sabato 29 agosto 2009

La grotta di Attila.


Sopra Cason di Lanza in Comune di Paularo, sul sentiero che porta al passo omonimo, al confine austriaco verso Rattendorf, ci si imbatte in quella che viene chiamata la grotta di Attila. E’ una piccola fenditura nella roccia che un corso d’acqua, poco più che un ruscello, s’è scavato nel calcare nel corso dei secoli. Una delle tante grotte che si incontrarono negli ambienti carsici, ma con un nome che la lega al grande condottiero degli Unni. Come mai? Cosa ha a che fare Attila con l’incantevole altopiano a cavallo tra l’Italia e l’Austria, tra Paularo e Pontebba?
Come si legge nella storia, Attila invase l’Italia nel 452 dopo Cristo, e dopo aver distrutto diverse città del nord, avrebbe distrutto anche Roma se papa Leone non l’avesse fermato al Po. Secondo alcuni ad incutere timore al barbaro sarebbe stato il crocefisso che il papa brandiva, alla stregua di una lancia. I soliti infedeli sostengono che in una mano teneva il crocefisso e nell’altra un bel sacco di monete d’oro con le quali riscattava la città eterna da un nuovo sacco. Ma sono diatribe che interessano gli storici… Ciò che è certo, purtroppo, è che la prima città ad venire distrutta dal nuovo invasore è stata Aquileia, e in qualche modo si collega a questo fatto la leggenda della grotta al passo di Lanza.
Da qui, da questo passo infatti, Attila aveva deciso di iniziare l’invasione dell’Italia, perché aveva saputo che qui era nascosta la spada di Marte che avrebbe garantito la vittoria in tutte le battaglie e chi la portava. Giordane lo storico al quale si deve la gran parte delle notizie sulla vita del condottiero unno, dice che un pastore al pascolo con il suo gregge aveva visto zoppicare una pecora, e non capendo la causa della ferita, aveva seguito le tracce di sangue lasciate dall’animale, trovando alla fine una spada sulla quale la bestia era inciampata brucando l’erba. Aveva quindi recuperato l’arma e l’aveva portata in dono ad Attila. Questi, pensando d’aver trovato la spada di Marte, si convinse di essere stato eletto padrone assoluto del mondo intero.
Non so se sia credibile il racconto d’un pastore che trova per caso una spada magica, e tanto meno so se sia credibile la variante per la quale questo fatto sarebbe avvenuto proprio in Lanza. So invece per certo che qui, sull’altopiano, secondo una antica tradizione orale, ormai dimenticata, Attila ha trovato la famosa lancia che, come si racconta ancora in qualche leggenda friulana, era in grado di “infilzare tante persone in una sola volta”. Era una lancia magica che pareva avesse una prolunga invisibile. Consentiva di trafiggere tanti soldati in un sol colpo, ma anche di perforare la roccia e quindi di demolire edifici. Il nome di Lanza chiaramente derivato da lancia, costituisce una indiretta conferma della tradizione e della leggenda. E quindi si può confermare che proprio qui Attila ha trovato la lancia magica. Con altrettanta certezza si può ritenere che non ha trovato la spada di Marte, tant’è che non è diventato proprio invincibile.
Secondo una ricostruzione che, non senza fatica e dopo estenuanti ricerche, sono riuscito in qualche modo a mettere assieme, pare accertato che le cose siano andate più o meno in questo modo. ..
Risulterebbe infatti che nella notte dei tempi un essere magico, venuto forse da un altro pianeta, abbia forgiato per i Guriùs che lavoravano quassù per estrarre il ferro dalle miniere, due armi straordinarie, una spada ed una lancia capaci di rendere invincibile chi le usava. Ma i Guriùs erano pacifici, credevano nell’arma della desistenza piuttosto che in quella dell’offesa e non sapevano cosa farsi di armi da guerra. Non volendo tuttavia che le armi di distruzione venissero usate da altri, tennero consiglio per decidere che cosa farne. Prevalse il suggerimento del Druido che consigliò di purificarle, perché il loro maleficio non si diffondesse nel mondo e poi di nasconderle perché nessuno potesse utilizzarle. Si trovò quindi una soluzione intelligente per purificarle e nasconderle allo stesso tempo.
Sull’attuale confine italo austriaco, proprio a ridosso della crinale che costringe le gocce di pioggia a separarsi per prendere delle strade assolutamente diverse: le une a scendere nell’Adriatico le altre invece attraverso il Danubio a finire nel Mar Nero, c’era (e c’è ancora!) una sorta di piccolo anfiteatro naturale, all’interno del quale affiora una polla d’acqua. Era una sorgente sacra per i Gurius, credevano infatti avesse il potere di riportare in pace l’animo di chi la beveva. Il Druido propose di immergervi le armi, e poi di coprire il tutto. L’acqua della pace avrebbe vinto per sempre la carica distruttiva delle armi. I Gurius rinunciavano alla loro pace per portare la pace nel mondo!...
