Al tempo della notte dei tempi, anche nella Carnia viveva il popolo dei piccoli uomini, degli Sbilfs dei Guriùts, dei Gans e delle Vinadie. Un giorno un Guriùt di nome Cjaròi, salendo sul monte Arvenis, la montagna cuore della Carnia, volle entrare a curiosare nella grotta che si trova quasi in cima al monte. E con sua grande sorpresa scoprì che dentro c’era già qualcuno. Un elfo, un piccolo uomo molto strano per nulla simile nè ai Guriuts ne agli altri elfi che aveva conosciuto sulle montagne.
Se Cjaròi avesse avuta la nostra conoscenza gli sarebbero venuti in mente i tre moschettieri. Per il cappello a larghe tese che aveva in testa, ma soprattutto per i vestito che indossava come quello dei moschettieri, o se si vuole come la pianeta che il parroco indossa dicendo messa. A tutto campo, al posto della croce c’era uno strano simbolo. Un grande cerchio, come quelli che si usano per il tiro a segno, con una freccia sulla destra e due gambe sotto.
“Da dove vieni” gli chiese Cjaròi.
“Non so bene rispose l’altro se da un altro mondo, o da un altro continente di questo mondo!”
Colpito dalla stranezza della risposta Cjaròi insistette:
“Ma se non sai da dove vieni come mai sei qui”
“Mi ha portato qui il desiderio di conoscenza”
“Il desiderio di conoscenza non può trasportare fisicamente i viventi”
“Perchè no? Se la fede può spostare le montagne, perchè la fede nella conoscenza non potrebbe trasportare i viventi”. Ad una logica così stringente ed assurda allo stesso tempo Cjaròi non seppe cosa replicare.
Gli chiese allora come si chiamasse.
“Arpazù!” rispose. “Per l’esattezza, aggiunse poi, mi dovrei chiamare Arpa Azzurra, ma sin da piccolo gli amici hanno preso a storpiare ed abbreviare il mio nome che è diventato appunto Arpazù”.
“Suona bene Arpa Azzurra!” commentò Cjaroi, mi ricorda i nomi che usavano gli indiani d’America. Ma che senso ha dare un aggettivo di colore ad uno strumento musicale?
“Da noi anche per i viventi si usano nomi poetici, e la poesia è fatta di metafore. Il suono dell’arpa evoca l’azzurro del cielo ove si perde il pensiero dei viventi seguendo il vibrare delle note dell’arpa.
Cambiando discorso gli chiese allora che cosa significasse lo strano simbolo che portava sul vestito.
“E’ il simbolo della nostra filosofia di vita” gli rispose. E’ necessario darsi lo scopo di centrare un obiettivo, allora diventa chiara la direzione da seguire, e si trova la forze nelle gambe per seguirla”.
Cjaròi invitò lo strano piccolo uomo a seguirlo, avrebbe voluto presentarlo ai suoi amici su nella valle ai piedi dello Zèrmula. Ma scesi a Zuglio mentre attraversavano il torrente But, incontrarono un gruppo di Vinadie, le fate scese dalle montagne per bagnarsi nelle acque pure e fresche del torrente. Queste, curiose come tutti gli esseri femminili, si fecero loro attorno chiedendo a Cjaròi chi fosse quel suo così strano ed originale compagno di viaggio.
“E’ uno venuto qui per conoscere!” disse Cjaròi per darsi importanza facendo il misterioso.
“Ma perchè vuole conoscere?” chiesero in coro le Vinadie.
Rispose Arpazù come se la domanda fosse stata diretta a lui: “Voglio conoscere tutto ciò che è altro, per conoscere meglio me stesso. Da noi si dice che per essere felici si deve conoscere se stessi, e che per conoscere se stessi si deve conoscere gli altri, il diverso. Per questo il mio desiderio di conoscere mi ha spinto fino qui”.
Non riusciva a spiegarsi ed a spiegare come fosse finito nella grotta sulla cima del monte Arvenis. Ma il saperlo era in fondo una curiosità inutile. Sbilfs, Guriuts, Gans ed Aganis della Carnia considerarono dei loro il nuovo arrivato Arpazù, e lo presero a modello per quel che diceva sul conoscere e fecero proprio il suo logo ed il suo motto
“assumere un obiettivo
per sapere dove andare
e trovare nelle gambe la forza per andare”.
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