proprio a livello popolare pensava che doveva essere normale il riconoscere che storia e leggenda si incrociano e si mescolano. Ci sono leggende che nascono da fatti di storia, e ci sono fatti di storia che sono finiti in leggenda. Certe leggende sono nate dalla fantasia di qualche autore ma sono nate per spiegare la storia…
Riteneva comunque che avrebbe sviluppato questi concetti nelle premesse della sua ricerca, e che non era certo il caso di discuterne con il sacrestano. Per avere il suo racconto gli conveniva accettare senza discutere il suo punto di vista.
“Se ci sediamo un momento potrebbe raccontarmi cosa sa delle Agane che vivevano qui”.
“Volentieri!” disse lui, come se finalmente avesse trovato qualcuno che manifestava interesse ai suoi racconti. “Se vuole sedersi lei”, aggiunse, “io preferisco stare in piedi”.
Zoppicava vistosamente, e questo spiegava la sua difficoltà e le se imprecazioni nello scendere le ripide scale della torre campanaria. Ma, tutto agitato, continuava a muoversi avanti e indietro quasi dovesse tenere in esercizio la gamba malata. Piccolo e tarchiato, con una folta capigliatura di capelli bianchi, con quel suo incedere ondulato fece venir in testa a Lella l’idea che fosse uno gnomo. Sorrise tra sé, senza far commenti con il suo interlocutore, e si sedette su una panchina di pietra, appoggiata al campanile, mentre lui prendeva a raccontare continuando a girarle attorno.
Da generazioni la sua famiglia aveva l’onere e l’onore del compito di sacrestano della Chiesa matrice della Carnia. Da generazione in generazione trasferendosi l’incarico da padre a figlio si erano trasmessi anche il racconto delle Agane, che aggiungeva un elemento di mistero ma anche di poesia al loro compito di suonare le campane della pieve. Dovevano scendere dal paese ogni mattina alle sei per l’ave maria, a mezzogiorno per il segnale di mezza giornata e poi alle otto di sera di nuovo per l’Ave Maria del riposo della notte. Questo ogni giorno, per tutti i giorni dell’anno, poi c’erano le messe, lo scampanio delle feste…Era un compito chi richiedeva anche molta fatica. Per fortuna poi è arrivata l’elettricità, l’orologio programmato…Ora l’impegno è meno pesante, ma c’è sempre qualcosa che non funzione, e gli anni sono andati su…e pesano, ogni anno di più. E’ una fatica che si fa volentieri come servizio alla chiesa, ma anche…
“Guai se mi sentisse l’arciprete…” Anche per l’impegno assunto con le Agane…
E’ una storia lunga iniziata ancora nel seicento…A quei tempi tutti sapevano che sul colle di S.Pietro, nel cimitero che circonda la Chiesa, si raccoglievano ogni sera le Agane di tutta la valle del But. Tutti lo sapevano e lo ritenevano normale. Nel cimitero venivano sepolti i morti di tutta la valle ed alla sera le Agane si intrattenevano con loro. I vivi non riescono a parlare infatti con gli spiriti dell’ultramondo, ma i morti sì. E la conferma che ci fosse questo incontro l’avevano anche i vivi che potevano vedere ogni sera riempirsi il cimitero di lucciole come se ogni sera d’ogni giorno dell’anno fosse stata la notte di S.Giovanni. Ad eccezione della notte dei morti!…Quella notte le Agane non si facevano vedere e lasciavano che brillassero le fiammelle accese dai vivi a suffragio dei loro morti.
Tutti sapevano, compreso il prevosto, che sapeva ma faceva finta di non sapere. Se l’avesse saputo sarebbe stato costretto a prendere dei provvedimenti che l’avrebbero posto in cattiva luce nei confronti dei suoi parrocchiani che apprezzavano l’omaggio serale delle Agane ai loro morti. Finchè la notte di morti del 1615 fu costretto a vedere, e non potè far finta di non vedere…
Nessuno seppe spiegarsi l’incidente, per anni, per secoli la sera dei morti non s’erano fatte vedere, quella notte le fiammelle delle agane che si libravano nell’aria del cimitero si unirono alle fiammelle dei ceri degli uomini. Quando arrivò il prevosto con la processione dal paese, fu costretto a vedere ed a far rapporto al Tribunale dell’Inquisizione sul fenomeno di cui era stato testimone. Il notaio di Zuglio che era uomo dotto, riuscì anche a dare una spiegazione: ci sono tanti diversi calendari, per cui la Pasqua degli ortodossi non coincide con quella dei cattolici, forse il calendario delle Agane aveva una sfasatura che per quell’anno non l’aveva fatto coincidere con quello gregoriano. A Roma nello stesso anno il S.Uffizio discuteva con Galileo se il sole gira attorno alla terra o viceversa, e forse anche questo poteva aver generato confusione tra le Agane… Più che una spiegazione dotta era sembrata ai più una spiegazione bizzarra. Ma dotta o bizzarra che fosse, e qualsiasi fosse la spiegazione vera, l’incidente c’era stato. Il prevosto aveva messo in moto la macchina dell’inquisizione. Una macchina che si muoveva come un tritasassi. Gli abitanti di Fielis furono chiamati a Udine a testimoniare che avevano preso lucciole per lanterne, comunque a scanso di equivoci al prevosto fu chiesto di fare uno esorcismo contro la presunta presenza delle Agane, sul colle di S.Pietro…
Le Agane c’erano davvero e per l’esorcismo furono costretta ad abbandonare il luogo. Anche le Agane come il diavolo furono costrette a trattare con l’esorcista e chiesero di potersi rifugiare alla sera sul monte Dauda. Aggiunsero una richiesta strana: quelle di essere accompagnate dal suono d’una campana. “Ogni sera il sacrestano suona alle otto l’Ave Maria, se ritenete che quel suono vi possa accompagnare…basta che non si sappia in giro del compromesso…L’unico ad essere messo a conoscenza del segreto fu per necessità il sacrestano. Con obbligo di mantenere il segreto, pena la morte eterna, e di comunicarlo solo ai suoi successori…
Anche adesso che le campane suonano senza l’intervento dell’uomo, ogni sera alle otto di sera la cella campanaria si riempie di lucciole, e si illumina. Ai primi rintocchi con il suono che sale verso il monte portato dalla brezza della sera, al suono s’accompagna una scia di luce che sale e si perde su nel bosco sopra Fielis, per arrivare fino alla cima della montagna.
“Ecco ti ho svelato il segreto!” concluse il sacrestano agitandosi sempre più. “Io non ho figli a cui tramandarlo. Forse dopo di me non ci saranno neppure più sacrestani alla Pieve. Dal momento che mi hai detto che ti stai interessando alle Agane mi sei parsa la persona più adatta cui confidarlo”

L'uomo che parlava alle Agane.