Con una grande cerimonia alla quale partecipò tutto il popolo del Gurius, una notte di luna piena, di fronte al monte Zermula che brillava come fosse d’alabastro, deposero la spada e la lancia nella sorgente e poi, di giorno in giorno, le coprirono con tutto il materiale di risulta che andavano estraendo dalle miniere.
Quando abbandonarono l’altopiano, perché non c’era più ferro da estrarre, al posto dell’anfiteatro naturale, c’era una enorme montagna artificiale fatta con i sassi che avevano estratto. E sotto al grande cumulo c’erano le armi magiche… Il fatto avrebbe dovuto restare un segreto di quelli che si perdono nel fiume del tempo, con la morte dell’ultimo Guriut. Ma, come diceva anche mio nonno, i segreti sono come l’odore della polenta, per quanto tu chiuda imposte e finestre, si diffonde all’esterno, e tutti sanno che in casa si mangia polenta. Allo stesso modo in tutta l’Europa si diffuse la leggenda delle armi magiche dei Guriuts, nascoste sui piani di Lanza. Tuttavia malgrado le continue ricerche nei secoli successivi, nessuno era riuscito a trovarle e neppure si riusciva ad immaginare il luogo ove potevano essere nascoste.
La notizia arrivò anche ad Attila, che avendo deciso di invadere l’Italia colse l’occasione per entrare proprio dal passo di Lanza, alla ricerca delle armi magiche che l’avrebbero reso invincibile.
“Se ci sono queste armi, io le troverò!” diceva ai suoi salendo al passo dalla valle del Gail. “Se i folletti sono stati tanto furbi nel nasconderle, io sarò più furbo di loro nel ritrovarle.” In effetti quando, appena superato il passo, si vide davanti un enorme montagna che pareva sorta dal terreno circostante per effetto d’un vulcano, intuì al volo che proprio quello era il colpo di furbizia dei Guriuts.
“Qui non ci sono vulcani!” disse ai suoi. “E’ evidente che questa è una montagna artificiale. Scavatela. E, se non si tratta di una favola, ritroveremo le armi magiche!...”
Diede quindi l’ordine, a tutti i soldati del suo immenso esercito, di riempire gli elmi con i piccoli sassi che avevano scaricato i Guriuts. L’esercito prese ad avanzare come una fiumana che scendeva sui prati di Val Dolce per poi risalire al passo di Zermula e ridiscendere nella valle di Incarojo, passando per il cimitero celtico di Minsincinis. Man mano che l’esercito avanzava, la montagna dei Giurius, diminuiva. Era come se fosse fatta di neve e si stesse sciogliendo al sole di primavera. Erano così numerosi i soldati dell’esercito, che in breve tempo riapparve l’anfiteatro e la fonte sacra dove i Guriuts avevano deposto le armi. Agli ultimi passaggi, Attila volle assistere di persona. Era sicuro che si sarebbero state ritrovate le armi, e non voleva perdere il momento nel quale sarebbero riapparse…
In effetti, come si può vedere anche adesso, riemerse una sorgente, dalla quale aveva origine un piccolo ruscello che, dopo un percorso di pochi metri, si inabissava in una caverna. Dall’acqua della fonte, emerse la lancia là dove era stata deposta dal Druido dei Guriuts, ma della spada che avrebbe garantito l’invincibilità a chi la portava, non si trovò traccia. O meglio, si capiva benissimo che l’acqua miracolosa della pace, l’aveva sciolta. Si vedevano distintamente le tracce di ferro lasciate nella sorgente è nel ruscello che spariva nella grotta. Attila ordinò al suo scudiero nano di entrare nella grotta alla ricerca della spada. Ma questi ritornò dopo poco tempo raccontando che la grotta faceva un gomito, ma poi si interrompeva subito dopo pochi metri, e l’acqua si perdeva nella roccia per scendere chissà dove…
Per la rabbia il feroce condottiero uccise il nano trafiggendolo con la lancia che aveva appena impugnato. Ma la morte del nano non fece sbollire la delusione per non aver ritrovato la spada, che l’avrebbe reso invincibile. Si può immaginare quali imprecazioni abbia rivolto ai Gurius che avevano distrutto per sempre la spada dell’invincibilità…
Scese comunque in Friuli con il grosso del suo esercito, per dare man forte all’avanguardia che aveva mandato in avanscoperta e che già da alcuni mesi stava tentando inutilmente di espugnare Aquileia.
“Ma cosa devono fare i soldati dei sassi che hanno raccolto negli elmi?” gli chiesero i generali quando furono nella pianura friulana.