Lella faceva la ricercatrice all’Università di Udine, ad antropologia, o in qualche altro simile corso di laurea. Era sta incaricata di una ricerca sulle Agane in Carnia. Doveva indagare sul perché nella Carnia, più che nel resto della montagna friulana, fosse venuto meno nella tradizione popolare, il ricordo delle Agane. Come si sa, questi spiriti dell’acqua sono noti in tutta la montagna con il nome di Agane, Aguane, Anguane, Aganis, Gane, Vivane ed altro, e sono descritti in modi molto diversi, alle volte come bellissime fate altre come bruttissime streghe dalle mammelle a penzoloni. Nella Valcellina la loro memoria è rimasta fino a dare il nome all’Ecomuseo della valle. Nella Valcanale, ed in particolare a Chiusaforte, si ricordano associate a varie località. Tra i ladini delle Dolomiti, sono molto diffuse le leggende sulle anguane e proprio con una Anguana che adotta una bambina, prende inizio la saga dei Fanes, la saga sull’origine dei ladini. A livello nazionale l’Anguana ha dato il nome al Museo dell’uomo e della montagna istituito dall’Istituto Nazionale di Ricerca sulla montagna.
Questi dati Lella se l’era scritti nelle premesse. Aveva anche definito che il passaggio da fate a streghe fosse la conseguenza degli interventi dell’Inquisizione che aveva cercato di demonizzare le tradizioni legate alla visione panteistica d’una natura viva, popolata da spiriti che sapevano entrare in relazione con gli uomini. Ma il suo compito vero era quello di fare una ricerca sul campo, verificando se in qualche paese della Carnia, si parlava ancora delle agane. Aveva visitato Vinaio, con l’idea che Gans fosse una ulteriore variazione del nome. Ma come s’è già avuto modo di vedere a proposito dei Gans di Trava, questi esseri non potevano essere confusi con ninfe d’acqua.
Comunque la visita a Vinaio non era stata vana, da una vecchia del paese, aveva avuto l’informazione che nella borgata di Dolàces c’era un vecchio pastore, Meni di Flèch che raccontava storie di Agane.
Nella speranza di aver trovato finalmente una pista da seguire, il giorno dopo salì con il fuoristrada fino in Malga Corce e poi raggiunse a piedi Dolaces. Oggi la borgata è disabitata, ma già al momento della visita di Lella tutti gli abitanti avevano lasciato le loro case per trasferirsi più a valle, ad eccezione di uno, appunto Meni di Flech che continuava a vivere come un eremita, deciso a non abbandonare il suo paese “se non nella cassa da morto”.
Si era ai primi di maggio, e la primavera era finalmente arrivata anche nella borgata a 1300 m. sul mare, alle falde del monte Dauda, esposta a nord, abitata quando per sopravvivere non si poteva guardare troppo per il sottile, ed uno spiazzo coltivabile, anche se troppo in alto e con cattiva esposizione, poteva andar bene per ricavare l’indispensabile alla vita di una famiglia.
Meni di Flech stava crogiolandosi al primo tiepido sole, seduto sulla panca di legno a fianco dell’ingresso della sua casa. Aveva gli occhi aperti eppure Lella aveva l’impressione che non l’avesse vista, pur essendo già arrivata a pochi metri da lui. L’avevano avvertita a Vinaio che si trattava di una persona originale. E si poteva ben dire originale il vecchio che le stava davanti, con quel cranio lucido come una palla di biliardo al quale faceva da contrappunto una barba bianca, folta e non curata. In mezzo un viso bruciato dal sole, segnato da rughe profonde, scavate dal tempo, dal quale emergevano due occhi azzurri fissi a guardare nel vuoto. Ma quel non essere vista, quegli occhi che guardavano e non vedevano, come se anche gli occhi fossero assorti a guardare nel pensiero, era qualcosa di troppo originale...
Pensò che fosse pazzo, e per un momento esitò… Per una giovane donna, non era certo consigliabile l’intrattenersi sola con un pazzo, tra le case deserte d’un paese abbandonato in mezzo alla montagna. Ma la curiosità della donna e della ricercatrice vinse sui pur legittimi timori.
“Buongiorno!” lo salutò fermandosi a due passi da lui.
Al saluto parve svegliarsi, e la guardò stupito come chi si sveglia dopo un brutto sogno a fa fatica a riconoscersi nella realtà che lo circonda. Tra quelle case ormai pericolanti non era certo abituato ad aprire gli occhi su una bella ragazza, e infatti rispose al saluto con un: “che ci fa lei qui?” che sembrava più a un se ne vada, piuttosto che ad un s’accomodi.
“Non la voglio importunare!” volle precisare Lella per scusarsi in anticipo, ancora meno sicura d’aver fatto bene a svegliarlo. “Se vuole me ne vado subito!”
“Ma allora perché è venuta?”
“Per motivi di studio, devo incontrare persone che conoscono delle leggende!”
Rise divertito. E Lella si tranquillizzò, forse la persona non era poi così poco raccomandabile come la faccia la faceva apparire. A volte, anche tra gli uomini, non c’è corrispondenza tra contenitore e contenuto...
“Ai miei tempi si studiavano le tabelline, non le leggende”, disse ridendo.
“Sa, è un po’ tutto cambiato!” commentò lei cercando di ingraziarselo.
“A chi lo dice! Ma che leggende le interessano?”
“Quelle sulle Agane.”
Si rabbuiò come se quella parola fosse stata una provocazione nei suoi confronti: “Le Agane, non sono una leggenda”, disse con forza. “Si sono ritirate ad abitare sulla cima del monte Dauda” e indicò con la mano la montagna in alto, alle cui pendici si trovava la borgata
Per una che cercava si sapere qualcosa sulle Agane, trovarsi con uno che era convinto esistessero ancora, era una vera fortuna, Lella si vedeva già con tra le mani una ricerca degna di pubblicazione.
“Come fa a sapere che abitano ancora sul Dauda”
“Lo testimoniano i ruderi della malga di Chiàs di sopra”
“Ma cosa hanno a che fare i ruderi di una malga con le Agane?”
La fece sedere sulla panca vicino a se, come se fosse una sua nipote, e prese a raccontarle la breve storia della malga.
Devi sapere che il Daùda è una montagna sacra!
Alle sue pendici, dalla parte di Zuglio, c’è la malga che prende il nome dal monte, da questa c’è la malga Chiàs. Ma sono due malghe di mezza quota, la cima della montagna, non è mai stata utilizzata a pascolo perché è la casa delle Agane. Ai miei tempi tutti i pastori lo sapevano e nessuno avrebbe spinto le sue bestie fin lassù. Anche perché, a conferma che si trattasse d’una montagna sacra, veniva proprio dalle bestie che si rifiutavano di salire sui pascoli della cima.
Lo sapeva anche suo nonno, continuò a raccontare Meni, ma era uno uomo senza Dio che per qualche soldo in più, avrebbe sfidato il diavolo all’inferno. Pensò che su quei pascoli avrebbe potuto allevare un bel numero di capi di bestiame, e decise di costruire una malga in quota, per poter utilizzare i pascoli fin ad allora inutilizzati. Venne così costruita la malga di Chiàs di sopra.
In un primo momento ebbe qualche difficoltà a trovare dei pastori disposti a gestire la malga, ma alla fine trovò qualcuno, come lui senza timor di Dio, o costretto dal bisogno a non curarsi della voce popolare che considerava la montagna riservata alle Agane. Ma nessuno di questi pastori resistette in malga più di qualche giorno. Come le stelle in cielo si accendono soltanto al far della notte, così sulla montagna al calare delle ombre della notte s’accendevano le voci delle Agane. “E’ come se la montagna fosse piena di noci, e nella notte un gran numero di persone, si mettesse a mescolarle” raccontavano i pastori abbandonando la malga. “C’è un rumore assordante di noci mescolate, che impedisce di dormire”. I più coraggiosi avevano anche cercato di capire da dove venisse quel chiasso di noci rimestate. Ma se andavi a destra lo sentivi venire da sinistra, e viceversa. Era come se tutta la montagna fosse piena di grilli, che invece del solito “cri, cri”, emettevano un assordante “cra, cra”. “Son le Agane!” si convincevano alla fine anche i pastori meno portati a credere alle leggende, e abbandonavano la malga.
Il nonno era evidentemente disperato. Aveva impegnato tutti i suoi soldi nella costruzione della malga. Ed ora non poteva avere nessun ritorno economico dall’investimento, perché non si trovavano pastori per gestirla…Disperato, pensò di utilizzare come pastore Bepi Scivilott, quello che si direbbe lo scemo del villaggio.
Bepi era un ragazzo al quale il cervello gli era mancato sin dalla nascita, ma poi ancora bambino era rimasto senza genitori, e questo fatto non aveva certo migliorato il suo sviluppo…
Dormiva nella casa che gli avevano lasciato i genitori, ma viveva di fatto nella borgata, facendosi ospitare a caso, ora da una famiglia ora da un’altra. “Qualche paese alleva il maiale di S.Antonio, noi allevavamo Bepi Scivilott”. Il soprannome che in italiano potrebbe essere tradotto con “zufolo” gli era stato dato perché sapeva trarre delle melodie eccezionali dagli zufoli che si costruiva da solo ricavandoli dai rami di giàtul (salica). Tutti in paese lo aiutavano, nessuno avrebbe pensato di poter approfittare del suo ritardo mentale. Il nonno si! Era un uomo senza scrupoli. Lo portò in malga e lo lasciò a dormire da solo. Si aspettava di vederselo rientrare spaventato in paese già nella notte, e invece all’alba del giorno dopo lo trovò felice, e per come riusciva a farsi capire, deciso a continuare a vivere da solo in malga. Meglio di così! Il nonno non si preoccupò di capire. Vide la possibilità del guadagno e gli affidò un gregge di capre. E le bestie che non avevano mai voluto salire ai pascoli del Dauda, con lui presero a salire fin sulla vetta della montagna. Anzi nelle tiepide sere di agosto Scivilott si fermava a dormire con le sue bestie sotto alcuni faggi cresciuti proprio sulla cima.
E quel rumore di noci rimescolate? Mah!. Scivilott diceva che era musica. Sia di giorno che di notte lui intonava melodie con il suo zufolo, e la montagna rispondeva trasformandosi in una fantastica orchestra. A volte i pastori di Malga Meledis lo sentivano anche cantare. Il suo canto che sembrava stonato e sgradevole agli altri uomini, evidentemente piaceva alle Agane. Era come se le sue corde vocali suonassero una musica su un registro diverso da quello degli uomini, che però era il registro delle Agane. Era ritardato nel parlare con gli altri esseri umani, ma riusciva a entrare in perfetta sintonia con le Agane .
Ma quando morì Scivilott, e purtroppo per lui e per il nonno, morì giovane, non si trovò più nessuno che sapesse condurre le bestie al pascolo sulla montagna delle Agane. Nessuno che sapesse comunicare con loro, facendo loro accettare il brucare dell’erba delle bestie. Le capre non salirono più sulla montagna. La malga Chias di sopra non utilizzata si ridusse presto a un rudere.
“Se vuoi ti accompagno a vedere i resti!” concluse il vecchio. “Così avrai la conferma dell’esistenza delle Agane”
“Grazie, sarà per un'altra volta!” gli rispose Lella e non volle offenderlo spiegandogli che non aveva senso la relazione diretta che lui faceva tra la malga ridotta ad un rudere, e la esistenza delle Agane sul monte Dauda. Se anche fosse vero che non vi pascolano le capre, potrebbe essere soltanto perché, per qualche caratteristica del terreno, ritengono immangiabile quell’erba.
La guardò con lo sguardo penetrante che gli aveva osservato arrivando. Come allora le era parso che guardasse dentro ai suoi pensieri, ora ebbe la sensazione che leggesse dentro ai pensieri di lei. Scosse la barba incolta in segno di disapprovazione e le disse:
“Se passassi di qui qualche notte sentiresti suonare il violino. Non sono gli spiriti. Son io che suono. Alle volte…Lo suonavo il violino, da giovane, nelle feste da ballo a Vinaio o a Lauco nella Casa del popolo. Ancora qualche volta mi esercito… Lo suono così da dilettante autodidatta. Dalle suo corde si riesce a far uscire un suono d’una delicatezza infinita, dalle nostre corde vocali sappiamo solo far uscire suoni e parole sgradevoli di inimicizia e di odio. Se le sapessimo suonare come si suona il violino…E’ evidente che suonate così, le nostre corde vocali, non ci possono mettere in relazione con l’ultramondo. A Scivilott che sapeva suonare male le sue corde vocali con la tecnica degli uomini, forse madre natura aveva dato il dono di suonarle con la tecnica delle fate, la tecnica del violino. Sapeva pur suonare lo zufolo meglio di qualsiasi altro uomo!..
Per questo poteva parlare con le Agane. E se lui ci parlava, è vero che esistono!!!…”