“Rifacciamo in pianura la collina che nascondeva la mia lancia,” rispose. “Voglio salirvi in cima, per contemplare da lassù l’incendio di Aquileia, la prima di tante città italiano che andremo a saccheggiare”. E indicò un luogo nella piana tra i torrenti Cormor e Torre che volle si chiamasse con il nome di U-Din. Era il nome dello scudiero che aveva appena ucciso. Pentendosi d’aver ucciso in un momento d’ira il nano che gli aveva allietato tante serate inventandosi le leggende più fantasiose, voleva che restasse perenne il suo nome. Un nome che avrebbe ricordato nei secoli che l’ira ricade a danno di chi l’alimenta. Il povero nano non aveva avuto altra colpa se non quella di non aver ritrovato una spada che non si poteva trovare perché s’era sciolta nell’acqua della sorgente della pace.
Mentre il grosso dell’esercito, passando nel luogo indicato, prese a dar forma alla collina artificiale, Attila raggiunse l’esercito appostato attorno ad Aquileia. Si pose subito alla testa ordinando un nuovo attacco alla città. Con la sua lancia magica demolì la torre nord e dalla breccia l’esercito si rovesciò dentro alle mura della città, come si rovescia sulla campagna circostante, un fiume in piena che è riuscito a far breccia in un argine.
Lasciati i suoi a divertirsi nel saccheggio della città, Attilà cavalcò di nuovo verso la collina che intanto i suoi soldati avevano formato, e salì sulla cima per godersi lo spettacolo dell’incendio della città romana.
Una leggenda racconta che, sul far della sera, una colomba sia uscita dalla città di Aquileia, ed abbia raggiunto Attila, in attesa sulla montagnola artificiale, per annunciargli l’inizio dello spettacolo. Può anche essere, se si vuole credere alle leggende…Certo è che avendo egli dato l’ordine di procedere all’incendio al calare della notte, non aveva bisogno di annunci per avere conferma che il suo ordine sarebbe stato rispettato…E infatti quella sera l’orizzonte del Friuli, a sud verso il mare, divenne una striscia di fuoco. Pareva che la pianura avesse dato vita ad un drago di fuoco dalle mille lingue che si agitava tra il cielo e la terra. Attila si vide come trasformato in quel drago e pensò che gli dei, facendogli ritrovare la lancia magica gli avessero concesso il potere su tutta l’umanità…
Ma non aveva trovato la spada…Fu così che quando si trovò davanti a papa Leone ebbe il dubbio che fosse invece questi ad avere la spada di Marte, e decise di rinunciare alla conquista di Roma. Così ho potuto ricostruire i fatti. In verità Attila si era messo ad attendere il papa in atteggiamento provocatorio, con una mano sulla lancia piantata a terra e con l’altra appoggiata all’elsa della spada. Ma il papa, dimostrando di non temerlo, s’era piantato di fronte a lui con analogo atteggiamento di sfida, puntando a terra una strana lancia che finiva in alto con una elsa a forma di croce che portava in rilievo la scultura di un uomo crocefisso. Il barbaro superstizioso pensò che poteva anche trattarsi di una strana lunghissima spada, la spada di Marte appunto, con l’elsa ornata dalla figura magica di un Dio crocefisso…
“Deve essere questa l’arma che rende invincibili” pensò il barbaro, impressionato anche dall’imponenza dell’uomo che gli stava di fronte, che non a caso era soprannominato “magno”. Il papa per l’occasione s’era anche vestito con i paramenti sacri, portava un piviale ricamato d’oro ed aveva in testa una enorme mitria dorata e ornata di pietre preziose che gli conferivano l’immagine di una grande forza ed imponenza.
Come ho già detto, qualcuno sospetta che il papa avesse con se anche qualcosa d’altro per convincere il barbaro a rinunciare all’idea di conquistare Roma. Ma io ritengo sia stata proprio quella strano oggetto che il papa aveva piantato in terra a mo’ di lancia, a fargli cambiare idea. Attila non poteva sapere che si trattava soltanto di una croce astile…
A volte le convinzioni ci influenzano più della realtà…
Comunque, come siano andate le cose tra Attila e Papa Leone, è una verità che può interessare soltanto gli storici. Ai carnici interessa maggiormente la verità che il castello dove sedeva il Parlamento del Friuli sia costruito su terra di Carnia. Se questo non è un dato emblematico su cui riflettere… a conferma che ben a ragione la Carnia è stata definita la madre del Friuli!!!...
Agli abitanti di Paularo, ed ai turisti che frequentano la valle d’Incarojo, può interessare invece ancor più sapere la fine che ha fatto l’acqua carica delle molecole di ferro della spada miracolosa dei Guriùts... Chi sale ai piani di Lanza, si imbatte ancora oggi nella fonte che poi si insinua nella grotta di Attila, e può constatare senza ombra di dubbio, per i residui lasciati dall’acqua sui sassi del greto, come sia effettivamente un’acqua che trasporta del ferro. Ma per trovare l’acqua ferruginosa non occorre salire fin lassù… L’acqua che, come ha dovuto constatare il nano di Attila, si perde all’interno della grotta, filtra poi tra le rocce del monte Zermula e fuoriesce subito sotto alla borgata di Ravinis, a fianco del cimitero dei Celti a Misincinis, E’ un’acqua che conserva ancora la capacità di ispirare la pace, come faceva all’origine la fonte dei Guriuts ed allo stesso tempo di trasmettere la forza che gli viene dal ferro della spada magica che continua a sciogliersi.
Chi la beve ne ricava forza da usare in pace!…
E’ la forza che gli uomini imparano ad utilizzare, non contro gli altri, ma in pace con i propri simili, con la natura e con tutto il creato, ed a proprio vantaggio e beneficio. Una forza da utilizzare per esaltare il proprio spirito di intraprendenza e la propria libertà, che deve trovare un limite soltanto nella libertà degli altri. E’ la forza che in passato ha fatto di Paularo la culla di tanti grandi imprenditori, a cominciare da Jacopo Linussio.
Da un po’ di tempo, (è più che evidente!), gli abitanti di Paularo non si abbeverano alla fonte dell’acqua ferruginosa. L’hanno sistemata molto bene…oggi l’acqua fuoriesce da un bellissimo mascherone, a ricordo dell’ origine mitica dell’acqua, ma gli uomini hanno smesso di berla e quindi di assorbirne i suoi poteri magici, ossia la capacità di mettere in sintonia la forza con la pace…
C’è da augurarsi che i giovani paularini, e i giovani che vengono in ferie nella valle, tornino a prendere l’abitudine di dissetarsi a questa fonte, per fare di Paularo nuovamente un faro dal quale si sprigiona la voglia di intrapresa, e la capacità di coniugare forza e generosità, un faro con il quale illuminare nuovamente tutta la Carnia, come aveva già fatto Jacopo Linussio.

sabato 31 gennaio 2009

Melie dai vuès.


Già al sentirne il nome, un brivido mi percorreva la schiena... Mèlie dai vuès che in lingua farebbe Amelia delle ossa, mi faceva pensare ad una forza bruta capace di spezzare le ossa, piuttosto che all’abilità che tutti le riconoscevano di rimettere a posto le ossa rotte. Nella valle in realtà, Mèlie sostituiva di fatto il reparto di ortopedia. Quando qualcuno, per qualche incidente, si ritrovava con una gamba o un braccio rotto, od anche con una semplice distorsione, prima di pensare all’ospedale, era normale pensare a lei, alla donna capace di ricomporre le ossa, e solo se lei lo suggeriva, ad estremi mali estremi rimedi, si ricorreva alle cure dell’ortopedico.
Qui ci vuole Amelia delle ossa, fu l’unanime sentenza di tutti gli accorsi a constatare cosa m’ero fatto a seguito d’una banale caduta della moto. Io stavo ancora cercando di capire come fosse potuto succedere che, quasi da fermo, la moto mi fosse scivolata via da sotto al sedere, lasciandomi sull’asfalto con un piede che aveva assunto una direzione per nulla naturale rispetto alla gamba. La sorpresa dell’imprevista ed improvvisa caduta, e lo stupore per quel piede divaricato, prendevano tutta la mia attenzione, al punto che non sentivo alcun dolore e le voci delle persone accorse mi giungevano come un brusio indistinto.
Mi resi conto della situazione solo quando dal brusio emerse e si definì nella mia mente la frase: qui ci vuole Amelia delle ossa.
Evidentemente quella posizione innaturale del piede stava a significare che s’era rotto qualcosa, se attorno a me tutti ritenevano indispensabile l’intervento della donna capace di riparare le ossa.
Avrei potuto dire, che preferivo essere portato direttamente in ospedale. Ma alla fin fine anch’io ero pur sempre un uomo della valle, e le leggende della valle riportavano infiniti casi di persone rimaste zoppe o sciancate per non aver voluto ricorrere alle cure di Amelia. Si narrava persino di casi in cui la donna aveva dovuto rompere nuovamente gli arti che erano stati riparati male in ospedale, con terribili sofferenze per i malcapitati. Io male ancora non ne sentivo, ma certamente non mi avrebbe fatto piacere vivere il resto della vita, con quel piede così terribilmente rivolto verso l’esterno
In effetti tutte le volte che in passato avevo sentito i racconti della leggenda d’Amelia, professandomi scettico e moderno allo stesso tempo, avevo sempre sostenuto che se mai (tocca ferro!) mi fosse capitato qualcosa alle ossa, sarei ricorso alle cure d’uno specialista e non d’una fattucchiera. Ma lì, in mezzo alla piccola folla accorsa, mentre ero ancora a terra frastornato ed incapace di rendermi conto di come avessi potuto cadere così stupidamente, sullo scettico vinse l’uomo della valle. ed accettai la proposta d’un amico che s’era offerto di accompagnarmi in macchina dall’Amelia delle ossa.