mercoledì 30 aprile 2008

La valle del tempo.

L’ultima volta che sono stato a Pesariis ho avuto l’avventura d’un incontro davvero fuori dal comune. Il bello è che quando ho chiesto al mio amico Carlo che abita lì, di darmi dei ragguagli sul personaggio che avevo incontrato, mi ha detto che non conosceva nessuna persona che corrispondesse alle caratteristiche che gli andavo descrivendo.

“Non crederai che mi sto inventando gli incontri!” obiettai.

“Io non obietto nulla!” ribattè Carlo. “Ma posso assicurarti che in tutta la valle Pesarina non esiste una persona con i lunghi capelli bianchi che scendono fin sulle spalle e con una lunga barba bianca che arriva fino alla cintola del calzoni, come descrivi la persona che dici di aver visto…”.

“Eppure non posso aver sognato, perché stavo camminando per il paese…”

Stavo appunto camminando per il paese di Pesariis, un giorno di fine aprile, aspettando Delio che mi avrebbe accompagnato in visita agli originali orologi che sono stati realizzati negli angoli più caratteristici del paese. Piuttosto che una giornata di inizio primavera sembrava una giornata d’autunno inoltrato. Piovigginava. Sul paese si aggiravano nuvole nere, pesanti di pioggia, dalle quali si sfilacciavano refoli di nebbia che si insinuavano nelle strette viuzze. Mi guardavo attorno, ammirato per come era stato sistemato il paese, ripristinando sulle strade l’acciottolato il “codolàt” d’un tempo.

Quando fui davanti a casa Bruseschi, che come diceva il depliant che stavo leggendo “era stata la residenza di una delle più autorevoli famiglie del paese, fin dal XV secolo, come testimoniano documenti dell’archivio parrocchiale” vidi con sorpresa che era aperta. “Forse qualcuno ci sta facendo dei lavori” pensai, e non resistetti al desiderio di infilarmi per l’uscio socchiuso, per visitare l’interno della casa.

“E’ permesso?” chiesi a voce alta.

Nessuno mi rispose. A meno che non si dovesse considerare una risposta il suono d’una pendola che da una delle stanze, diffuse per le stanze l’eco di quattro rintocchi, a ricordarmi che era l’ora per l’appuntamento per il quale mi ero recato a Pesariis. “Faccio in fretta, ed arrivo subito!” dissi tra me e me, come se l’amico che mi stava aspettando avesse potuto sentire. Mi affrettai, pensando ad uno sguardo molto veloce e superfiale a quella tipica casa carnica. Ma quando fui nella grande cucina, dovetti fermarmi perché c’era qualcuno seduto sulla panca attorno al focolare. In un primo momento pensai si trattasse d’una ricostruzione, come quelle che si trovano nel Museo Carnico di Tolmezzo, ma poi mi parve si muovesse…

“Mi scusi!” dissi, “Ho trovato aperto ed ho pensato di poter fare una visita veloce…Ho chiesto permesso, ma non mi aveva risposto nessuno…

“E chi ti dovrebbe dare il permesso?..” disse il vecchio, confermando con la voce, che avevo visto giusto, che non si trattava d’un figurante ricostruito…

Sul lato destro del focolare era infatti seduto un vecchio di grande statura. Per i lunghi capelli bianchi e la lunga barba bianca, mi faceva pensare ad una immagine di Cristo in qualche quadro d’autore, anche se non riuscivo a definire quale. Ma il viso era rinsecchito, segnato da profonde rughe, le mani lunghe e affusolate distese sulle ginocchia, ricordavano quelle d’uno scheletro. Era un vecchio…molto vecchio… Vestito con gli abiti da festa come si vedono i ritratti nelle fotografie del primo novecento… Ai piedi, che poggiava sui bordi del focolare, calzava degli scapets nuovi, molto ricamati… Li notai perché mi parevano stonati, mi parevano calzature da donna, che non si intonavano con l’abito e soprattutto con l’età…

Ma più che l’abbigliamento mi aveva stupito la battuta alla quale non sapevo cosa replicare… Chi mi doveva dare il permesso? Visto che mi ero intrufolato nella casa senza permesso, qualcuno che c’era, avrebbe dovuto dirmi se potevo fermarmi, o se dovevo uscire…

“Sa. La curiosità. Ho trovato aperto…” ripetei per chiedere scusa di nuovo.

“Sei nella valle del tempo!” disse il vecchio con la cadenza e l’importanza di chi sta recitando una sentenza. “E il tempo non chiede il permesso a nessuno…”

Mi ricordai che in valle a Pradumli c’era un famoso centro di anarchici. Pensai che il vecchio, con quelle battute originali sul tempo, potesse essere l’ultimo degli anarchici…

Certo che il tempo scorre senza chiedere il permesso a nessuno. “Ruit ora”, dicevano i latini e in quel “ruit” più che l’idea dello scorrere c’è quella del rotolare irrefrenabile, del rovinare inarrestabile…Ma perchè gli avrei dovuto spiegare queste cose al vecchio?..

Comunque, senza aspettarsi nessuna spiegazione da me, mi chiese invece se sapevo perché la valle Pesarina si chiamasse la valle del tempo.

“Essendo famosa perché vi si fabbricano gli orologi” risposi, presumo che qualcuno abbia collegato l’idea dell’orologio con quella del tempo, e vi abbia costruito un marchio intelligente perché molto originale ed evocativo. Mi piace l’idea della valle del tempo!...

“Mi fa piacere che ti piaccia!” recitò di nuovo il vecchio, con il tono di un attore tragico. “Ma la spiegazione è un'altra. Si chiama la valle del tempo perché è qui che è stato inventato il tempo…”

“Altro che anarchico!” pensai. “Questo è proprio fuggito da qualche manicomio…”

“Siediti!”, mi disse deciso. Maledicendo la curiosità che mi aveva fatto entrare in quella casa, e sicuro di avere a che fare con un pazzo che, come si sa, è sempre meglio assecondare… mi sedetti dall’altra parte del focolare, sulla panca opposta alla sua, ed ascoltai, prima preoccupato poi sempre più meravigliato ed incuriosito questa strana storia sugli sbilf della valle Pesarina.

Il vecchio prese a dire che come in Irlanda tutti sanno che il mondo dei piccoli uomini esisteva prima del mondo degli uomini, così in Carnia si dovrebbe sapere che il mondo degli Sbilf era precedente a quello degli uomini. Io non avevo nulla da obiettare, convinto come sono che il mondo degli sbilf sia il mondo delle favole, cioè il mondo nel quale tutto è possibile. Il vecchio però mi parlava sicuro di riferirsi a delle storie vere…e quindi mi guardai bene dal dirgli che io le ritenevo delle favole…chissà poi comunque quale sarà la verità?...

Come la storia degli uomini inizia con la Genesi, allo stesso modo la storia degli sbilfs ha una sua genesi… All’inizio dei tempi…gli sbilfs vivevano nella valle senza tempo…S’alzava il sole per segnare l’inizio d’un nuovo giorno, calava la notte e segnarne la fine, ma i giorni si succedevano uguali e senza fine… Se non c’è una fine sulla quale misurare il tempo, non c’è neppure il tempo…

Gli sbilf vivevano in completa libertà e quindi in completa anarchia, con la sola regola che la libertà di ognuno deve avere il limite, unico ed insuperabile, nella libertà dell’altro…Nessuno era proprietario di qualcosa, perché tutti erano proprietari di tutto... Tutti si volevano bene, perché tutti rispettavano il comandamento di Dio che aveva imposto di non mangiare dall’albero dell’amore, posto al centro del giardino dell’Eden. Finchè arrivò la sbilfa di Eva che non rispettò il comandamento di Dio e volle cogliere il frutto dell’albero dell’amore. Ma l’amore implica il rapporto esclusivo con la persona amata, il desiderio esclusivo di vederla, il sospirare impaziente nell’attesa… L’incontro d’amore divenne un fine, e il fine originò il tempo…Lo sbilf Adamo sentì la necessità di misurare il tempo che lo separava dal prossimo incontro con Eva, e nel torrente che scorreva nella valle senza tempo, inventò un modo per fare in modo che lo scorrere dell’acqua segnasse il tempo…Fu così che gli sbilf, cominciarono a sentire il peso del tempo e chiamarono Pesarina il torrente, e la valle divenne la valle del tempo…

E la competenza acquisita dagli sbilf nel realizzare strumenti per misurare il tempo, concluse il vecchio, si è trasferita poi agli uomini. Per questo la valle del tempo si chiama anche valle degli orologi, perché, come in nessun altro posto, tra queste case si sanno realizzare strumenti per misurare il tempo…

Ero appunto salito in valle per vedere quegli originali orologi, e Delio che avrebbe dovuto accompagnarmi mi stava aspettando, certamente preoccupato per il mio ritardo…Ero finito ad ascoltare il racconto d’un vecchio fuori dal tempo, che mi parlava dell’origine del tempo…per poi scoprire che il vecchio non esiste… come forse neppure il tempo esiste…

domenica 27 aprile 2008

Il Druido di Catelraimondo.

Avevo in programma di partecipare all’inaugurazione dei lavori di completamento del Parco Archeologico Culturale di Castelraimondo a Forgaria del Friuli il 14 ottobre del 2006, ma per sopravvenuti impegni, ho dovuto rinunciare. La curiosità di vedere che cosa era stato scoperto dopo quasi venti anni di studio, da parte dell’Università di Bologna e di Parma, su un sito che risale certamente all’epoca preromana, mi ha portato a visitare il luogo alcuni giorni dopo. L’ambiente è notevole! Salendo in macchina da Forgaria la strada su cui sono arroccate le case della borgata che si è sviluppata sul Zuc Scjaramont, ti si apre ad ogni tornante sempre più ampio il paesaggio per il quale l’altura era stata scelta come luogo di vedetta. Ma anche come luogo di residenza privilegiata, per un popolo come quello dei Celti che sentiva la “poesia degli ampi orizzonti”.

Lasciata l’autovettura nel cortile deserto dell’ultima villa costruita da qualcuno che indubbiamente come i Celti sa apprezzare la poesia dei “respiri della valle”, ho proseguito a piedi secondo le indicazioni del sentiero attrezzato. Quelle pietre che sono state riportate alla luce dalla infinita pazienza dei giovani archeologi, mi davano una emozione profonda. “Sto mettendo i piedi”, pensavo, su sassi lavorati da persone che ci hanno preceduto, nella storia di questi luoghi, di duemilaquattrocento anni. Che pensieri, che parole hanno legato il loro lavoro a quei sassi? Nel silenzio scandito solo dal rumore dei miei passi mi pareva di sentirli, di sentire il vociare del cantiere, di annusare l’odore del sudore nello sforzo di smuovere quei grossi massi, senza altra attrezzatura che le mani, e la capacità di far forza assieme. “Oh! issa!”l’onomatopea che accompagna lo sforzo, forse era la stessa anche nella lingua dei Celti. “Oh! issa!” mi pareva di sentire riecheggiare nel bosco, e gli alberi contorti del bosco incolto, favorivano la mia immaginazione. “Oh issa!” mi pareva ribalzasse il grido di sasso in sasso, come se i sassi ne ripetessero l’eco dopo tanti secoli…

Era una giornata uggiosa d’autunno. Sembrava che stesse per piovere da un momento all’altro, ma non pioveva… Anche il tempo pareva sospeso, nella storia sospesa tra quelle fila di sassi, che erano stati un tempo una muraglia, che erano stati la base di una casa, di una stalla di una torre, che erano stati gli oggetti del pensiero di altri uomini. Pietre come lapidi, in un cimitero nel quale gli uomini avevano scandito il succedersi dei singoli giorni di millenni di storia. Ero solo e camminavo con precauzione, con devozione quasi, come se fossi veramente in un cimitero. Dopo quasi due ore di visita, avevo visto abbastanza. Avevo letto tutti i cartelli. Sapevo già tutto… Mi ero più volte soffermato a contemplare il panorama che dal un lato spazia sulle colline moreniche e la valle del Tagliamento, dall’altro controlla la stretta valle dell’Arzino. Avrei potuto ripartire, ma non riuscivo a decidermi, anche il mio volere restava sospeso… Era come se una voce che non sentivo, ma che mi parlava dentro, mi costringesse a restare, a camminare ancora tra quelle pietre, indeciso sul da farsi.

Fu la pioggia che alla fine mi costrinse a partire. Le gocce d’una nebbiolina che stava salendo dal paese, mi distolse con un brivido di freddo dai miei pensieri e mi risvegliò dalla suggestione del luogo che mi aveva portato fuori dal tempo… Corsi per raggiungere la macchina, ma invece che entrare pensai di ripararmi sotto la tettoia del laboratorio che sorge accanto al luogo nel quale avevo parcheggiato. Così, senza pensarci!... Forse solo perché volevo ancora guardare il panorama della valle, che tra i fili di pioggia diventava quasi fiabesco ed irreale…

Era un laboratorio di falegname. Un uomo, penso il proprietario o un lavorante, stava mettendo a posto alcune assi. Si fermò sorpreso per l’intrusione, non prevista…

“Mi scusi, gli dissi a mo’ di saluto. “Sta piovendo!”

“Vedo!” rispose asciutto.

“Mi ero intrattenuto su al parco!” aggiunsi quasi a chiedere scusa.

“Le è piaciuto?”

“Straordinario!” commentai e poi sempre a giustificarmi per l’intrusione nel suo laboratorio gli spiegai del mio interesse per i Celti, delle ricerche che avevo condotto. Vedendo che mi stava seguendo con interesse, e che non voleva smettere di piovere, mi lasciai trasportare dalla foga del discorso, e presi a parlargli della idea che mi ero fatta sulla loro religione fondata sulla compresenza del mondo dell’invisibile con quella del visibile.