Mi sentivo come il miscredente che dopo essersi proclamato tale per tutta la vita, capendo d’essere in punto di morte, accetta la proposta della moglie che vuole mandare a chiamare il prete. Si ha un bel credere alla scienza, ma quando non c’è più speranza, anche il tentativo più irrazionale acquista un senso!... E quel piede così fuori posto, per me che fortunatamente non avevo mai avuto modo di fare esperienze ortopediche, era qualcosa che aveva necessità d’un intervento miracoloso, per poter tornare allo stato naturale.
La leggenda di Amelia delle ossa veniva raccontata con mille particolari sulle sue caratteristiche fisiche, su dove viveva, su cosa faceva, su quando e come aveva imparato quella capacità quasi taumaturgica, di rimettere a posto le ossa rotte. Ma, appunto, era una sorta di leggenda... Erano elementi a cui avevo prestato l’attenzione che si dà ai particolari con i quali viene di solito allestita una favola nel racconto d’un narratore fantasioso. Quando l’amico fermò la macchina davanti alla casa di Amelia, mi resi conto che almeno per quanto si riferiva alla casa d’abitazione, la realtà superava ogni immaginazione.
L’impianto era quello d’una casa tipica casa carnica. Due arcate molto basse al piano terreno e poi un sistema complesso di scale e di poggiolo in legno a vista che portavano ai piani superiori, che lasciavano appena intravvedere la muratura di pietra. In mezzo alle altre case rimesse a nuovo ed intonacate sembrava veramente un errore del tempo che s’era dimenticato di cancellare quello strano ricordo di modi di vivere ormai dimenticati. L’interno era ancora più originale, ma non lo sto a descrivere, perchè ciò che vorrei raccontare non è tanto il mio primo incontro con Melie dai vuès, quanto il seguito. Nel mio primo incontro si rivelò pari alla fama. Mi unse il piede con unguenti dagli strani odori e me lo rimise a posto senza quasi farmi provare dolore. Mi raccomandò di tenerlo fasciato a di ritornare dopo un mese perchè voleva controllare se tutto fosse tornato a posto.
Mentre l’assicuravo che avrei fatto tutto secondo le sue raccomandazioni e che sarei tornato per la visita di controllo, mi interruppe per chiedermi: “E’ lei quello che, ho sentito dire, s’interesse dei Celti?”
“Si, sto cercando di raccogliere leggende che in qualche modo li riguardino.”
“Ne parleremo la prossima volta.” E mi lasciò così per un mese intero a pensare di quali originali racconti poteva essere depositaria la vecchia. Pochi giorni prima dello scadere del trentesimo fissato per la visita di controllo, passai per chiederle a che ora le andava bene di ricevermi.
“Alle otto di sera!” Mi disse senza alcun commento.
La strana casa, l’originale vecchia, l’ora insolita per una visita che pur doveva essere una visita medica...confesso che entrai in agitazione nell’attesa del giorno fissato...E ce n’era ben donde!!!
Dentro la casa era costituita da una grande cucina-sala da pranzo con un grande tavolo di noce in mezzo, un grande lavello di pietra sulla parete a sinistra con appesi ancora di secchi “cjaldìers” di rame con i quali si andava a prendere l’acqua alla fontana, quando non c’erano ancora gli acquedotti a portare l’acqua in casa. Di fronte si apriva un vano più stretto con il focolare al centro. Era un focolare di quelli di cui resta memoria solo nei libri, senza la cappa. Sui tre lati girava una panca di legno con lo schienale alto, e in mezzo, su un rialzo di un metro per un metro per l’altezza della panca, ardeva il fuoco. Mancando la cappa il fumo saliva libero per raccogliersi sul soffitto ed uscire da un una apertura che dava direttamente sull’esterno.
Al mio bussare, al mio saluto, aveva risposto con quello che m’era parso più un grugnito che il saluto d’una voce umana. Stava seduta sul lato sinistro del focolare e non s’era mossa per venirmi incontro, per venirmi a salutare. Non mi disse neppure di sedermi. Per togliermi in qualche modo dall’imbarazzo, chiesi se potevo sedermi. Continuava a guardare il fuoco, senza rispondermi. Lo presi per un silenzio assenso e mi sedetti sulla panca di fronte a lei, dall’altra parte del fuoco.
Inquadravo il suo viso poco sopra le fiamme d’un fuoco che ardeva vigoroso, tra il fumo nel quale si scioglieva la fiamma. Era segnato da rughe profonde. I capelli bianchi erano in parte nascosti da un fazzoletto nero che pareva soltanto posato sulla testa, con le estremità piegate di sopra, come usava ancora anche mia nonna. Un grande scialle nero le copriva le spalle e si incrociava davanti coprendole il petto. Era tutta assorta nel guardare il fuoco e sembrava non s’accorgesse neppure che la stavo scrutando, pareva anzi si fosse già quasi dimenticata della mia presenza, tutta presa da chissà quali pensieri. Continuavo a fissarla, quasi volessi fissarmi in testa i particolari della sua immagine, e il fumo che saliva tra me e lei, era come un filtro che dava sempre sfumature nuove e diverse al suo volto.
Sulla sua immagine filtrata attraverso il fumo mi persi come ci si perde nel sonno mentre si sta leggendo un libro. La sua immagine svanì nel fumo e mi ritrovai nel sogno... Già al sentirne il nome, un brivido mi percorreva la schiena... Mèlie dai vuès che in lingua farebbe Amelia delle ossa, mi faceva pensare ad una forza bruta capace di spezzare le ossa, piuttosto che all’abilità che tutti le riconoscevano di rimettere a posto le ossa rotte. Nella valle in realtà, Mèlie sostituiva di fatto il reparto di ortopedia. Quando qualcuno, per qualche incidente, si ritrovava con una gamba o un braccio rotto, od anche con una semplice distorsione, prima di pensare all’ospedale, era normale pensare a lei, alla donna capace di ricomporre le ossa, e solo se lei lo suggeriva, ad estremi mali estremi rimedi, si ricorreva alle cure dell’ortopedico.
Qui ci vuole Amelia delle ossa, fu l’unanime sentenza di tutti gli accorsi a constatare cosa m’ero fatto a seguito d’una banale caduta della moto. Io stavo ancora cercando di capire come fosse potuto succedere che, quasi da fermo, la moto mi fosse scivolata via da sotto al sedere, lasciandomi sull’asfalto con un piede che aveva assunto una direzione per nulla naturale rispetto alla gamba. La sorpresa dell’imprevista ed improvvisa caduta, e lo stupore per quel piede divaricato, prendevano tutta la mia attenzione, al punto che non sentivo alcun dolore e le voci delle persone accorse mi giungevano come un brusio indistinto.
Mi resi conto della situazione solo quando dal brusio emerse e si definì nella mia mente la frase: qui ci vuole Amelia delle ossa.
Evidentemente quella posizione innaturale del piede stava a significare che s’era rotto qualcosa, se attorno a me tutti ritenevano indispensabile l’intervento della donna capace di riparare le ossa.
Avrei potuto dire, che preferivo essere portato direttamente in ospedale. Ma alla fin fine anch’io ero pur sempre un uomo della valle, e le leggende della valle riportavano infiniti casi di persone rimaste zoppe o sciancate per non aver voluto ricorrere alle cure di Amelia. Si narrava persino di casi in cui la donna aveva dovuto rompere nuovamente gli arti che erano stati riparati male in ospedale, con terribili sofferenze per i malcapitati. Io male ancora non ne sentivo, ma certamente non mi avrebbe fatto piacere vivere il resto della vita, con quel piede così terribilmente rivolto verso l’esterno
In effetti tutte le volte che in passato avevo sentito i racconti della leggenda d’Amelia, professandomi scettico e moderno allo stesso tempo, avevo sempre sostenuto che se mai (tocca ferro!) mi fosse capitato qualcosa alle ossa, sarei ricorso alle cure d’uno specialista e non d’una fattucchiera. Ma lì, in mezzo alla piccola folla accorsa, mentre ero ancora a terra frastornato ed incapace di rendermi conto di come avessi potuto cadere così stupidamente, sullo scettico vinse l’uomo della valle. ed accettai la proposta d’un amico che s’era offerto di accompagnarmi in macchina dall’Amelia delle ossa.
Mi sentivo come il miscredente che dopo essersi proclamato tale per tutta la vita, capendo d’essere in punto di morte, accetta la proposta della moglie che vuole mandare a chiamare il prete. Si ha un bel credere alla scienza, ma quando non c’è più speranza, anche il tentativo più irrazionale acquista un senso!... E quel piede così fuori posto, per me che fortunatamente non avevo mai avuto modo di fare esperienze ortopediche, era qualcosa che aveva necessità d’un intervento miracoloso, per poter tornare allo stato naturale.
La leggenda di Amelia delle ossa veniva raccontata con mille particolari sulle sue caratteristiche fisiche, su dove viveva, su cosa faceva, su quando e come aveva imparato quella capacità quasi taumaturgica, di rimettere a posto le ossa rotte. Ma, appunto, era una sorta di leggenda... Erano elementi a cui avevo prestato l’attenzione che si dà ai particolari con i quali viene di solito allestita una favola nel racconto d’un narratore fantasioso. Quando l’amico fermò la macchina davanti alla casa di Amelia, mi resi conto che almeno per quanto si riferiva alla casa d’abitazione, la realtà superava ogni immaginazione.