Ad un certo punto mi interruppe bruscamente. “Guardi,” mi disse “è da tempo che cerco una persona come lei. Ho un racconto da farle…E’ come se da tempo volessi confessarmi, senza riuscire a trovare il prete all’altezza di valutare i miei peccati… Non ne ho mai parlato con nessuno, per non farmi prendere in giro, ma da quello che ho appena sentito sui suoi interessi, penso sia lei la persona adatta con cui potermi confidare…”

Prese a dire…

Anch’io, come lei un momento fa, ho sempre sentito sin da bambino la suggestione del sito del Casteraimondo. Abito qui vicino, e il parco del castello è sempre stato per me il mio giardino pubblico. Quando volevo fare due passi facevo un giro sul colle, ad ogni ora del giorno, ed a volte, nelle notti di luna, anche di notte… Poi è arrivata l’Università, sono arrivati gli studenti, ho fatto amicizia con loro, li ho anche aiutati nel lavoro di ricerca. Ho visto venire alla luce le pietre, le fondamenta delle case... Quando hanno deciso di costruire le tettoie per riparare i resti che avevano messo in luce, mi sono opposto… Mi pareva che quelle costruzioni moderne avrebbero rovinato la poesia dei luoghi. Mi spiegarono della necessità di riparare i reperti. Io ribattevo della necessità di non stravolgere l’atmosfera che si respira sul colle del castello. Alla fine prevalse l’esigenza di proteggere i reperti, e si sono fatte le tettoie di riparo… Non mi piacevano, ma questo non mi impedì di continuare a frequentare il parco archeologico di Castelraimondo. Fino ad un paio di mesi fa…poi non ho avuto più il coraggio di mettervi piede…

“Come mai?” lo interruppi.

“Perché mi è capitato quel che le vorrei raccontare e che non ho mai raccontato a nessuno. Se vuole starmi a sentire, e mi promette di non prendermi per pazzo…”.

Mi pareva di sentire l’architetto del romanzo de “I Celti ritornano”, ma non glielo dissi, anzi lo assicurai che sulle presenze dei Celti avevo già raccolto tante testimonianze, che mi portavano a credere ci fosse qualcosa di misterioso e di inspiegabile…

“Misterioso ed inspiegabile!” ripetè, “proprio come ciò che è capitato a me”. E riprese a raccontare…

Era un pomeriggio dello scorso mese di agosto. Si stava avvicinando un temporale minaccioso. Grossi nuvoloni neri si erano abbassati fino a lambire il colle del castello. Non era certo il momento per fare una passeggiata, eppure mi era venuto il desiderio di salire, come quando ti viene voglia di una sigaretta, nel momento più inopportuno…”Vado e torno!” mi dissi e presi a salire quasi di corsa per il sentiero già completato, pronto per l’inaugurazione. Ero appena arrivato nei pressi dei resti di quella che era stata recuperata come la “casa-santuario” dei Celti, quando si mise a piovere come non avevo mai visto, come se S.Pietro avesse aperto all’improvviso tutte le cateratte del cielo… Contro la luce dei lampi si vedevano fili di pioggia grossi come corde, e i tuoni sembrava entrassero nel suolo per smuovere le pietre come ci fosse stato un terremoto. Mi riparai sotto la tettoia che copre i resti della casa. Mi ero opposto alla sua costruzione, ma ero il primo ad averne un vantaggio…Nella vita capita spesso di dover approfittare di ciò che è stato realizzato nostro malgrado… Tuoni, lampi e il rumore assordante della pioggia sul tetto… Mi sembrava di essere finito in un inferno…”Passerà” pensavo, e invece si faceva sempre più buio, come se la cima del colle fosse finita dentro ad un nuvolone fitto e nero.

“E qui comincia il mio racconto…” riprese il mio interlocutore, dopo una breve pausa, facendo il gesto di asciugarsi il sudore dalla fronte. Continuò…ad un tratto mi parve di vedere una luce che usciva dalla terra, dal centro della casa, nel posto ove gli archeologi dicono di aver ritrovato i resti della cerimonia per la posa della prima pietra. La luce crebbe lentamente come se si gonfiasse, e apparve una persona… Era la luce ad essere la persona… Vestita di bianco, con una lunga barba, i lineamenti del viso e l’età indefinite. Non avevo dubbi: era l’immagine di un Druido, come l’avevo vista in tanti libri. Pensai che mi avrebbe toccato e che sarei morto, come avevo letto in tante leggende. Avrei voluto fuggire, ma non riuscivo a muovermi, come capita a volte nei sogni.

Forse aveva letto nel mio pensiero e mi parlò senza muoversi, per non spaventarmi. “Era questa la mia casa!” prese a dire. E’ questa ancora la mia casa, perché io sono ancora qui… Come ancora sono ancora qui nell’eternità tutti quelli che hanno vissuto qui, nello scorrere del tempo della storia. Non viviamo nella dimensione dell’eternità, voi in quella del tempo. Un tempo tra le due dimensioni ci si comunicava... Io ero uno di quelli che sapeva uscire dalla dimensione del tempo per ritrovarmi con quelli che vivono nella dimensione dell’eternità. Lo strumento che avete trovato, il synx, (come si legge nel pannello illustrativo) era lo strumento che mi permetteva di mettermi in contatto con il mondo senza tempo. E’ capace di emettere degli ultrasuoni che consentono il rapporto con l’altra dimensione… Oggi con te, m’è riuscito il percorso inverso, ma non l’ho fatto per spiegarti queste cose, alle quali voi non sapete più credere… Sono tornato per fugare i dubbi che a qualche studioso sono venuti ritrovando in questa casa i corpi di bambini nati morti. Nulla di strano, è una credenza che sei secoli si è sviluppata anche nella vostra religione: avete pensato che i bambini potessero risorgere per un momento per ricevere il viatico per una eternità felice. Anche noi lo pensavamo… Pensavamo che nella dimensione dell’eternità, l’individuo dovesse avere memoria del suo essere stato nel tempo. Li portavano a me, perché io dessi loro la memoria della vita dei loro genitori, non potendo avere loro memoria d’una vita che non avevano vissuto…

Così mi ha detto e senza aspettare che io gli rivolgessi la parola, che gli facessi delle domande, che gli chiedessi delle spiegazioni, si è spento come un fuoco che cessa di ardere, e si è sciolto di nuovo nel centro della sua capanna…

Faceva già freddo in quella giornata piovosa di ottobre. Ma il falegname continuava a tergersi il sudore della fronte, attendendo un mio commento…

Non sapevo che cosa dirgli. Anch’io mi stavo chiedendo per quale strano gioco delle coincidenze, dovevano finire a me tutti questi racconti sui Celti. Perché invece che salire in macchina come sarebbe stato più logico, ero finito in questo laboratorio di falegname a sentire questo così originale e strano racconto?...

Se l’idea di quel racconto sui bambini nati morti fosse venuta a me, potevo darmi una spiegazione perché proprio in quei giorni stavo studiando la storia della Madonna di Trava di Lauco, ove la tradizione voleva che tornassero a rivivere i bambini nati morti, il tempo necessario per ricevere il battesimo. Ma il falegname mi confessò che non sapeva nulla della Madonna di Trava, e che non aveva capito a che cosa si riferisse il Druido quando parlava di una credenza presente anche nella nostra religione…

martedì 15 aprile 2008

La campana dell'Ospedale di Gemona

Al dott.Pietro De Antoni ed alla sua equipe,

testimonianza di sincera e profonda gratitudine

per una accoglienza che all’alta professionalità

ha saputo unire l’humanitas autentica e sincera,

caratteristica distintiva da sempre

dell’uomo e soprattutto della donna friulana.