L’impianto era quello d’una casa tipica casa carnica. Due arcate molto basse al piano terreno e poi un sistema complesso di scale e di poggiolo in legno a vista che portavano ai piani superiori, che lasciavano appena intravvedere la muratura di pietra. In mezzo alle altre case rimesse a nuovo ed intonacate sembrava veramente un errore del tempo che s’era dimenticato di cancellare quello strano ricordo di modi di vivere ormai dimenticati. L’interno era ancora più originale, ma non lo sto a descrivere, perchè ciò che vorrei raccontare non è tanto il mio primo incontro con Melie dai vuès, quanto il seguito. Nel mio primo incontro si rivelò pari alla fama. Mi unse il piede con unguenti dagli strani odori e me lo rimise a posto senza quasi farmi provare dolore. Mi raccomandò di tenerlo fasciato a di ritornare dopo un mese perchè voleva controllare se tutto fosse tornato a posto.
Mentre l’assicuravo che avrei fatto tutto secondo le sue raccomandazioni e che sarei tornato per la visita di controllo, mi interruppe per chiedermi: “E’ lei quello che, ho sentito dire, s’interesse dei Celti?”
“Si, sto cercando di raccogliere leggende che in qualche modo li riguardino.”
“Ne parleremo la prossima volta.” E mi lasciò così per un mese intero a pensare di quali originali racconti poteva essere depositaria la vecchia. Pochi giorni prima dello scadere del trentesimo fissato per la visita di controllo, passai per chiederle a che ora le andava bene di ricevermi.
“Alle otto di sera!” Mi disse senza alcun commento.
La strana casa, l’originale vecchia, l’ora insolita per una visita che pur doveva essere una visita medica...confesso che entrai in agitazione nell’attesa del giorno fissato...E ce n’era ben donde!!!
Dentro la casa era costituita da una grande cucina-sala da pranzo con un grande tavolo di noce in mezzo, un grande lavello di pietra sulla parete a sinistra con appesi ancora di secchi “cjaldìers” di rame con i quali si andava a prendere l’acqua alla fontana, quando non c’erano ancora gli acquedotti a portare l’acqua in casa. Di fronte si apriva un vano più stretto con il focolare al centro. Era un focolare di quelli di cui resta memoria solo nei libri, senza la cappa. Sui tre lati girava una panca di legno con lo schienale alto, e in mezzo, su un rialzo di un metro per un metro per l’altezza della panca, ardeva il fuoco. Mancando la cappa il fumo saliva libero per raccogliersi sul soffitto ed uscire da un una apertura che dava direttamente sull’esterno.
Al mio bussare, al mio saluto, aveva risposto con quello che m’era parso più un grugnito che il saluto d’una voce umana. Stava seduta sul lato sinistro del focolare e non s’era mossa per venirmi incontro, per venirmi a salutare. Non mi disse neppure di sedermi. Per togliermi in qualche modo dall’imbarazzo, chiesi se potevo sedermi. Continuava a guardare il fuoco, senza rispondermi. Lo presi per un silenzio assenso e mi sedetti sulla panca di fronte a lei, dall’altra parte del fuoco.
Inquadravo il suo viso poco sopra le fiamme d’un fuoco che ardeva vigoroso, tra il fumo nel quale si scioglieva la fiamma. Era segnato da rughe profonde. I capelli bianchi erano in parte nascosti da un fazzoletto nero che pareva soltanto posato sulla testa, con le estremità piegate di sopra, come usava ancora anche mia nonna. Un grande scialle nero le copriva le spalle e si incrociava davanti coprendole il petto. Era tutta assorta nel guardare il fuoco e sembrava non s’accorgesse neppure che la stavo scrutando, pareva anzi si fosse già quasi dimenticata della mia presenza, tutta presa da chissà quali pensieri. Continuavo a fissarla, quasi volessi fissarmi in testa i particolari della sua immagine, e il fumo che saliva tra me e lei, era come un filtro che dava sempre sfumature nuove e diverse al suo volto.
Sulla sua immagine filtrata attraverso il fumo mi persi come ci si perde nel sonno mentre si sta leggendo un libro. La sua immagine svanì nel fumo e mi ritrovai nel sogno...
Correvamo, lei davanti ed io, dietro sulla mulattiera che da Malga sale attraversando il bosco..Correvamo ma senza muover le gambe, come due ombre trasportate dal vento, sfiorando appena la pedrata. Prima di allora avevo fatto una sola volta quel percorso, per andare in malga ed al Crist di Val. Il sentiero sale ripido, avevo fatto molta facita. Ora invece come volando sul sentiero, senza fare alcuna fatica stavo rifacendo con la velocità del lampo lo stesso percorso. Ed in un baleno entrai con lei che mi faceva da guida per la seconda volta nella valle dove c’è malga Val. La volta precedente mi aveva colpito la malga realizzata in blocchi di marmo rosso, squadrati alla perfezione. Ma ora mi pareva che la malga fosse sparita .... Tutta la conca ai piedi del monte Verzegnis, era illuminata da uno strano chiarore come se fosse una notte di luna piena, o meglio come nel chiarore lattiginoso del buio che precede un grande temporale. C’era una folle enorme che come in una teatro riempiva tutta la valle ed anche i pascoli in alto, fino sotto alle rocce. Come quando a primavera un prato si riempie di fiori sì che non si riesce più a vedere il verde del prato. Ma erano fiori senza colore, d’un bianco sporco, come gigli appassiti, petali sparsi alla rinfusa prima che marcissero del tutto.