La campana dell’Ospedale di Gemona. [1]

Questa storia l’’avevo già sentita raccontare da alcuni amici che erano stati ricoverati all’ospedale di Gemona del Friuli. Ma ci avevo riso su!... “Panzane!” avevo commentato…Che in certe notti, all’interno dell’ospedale si senta suonare una campana, mi era parsa una circostanza, frutto della debolezza di chi, da degente, si trova a vivere le ansie e le tensioni legate alla malattia e le preoccupazioni sulle prognosi. Una operazione chirurgica è sempre un qualcosa a rischio!.. Nelle notti passate nella vana attesa di un po’ di respiro e di sollievo, nell’inutile tentativo di trovare una posizione nello scomodo letto d’ospedale per conciliare il sonno, si possono sentire i rumori più diversi, immaginando per questi le interpretazioni più fantastiche…

Ma quando è toccato a me di finire ricoverato in ospedale a Gemona, sono stato costretto a ricredermi!... Già la prima sera, verso mezzanotte, mentre cercavo invano di addormentarmi, ho sentito distinto il suono d’una campana. Ho pensato fosse la suggestione per il racconto che mi era stato fatto dagli amici. E del resto stavo così male…Avevo purtroppo altro cui pensare, prima di capire se si trattasse d’una campana o di che altro…

La seconda sera stavo un po’ meglio ed infatti m’ero addormentato senza fatica già a prima sera, senza pensare ad altro che a quello che sarebbe stato l’esito della mia malattia, l’esito dell’operazione alla quale i chirurghi avevano deciso di sottopormi. Ma fui svegliato di soprassalto nel cuore della notte da un suono di campana, chiaro e distinto. Assolutamente inconfondibile!... Forte al punto d’avermi svegliato!... Si succedevano alcuni rintocchi distinti, di campana che suona a distesa, poi d’un tratto il suono si trasformava nel rumore di qualcosa che si rompe, come se la campana si fosse sfasciata… Sono laicamente abituato a credere soltanto a ciò che percepisco con i miei sensi… Vista l’ora, esclusi subito che il suono potesse venire da una qualche chiesetta situata nella campagna circostante l’ospedale. Non sapevo se ne esistessero. Ma anche se ne fosse esistita più d’una, nessuno si mette a suonare una campana nel cuore della notte…Si trattava quindi solo di capire che cosa stesse producendo un rumore che poteva far pensare al suono d’una campana.

Dopo una mezz’ora, il suono si interruppe definitivamente. Ripromettendomi comunque di capire di cosa si trattasse…rimandai la verifica alla notte successiva…Nel caso avessi risentito quel suono. Ripresi quindi a dormire.

La notte successiva per l’ansia di sapere se il suono si fosse fatto riascoltare, non riuscivo a prendere sonno… “Meglio così!” pensai. La spiegazione per ciò che avevo udito la sera precedente poteva essere proprio il fatto che m’era parso di svegliarmi, mentre invece il ripetersi di quel suono che poi finiva in un rumore, faceva parte d’un sogno.

Stavo guardando l’orologio che segnava la mezzanotte e trasalii sentendo di nuovo, ancora più netto e distinto che la sera precedente, un suono che non poteva essere se non quello d’una piccola campana. Ero perfettamente sveglio, avevo appena controllato l’ora…non potevo avere dubbi: nella notte stava suonando una campana!... Dal timbro si poteva pensare alla campanella che sovrasta l’ingresso nelle chiese di campagna. S’udiva distintamente una serie di rintocchi e poi un tonfo, il rumore di qualcosa che si rompe, come se la campana si fosse staccata dagli ancoraggi, fosse caduta al suolo e si fosse rotta nell’impatto.

Infilai la vestaglia e raggiunsi la testata del corridoio, dalla parte da cui mi sembrava venisse il suono, strascinandomi al fianco il trespolo con i sacchetti di medicinali e la sacca del catetere.

L’ospedale di Gemona, ricostruito dopo il terremoto del 1976 avrebbe dovuto essere un modello di struttura ospedaliera innovativa. A quei tempi facevo il Sindaco a Tolmezzo ed avevo più volte seguito le discussioni al riguardo perché la nuova struttura, avrebbe dovuto collegarsi a rete, con l’ospedale esistente in Carnia. Avevo anche provato a lanciare l’idea che Tolmezzo e Gemona rinunciassero alla costruzione di un loro ospedale, per costruirne uno unico per l’Alto Friuli, dalle parti di Amaro o di Stazione per la Carnia. Ma finì che mi “tirarono le pietre” sia quelli di Gemona che quelli di Tolmezzo, per cui dovetti salvarmi dicendo che si trattava di una provocazione.

Al di là di queste divagazioni personali, non so chi sia stato l’architetto ma, vivendoci dentro, il risultato mi è parso molto inferiore rispetto alle previsioni. Organizzare un ospedale su un unico interminabile corridoio centrale, non mi pare una grande soluzione! Quando ci si trova sul corridoio, e tutte le porte interne sono aperte, si ha l’impressione di trovarsi nel tunnel sotterraneo di un enorme formicaio, dove malati, parenti, medici, infermieri si incrociano e si spostano come file di formiche impazzite.

Non pensavo evidentemente a tutto questo mentre (confesso!) non senza un po’ di paura, mi spostavo per raggiungere la testata del corridoio. Si ha un bel dire che ci deve essere una spiegazione per tutto. Ma che spiegazione poteva avere un suono di campana a mezzanotte?...La mia camera non era molto distante, e raggiunsi subito la testata del corridoio. Per chiudere in qualche modo il lungo budello centrale, l’architetto ha previsto sulle due testate una specie di garitta che aggetta verso l’esterno, senza nessun significato funzionale, ma come una soluzione estetica per muovere la facciata di testa.

Entrai nella garitta, fissando gli occhi sull’esterno alla ricerca di qualcosa che mi potesse riportare al suono della campana. Fui lì lì per svenire e non per problemi legati alla mia degenza ed alla mia malattia, ma spaventato a morte per ciò che i miei occhi stavano vedendo.

Avrei dovuto avere davanti agli occhi i piazzali di accesso all’ospedale che portano ai magazzini ed alle celle mortuarie, e invece alla mia vista si presentava una scena completamente diversa, inaspettata ed inspiegabile…Mi diedi un pizzicotto per confermarmi che non stavo sognando. Non sognavo!... Ero perfettamente sveglio, ma quella che avevo davanti non poteva essere che la scena d’un sogno…

Avevo già notato di giorno che i piazzali circostanti l’ospedale sono chiusi verso l’esterno da una barriera di alberi di pioppo molto alti. Meno fitti nella parte in cui la proprietà dell’ospedale confina quasi con le case del paese di Ospedaletto. A proposito di questo paese, avevo letto durante il giorno che il nome deriva dal fatto che già nel XII secolo era sede di un ospedale per i viandanti che, venendo da Aquileia dovevano affrontare i passi delle Alpi carniche e giulie per raggiungere il Norico. Avevo pensato al curioso destino del luogo che dopo ottocento anni manteneva ancora la sua vocazione a zona ospedaliera…

Sul lato verso Gemona, la fila dei pioppi diventa invece un vero bosco fitto. I fusti molto alti sono tutti piegati verso il paese, a conferma che il vento soffia prevalentemente da nord a sud, e costringe gli alberi ad una posizione perennemente inclinata. A prima vista mi avevano fatto venire in mente la marcia di pinguini, o la marcia di persone operate all’addome, costrette ad avanzare piegate per evitare di tirare sulla ferita…

Si era appena all’inizio di primavera…su alcuni alberi erano già spuntate le prime foglioline, ma per la gran parte erano ancora spogli come durante l’inverno. Sui lunghi tronchi di colore chiaro si succedevano ad intervalli di due-tre metri, delle specie di collari di colore scuro dai quali si dipartivano i rami, rivolti verso l’alto come mani scheletriche alzate a forza verso il cielo.

Ebbene! Guardavo fisso, ma non c’erano più gli alberi, non c’era più i piazzali, non c’era più il paese di Ospedaletto, le cui case di giorno filtravano oltre il filare dei pioppi. Non c’era più nulla di tutto questo…c’era soltanto una grande costruzione bassa e circolare, che mi fece pensare ad una malga, con torno torno il ricovero degli animali ed al centro il “tàmar”

All’ingresso del fabbricato, dalla parte del paese. c’era una piccola chiesa, molto simile all’attuale chiesa di Ognissanti. Come questa con una porta affiancata da due colonne che sorreggono il piccolo architrave, su cui poggia la lunetta superiore. Al lati della porta due piccole finestre chiuse in alto ad arco, e sopra tre piccoli rosoni a muovere simmetricamente la parte superiore della facciata. Al culmine la solita piccola cella campanaria. Ai lati della chiesa c’era due ingressi, chiusi da cancellate di legno. Da qui si entrava nel cortile che mi ricordava il “tamar” delle malghe. Il ricovero che circondava il cortile, che mi richiamava le “lòges” delle malghe, era unico, senza soluzione di continuità, ma i montanti di legno che sorreggevano la copertura, distanti tra loro quattro-cinque metri, lo dividevano in piccole stanze che avevano la stessa dimensione. Ogni stanza era chiusa da portelloni di legno.