La mia guida non mi fece scendere in mezzo a quelle figure evanescenti, ma prese subito a salire per il sentiero che porta alla grotta del Crist. Già nella mia gita precedente avevo visitato quella grotta. Situata in alto sulla parete all’ingresso della valle, prende il nome da un crocefisso che è stato scolpito nella roccia. Nel secolo scorso quando si viveva di agricoltura, avevo letta che era stata più volte meta di pellegrinaggi per implorare la pioggia, a ristorare i campi dove il sole stava bruciando i già poveri raccolti di granoturco e patate. Ci arrivammo in un attimo come due refoli di nebbia che il vento ha staccato dalla nebbia che riempie la valle. E da lassù la valle sembrava veramente ricoperta da un trine di nebbia...
C’era qualcuno nella grotta che ci attendeva, come se il nostro arrivo fosse stato preannunciato, come se la mia guida fosse attesa, perchè aveva un ruolo nella scena che era stata preparata nella valle e che aveva fatto accorrere tutte quelle presenze. Non mi presentò, come se anche la mia presenza fosse scontata e normale. Cercai l’immagine del Cristo che avevo visto nella mia precedente visita ma non c’era. L’avrei dovuto vedere, perchè al centro della grotta era acceso un grande fuoco come quello che avevo appena visto nella casa di Amelia. Le lingue di fuoco si riflettevano sulle pareti rischiarandole e dando l’impressione che si muovessero. Non era più una grotta ma qualcosa di vivo come se la montagna fosse un enorme essere vivente, una donna gigantesca, e la grotta fosse diventata la sua vulva.
Senza avere il coraggio di chiederle niente, mi voltai verso Amelia, cercando spiegazioni di ciò che mi stava accadendo. Non so se per rispondermi o perchè faceva parte del cerimoniale intonò una nenia lugubre come un “dies irae”, e la valle gli faceva eco come se tutte le presenze che avevo intuito più che visto, popolare la valle, rispondessero in coro.
Fuoco dio Lug-Beleno,
penetra la Madre terra,
falla vibrare con il tuo amore
perchè torni a generare,
entri in lei l’umore del vostro incontro,
e la bagni perchè riviva e dia frutto.
Come se mi fossi addormentato su un libro ed avessi sognato del libro stesso, mi risvegliai, guardando al fuoco nella casa di Amelia, come se fosse lo stesso fuoco della grotta del Crist. Mi guardai attorno, sorpreso nel non vederla dove l’avevo lasciata, sulla panca di fronte. Avrei dovuto chiamarla, avrei dovuto salutarla. Invece ricordando il sogno, mi prese la paura. Uscii in fretta ed in silenzio...Sicuro d’una cosa sola che non mi sarei fatto più vedere in quella casa, da quella strega, neppure nella malaugurata ipotesi d’una nuova frattura alle ossa...
Ho ripensato poi più volte a ciò che mi era capitato chiedendomi se anch’io con Amelia aveva fatto un “viaggio dell’anima” come sono capaci di fare gli uomini nati con la camicia. Non so. Forse lei era capace di un tanto, ed aveva usato i suoi poteri perchè la potessi seguire. Perchè non mi aveva voluto spiegare niente? Forse perchè era evidente la simbologia di ciò che mi aveva fatto vivere.
Quando il mio amico Enore mi raccontava di quando bambino la mamma lo portava in processione a pregare il Crist di Val, inconsciamente lo portava a pregare perchè Dio rendesse fertile la natura. Era solo cambiata la prospettiva. Si chiedeva al Dio del cielo di far piovere “Rorate caeli desuper ed nubes pluant iustum” “Stillate cieli dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia” mi diceva il mio amico che si usava cantare. Confondendo il Giusto o la giustizia del canto d’avvento, che riporta le parole del profeta Isaia, con la pioggia. Ma in fondo era proprio un atto di giustizia che si chiedeva, chiedendo che non andasse sprecato tutto il lavoro fatto a primavera per dar da mangiare ai figli.
I Celti invece chiedevano che fosse il Dio dall’interno a fecondare la natura. Forse Amelia era una sciamana e aveva voluto portarmi a toccare con mano la continuità tra la religiosità dei Celti e quella cristiana, a farmi capire come molta delle religiosità celtica sia stata in qualche modo incorporata, prendendo forme e simboli cristiani, nel substrato culturale del popolo dei Carni.