Il tetto di tutta la costruzione, fatto di scandole, spioveva verso l’interno e faceva sì che il complesso avesse in qualche modo una sua eleganza architettonica. Ma non si trattava d’un ricovero per animali, non era una malga. Da tutte le parti si vedevano esseri umani doloranti…

Si trattava certamente di un ospedale! Ogni stanza era piena di ammalati che giacevano su giacigli di paglia, coperti soltanto di qualche straccio. E c’erano ammalati anche nel cortile, ricoperti anche loro di pochi stracci, per potersi riparare dal freddo della notte e dalla rugiada. Si capiva che in qualche modo erano in lista di attesa, nella speranza che si liberasse un posto dentro ai ricoveri…

La prima “loge” sulla sinistra entrando, (si intuiva facilmente), era quella riservata a sala operatoria. C’erano dei chirurghi, all’opera su un paziente che con le sue urla di dolore, riusciva a coprire tutto il brusio di lamenti che costituiva il rumore di fondo del posto. Mi avvicinai per guardare, e, con stupore e spavento allo stesso tempo, vidi che ero io la persona sotto i ferri…

Non poteva essere!...Io in effetti stavo guardando…Eppure la persona che gridava dal dolore mi rassomigliava in modo assoluto, come se fosse una perfetta mia controfigura…

“Perché non gli date qualcosa per alleviargli il dolore?” chiesi. Mi faceva pena sentirlo urlare, mi faceva pena ancora di più per il fatto che avevo l’impressione d’essere al posto del mio sosia, a straziarmi dal dolore…

“Chi sei? Che vuoi? Fatti i c… tuoi…” prese ad inveire contro di me quello che doveva essere il capo dei chirurghi, senza neppure degnarmi d’uno sguardo, tutto intento come era alla sua operazione. Non si risparmiò neppure una valanga di improperi, di imprecazioni e di vaffa… che non mi pare il caso di riportare…

“Chiedevo soltanto!” mi sono scusato.

“Ma non sai”, prese a gridare il secondo dei chirurghi “che per questo tanghero abbiamo fatto venire a posta il capo anestesista dell’Ospedale di Tolmezzo. Ora gli sta praticando le soluzioni anestetizzanti più innovative, a livello europeo. Premendo sulla giugulare con una sua tecnica particolare sta cercando di far assopire il cervello, mentre gli sta facendo bere da una fiasca un prodotto di sua invenzione, realizzato su ricetta d’una zia francese, macerando erbe raccolte nei prati di Fusea, messe a macerare nell’alcool metilico che si forma come testa e coda nel processo di distillazione della grappa…”

“Sarà!” commentai. “Ma questo mio sosia, malgrado queste innovazioni, sta soffrendo come una bestia. Non vorrei che fosse un triste presagio di ciò che dovrò soffrire anch’io!..

“Non aver paura! Non hai nulla da temere tu!” mi rassicurò una voce da dietro le mie spalle.

Mi voltai. La stranezza dell’incontro con il mio sosia che si stava operando, mi aveva già messo in grande imbarazzo, incapace di capire dove diavolo fossi finito. Il nuovo incontro non fece che aumentare la mia confusione. Avevo davanti fratello Umberto!!!... Si trattava senza ombra di dubbio dell’amico che era stato a farmi visita al pomeriggio. Avevamo bevuto assieme del buon Tocài, fino alla sera precedente il mio ricovero in ospedale. Ma che cosa ci faceva vestito da frate?...

Capii subito che si trattava del responsabile della struttura. Dava ordini, indicazioni, suggerimenti…

“Cosa fai qui? gli chiesi.

“Non vedi? rispose, “ mi hanno affidato la responsabilità di gestire questa struttura. Io seguo gli aspetti organizzativi, il capo chirurgo gli aspetti sanitari”.

“Ho avuto già modo di prendermi i suoi insulti!”

“Lo conosciamo! Ma mai come in questo caso le apparenze ingannano. E’ un bravuomo un po’ troppo confusionario, pianta casini catastrofici per un nonnulla, ma è molto professionale e soprattutto ha una grande sensibilità, un cuore grande. Per un amico poi si fa in quattro… Per fare un piacere ad un amico, alle volte è capace di buttarmi all’aria tutta l’organizzazione che con difficoltà sono riuscito ad attivare”.

“Comunque caro Umberto o fra Umberto se preferisci, se questo è un ospedale, si poteva spendere anche qualcosa di più per farne una struttura un po’ più decente,” obiettai.

“Guarda, ribattè, che questa è una delle strutture più nuove di tutta l’alta Italia. Io comunque non vi ho responsabilità né in positivo nè in negativo. Io devo far funzionare ciò che c’è… Con questo compito mi hanno spedito sin quassù i miei superiori del convento di S.Antonio a Padova.

Confesso di aver lasciato Padova senza alcun entusiasmo. Si stava così bene laggiù nel convento di città, alternando la preghiera al passatempo dei piccoli lavori nell’orto… Qui è tutto diverso. Anche la fede qui finisce per vacillare. Di fronte a tanta sofferenza non puoi non chiederti dove sia Dio…

Per aiutarmi e consolarmi ha voluto seguirmi anche mia madre, come Monica seguiva S.Agostino. Ma ora si è ammalata gravemente anche lei…Non vorrei finisse come con S.Agostino e la madre Monica. Mi dispiacerebbe doverla seppellire nel cimitero di questo paese…”

“Vedrai che guarirà!” gli dissi, con una di quelle solite frasi di circostanza che sovrabbondano nelle relazioni tra persone all’interno degli ospedali. “Se ritieni tu che questa sia tra le strutture migliori…” continuai. “Non posso non crederti, ma io continuo ad avere i miei dubbi. Ho visto poco fa passare due inservienti che portavano su un tavolato le scodelle per la cena. Mi hanno ricordato le due persone in primo piano nel quadro di Brugel il Vecchio “Banchetto nuziale”.

Bruegel il Vecchio: Il banchetto nuziale

Bruegel il Vecchio: Il banchetto nuziale

Vi ho visto dentro una brodaglia d’un colore misterioso, strano e indistinto, esalante un lezzo che mi ha costretto a voltarmi dall’altra parte per non vomitare. I giacigli poi, sui quali riposano gli ammalati non mi paiono un granchè...”

“Sul cibo hai ragione! Lascia un poco a desiderare! Abbiamo appaltato il servizio alla Cooperativa degli Affamati, ed abbiamo il sospetto che ci facciano la cresta per poter aiutare i propri soci. Sui giacigli no, non hai ragione… i nostri sono fatti con fieno odoroso raccolto in montagna, negli altri ospedali sono invece fatti con le stoppie del grano, e sono quindi anche meno soffici”. “Scusami un momento”, aggiunse e si spostò in fretta nella direzione da cui era arrivata una invocazione d’aiuto più forte e straziante. Risi tra me e me vedendolo allontanarsi sculettando, sì che la tonaca a mezz’aria dondolava come fosse una campana.

Bene! Avevo capito quale era il suo ruolo… avevo capito quasi tutto sull’organizzazione di quello strano ospedale. Ma lui, il mio amico, lì come c’era finito? Lo conoscevo come un fervente praticante la Chiesa, non mi risultava tuttavia si fosse fatto frate. E io che ci stavo a fare? Lui era vestito con il saio dei francescani. La tonaca si allargava a coprire lo stomaco dilatato dai bicchieri di Tocài, poi scendeva larga come una campana, fino a poco sotto le ginocchia. Da sotto sbucavano le due gambe, magre e rinsecchite come quelle di un ammalato. I piedi infilati in un paio di sandali troppo grandi, lo costringevano a camminare dondolando il corpo e strascinando i piedi. Per questo avevo riso prima guardandolo allontanarsi di corsa…

Gli avrei voluto chiedere delle spiegazioni! Ma dal momento che mi aveva visto e non si era stupido della mia presenza, doveva essere in qualche modo tutto normale ciò che mi stava capitando. Ero io che non capivo… Ma non capivo che cosa?... Ero anch’io vestito come loro?... Non ci avevo fatto caso...tutto preso da ciò che mi circondava non avevo pensato a me… Loro erano tutti vestiti con brevi tuniche dai colori smorti… Mi facevano pensare a personaggi ambientati nel Medioevo, come riprodotti in qualche quadro dei fiamminghi.

Non potendo chiedere in modo diretto come mai fossimo lì, ed a fare che cosa, ebbi l’idea di chiedere che giorno fosse. Posi la domanda alla prima inserviente che mi passò accanto.

“Siamo al 25 gennaio dell’anno domini 1348” mi rispose con una puntale precisione, come se non fosse stato sorpreso dalla mia domanda. Avevo già avuto modo di constatare ed apprezzare la disponibilità e l’umanità delle inservienti. Mi ero dimenticato di chiedere se si trattasse di suore di qualche ordine o di laiche. Erano le uniche persone vestite a modo, con le tuniche pulite e in ordine. Fiori di grazia sbocciati per caso nel campo del dolore!...

L’inserviente nella sua grande disponibilità, stava per aggiungere qualcosa forse per aiutarmi a capire di più, quando un urlo straziante si districò ed emerse tra il groviglio di gemiti, pianti e imprecazioni che costituiva il rumore di fondo costante caratteristico di quella specie di ospedale.

“La peste!” urlò qualcuno con quanto fiato aveva in gola.

Vidi Fra Umberto precipitarsi nella direzione dalla quale era arrivato il grido. Incrociò i quattro inservienti che avevano raccolto in una coperta l’ammalato, a cui era stata diagnosticata la peste.

“Non potete!” gridò cercando di fermarli. “E’mia madre!”

“Che sia anche la madre del padreterno, a noi non ce ne frega!” reagì brutalmente uno dei quattro. “Ha la peste e deve essere portata via!” “Ha la peste!” urlò di nuovo perché tutti nel campo capissero quale nuovo pericolo incombeva su tutti.” Con uno spintone fecero cadere fra Umberto che si stava frapponendo e proseguirono nel loro cammino per portare l’infetta al di fuori dell’ospedale.

Uscirono per una porticina che si trovava sul lato opposto alla Chiesa, e depositarono l’appestata nel prato retrostante l’ospedale.

Fra Umberto li inseguiva supplicandoli che avessero pietà. “E’ mia madre!” continuava a ripetere come fosse una giaculatoria. Ma quelli non gli davano retta... Quando lo raggiunsi, era solo accanto alla povera madre, rannicchiata dentro a degli stracci che avrebbero dovuto essere una coperta.

Piangeva ed imprecava contro l’ingratitudine degli uomini. “Fossimo rimasti a Padova!”. E invece siamo venuti fin quassù in Friuli a fare del bene…E questo sarebbe il grazie per il bene che abbiamo fatto?...

Non sapevo che dirgli…Ci sono circostanze nelle quali è il frate che deve consolare gli altri, trovando nel Vangelo le parole di speranza. Io da laico non avevo argomenti per aggiungere nessun commento… Le parole di compassione e di misericordia si rivolgono con facilità agli altri, molto più difficile è rivolgerle a noi stessi…Anche Fra Umberto si dimenticò d’un tratto di tutte le parole di consolazione che aveva usato con gli ospiti dell’ospedale, e prese ad imprecare contro tutto e contro tutti, per l’ingiustizia di cui si sentiva vittima, e di cui era vittima soprattutto sua madre. Dopo aver fatto tanto volontariato in ospedale, ora era stata abbandonata a morire lì nel freddo d’una notte di gennaio, come se fosse stata un cane randagio…

Mentre fra Umberto imprecava, prese a suonare la piccola campana della chiesa. Forse il sacrestano con quel suono voleva accompagnare in paradiso la madre di Fra Umberto. Il suono della campana avrebbe dovuto riportarlo alla preghiera, ritrovare nelle preghiere per i moribondi il modo per accompagnare la madre nell’ultimo viaggio… Ma non riusciva a pregare…Gli pareva che l’ingiustizia fosse troppo madornale per poter essere perdonata, per dare un senso alla preghiera.

“Che la maledizione di Dio possa scendere su di voi!” gridava. Che Dio possa distruggere questo ospedale dalle fondamenta, e tutto questo paese come fece con Sodoma e Gomorra…”

“Mentre così diceva, la terra prese a tremare, e il prato a muoversi come se le viscere della terra fossero sconvolte da un terribile singulto. Dalle montagne si staccavano enormi massi che scendevano con un fragore assordante, sollevando enormi nuvole di polvere. L’edificio dell’ospedale fu attraversato da una vibrazione improvvisa e si sfasciò come se fosse stato di cartapesta. Quanto tempo durò il cataclisma? Forse un minuto soltanto, ma parve una eternità…Non c’era più l’ospedale, non c’era più la chiesetta all’ingresso…Tutto era ridotto ad un cumulo di macerie, ad una sorta di strano formicaio.

Dalle macerie, appunto come da un formicaio, presero ad uscire delle ombre di persone che si incamminarono in una sorta di processione dentro al bosco di pioppi. Il bosco stesso si trasformò nella processione, che si snodò lentamente, come la corrente d’un fiume. Ma non scendeva, saliva… Credo verso il cimitero monumentale di Gemona, o verso il Duomo… non so…accompagnata dal suono della campana della chiesetta. A tratti si distinguevano bene i rintocchi, poi d’un tratto ai rintocchi si sostituiva il rumore della campana, che con il terremoto era caduta assieme alla chiesa…

Cantavano sommessamente, una melodia gregoriana che mi ricordava il Benedictus con il quale nella tradizione carnica si accompagnano i defunti al cimitero. Avevo l’impressione di far parte anch’io della processione orante. Cantavo ciò che cantavano gli altri, l’intonazione era quella del Benedictus, ma le parole era altre: era una sorta di parafrasi del Padre nostro che non avevo mai sentito prima:

Infinito Esistere da cui trae origini il mio divenire,

sia riconosciuta la tua esistenza

Si affermi un modo di convivenza tra gli uomini,

che tenga presente la tua esistenza

nella dimensione del nostro vivere quotidiano

come lo sarà nella dimensione eterna.

Dacci di vivere ogni giorno

nella tua dimensione dell’essere.

Perdona la nostra mancanza di fiducia

come noi perdoniamo la mancanza

di fiducia nei nostri confronti, da parte dei fratelli.

Non favorire la nostra mancanza di fede,

ma invece aiutaci a superare la tendenza a negarti!!!

Cantavano così…e l’originalità di quel Padre nostro mi portò a pensare che si trattasse del gruppo dei Catari di Gemona che come si legge nella storia, ricevettero la visita del vescovo cataro Pietro Gallo.

Cantavamo così, andando non so dove…Perché senza arrivare da nessuna parte, a un certo punto mi sono ritrovato nel mio letto d’ospedale, come se non l’avessi mai abbandonato. Cercavo di raccapezzarmi, dando un senso a ciò che mi pareva di aver visto e sentito...”Che cosa ho vissuto?” mi stavo chiedendo. “Un sogno? Un viaggio dell’anima, come quello che erano soliti effettuare i benandanti?”. Non riuscivo a darmi una risposta…

Le notti successive mi posi in attesa nella speranza di sentire di nuovo il suono della campana. Ne avevo parlato con il mio amico chirurgo, e come era prevedibile, si era messo a ridere ed a prendermi in giro… Avrei voluto sentire il suono, per farlo sentire anche a lui…avrei voluto far vedere anche a lui che cosa accadeva durante la notte attorno al suo ospedale.

Ma non si ripresentò l’occasione! Nemmeno io ho più sentito il suono della campana… Mi è rimasto quindi il dubbio di aver sognato… Sono arrivato comunque alla conclusione che il suono avesse come scopo quello di far rivivere a qualcuno quella scena. Io l’avevo vista. Io la potevo testimoniare. Non c’era più motivo perché si ripetesse. Il fatto d’aver avuto un testimone, aveva forse dato la pace eterna a quelle ombre di persona. Non so! Io mi sono limitato a scrivere ciò che ho visto…

Nella storia del Friuli in effetti si ricorda il disastroso terremoto del 25 gennaio 1348. Si ricorda anche la disastrosa epidemia di peste che nello stesso anno colpì chi s’era salvato dal terremoto. La peste, dice la storia, si sviluppò alcuni mesi dopo il sisma, ma forse come dimostra il caso della madre di Fra Umberto, l’epidemia stava già incubando, al momento del terremoto.

Dal Blog http://raccontipiutti.blogspot.com



[1] Quando sono stato ricoverato all’ospedale i Gemona il 1 aprile 2008 stavo lavorando ad un serie di racconti, per una ricostruzione fantastica della storia della Carnia, ed allo stesso tempo ad una rivisitazione laica del Vangelo. In ospedale ha letto “Morte a credito” di Celine. Nel racconto cercando di imitare lo stile di Celine, fondo assieme le cose alle quali sto lavorando, per presentare una ricostruzione fantastica della mia esperienza in ospedale.