sabato 31 gennaio 2009

Melie dai vuès.


Già al sentirne il nome, un brivido mi percorreva la schiena... Mèlie dai vuès che in lingua farebbe Amelia delle ossa, mi faceva pensare ad una forza bruta capace di spezzare le ossa, piuttosto che all’abilità che tutti le riconoscevano di rimettere a posto le ossa rotte. Nella valle in realtà, Mèlie sostituiva di fatto il reparto di ortopedia. Quando qualcuno, per qualche incidente, si ritrovava con una gamba o un braccio rotto, od anche con una semplice distorsione, prima di pensare all’ospedale, era normale pensare a lei, alla donna capace di ricomporre le ossa, e solo se lei lo suggeriva, ad estremi mali estremi rimedi, si ricorreva alle cure dell’ortopedico.
Qui ci vuole Amelia delle ossa, fu l’unanime sentenza di tutti gli accorsi a constatare cosa m’ero fatto a seguito d’una banale caduta della moto. Io stavo ancora cercando di capire come fosse potuto succedere che, quasi da fermo, la moto mi fosse scivolata via da sotto al sedere, lasciandomi sull’asfalto con un piede che aveva assunto una direzione per nulla naturale rispetto alla gamba. La sorpresa dell’imprevista ed improvvisa caduta, e lo stupore per quel piede divaricato, prendevano tutta la mia attenzione, al punto che non sentivo alcun dolore e le voci delle persone accorse mi giungevano come un brusio indistinto.
Mi resi conto della situazione solo quando dal brusio emerse e si definì nella mia mente la frase: qui ci vuole Amelia delle ossa.
Evidentemente quella posizione innaturale del piede stava a significare che s’era rotto qualcosa, se attorno a me tutti ritenevano indispensabile l’intervento della donna capace di riparare le ossa.
Avrei potuto dire, che preferivo essere portato direttamente in ospedale. Ma alla fin fine anch’io ero pur sempre un uomo della valle, e le leggende della valle riportavano infiniti casi di persone rimaste zoppe o sciancate per non aver voluto ricorrere alle cure di Amelia. Si narrava persino di casi in cui la donna aveva dovuto rompere nuovamente gli arti che erano stati riparati male in ospedale, con terribili sofferenze per i malcapitati. Io male ancora non ne sentivo, ma certamente non mi avrebbe fatto piacere vivere il resto della vita, con quel piede così terribilmente rivolto verso l’esterno
In effetti tutte le volte che in passato avevo sentito i racconti della leggenda d’Amelia, professandomi scettico e moderno allo stesso tempo, avevo sempre sostenuto che se mai (tocca ferro!) mi fosse capitato qualcosa alle ossa, sarei ricorso alle cure d’uno specialista e non d’una fattucchiera. Ma lì, in mezzo alla piccola folla accorsa, mentre ero ancora a terra frastornato ed incapace di rendermi conto di come avessi potuto cadere così stupidamente, sullo scettico vinse l’uomo della valle. ed accettai la proposta d’un amico che s’era offerto di accompagnarmi in macchina dall’Amelia delle ossa.
Mi sentivo come il miscredente che dopo essersi proclamato tale per tutta la vita, capendo d’essere in punto di morte, accetta la proposta della moglie che vuole mandare a chiamare il prete. Si ha un bel credere alla scienza, ma quando non c’è più speranza, anche il tentativo più irrazionale acquista un senso!... E quel piede così fuori posto, per me che fortunatamente non avevo mai avuto modo di fare esperienze ortopediche, era qualcosa che aveva necessità d’un intervento miracoloso, per poter tornare allo stato naturale.
La leggenda di Amelia delle ossa veniva raccontata con mille particolari sulle sue caratteristiche fisiche, su dove viveva, su cosa faceva, su quando e come aveva imparato quella capacità quasi taumaturgica, di rimettere a posto le ossa rotte. Ma, appunto, era una sorta di leggenda... Erano elementi a cui avevo prestato l’attenzione che si dà ai particolari con i quali viene di solito allestita una favola nel racconto d’un narratore fantasioso. Quando l’amico fermò la macchina davanti alla casa di Amelia, mi resi conto che almeno per quanto si riferiva alla casa d’abitazione, la realtà superava ogni immaginazione.
L’impianto era quello d’una casa tipica casa carnica. Due arcate molto basse al piano terreno e poi un sistema complesso di scale e di poggiolo in legno a vista che portavano ai piani superiori, che lasciavano appena intravvedere la muratura di pietra. In mezzo alle altre case rimesse a nuovo ed intonacate sembrava veramente un errore del tempo che s’era dimenticato di cancellare quello strano ricordo di modi di vivere ormai dimenticati. L’interno era ancora più originale, ma non lo sto a descrivere, perchè ciò che vorrei raccontare non è tanto il mio primo incontro con Melie dai vuès, quanto il seguito. Nel mio primo incontro si rivelò pari alla fama. Mi unse il piede con unguenti dagli strani odori e me lo rimise a posto senza quasi farmi provare dolore. Mi raccomandò di tenerlo fasciato a di ritornare dopo un mese perchè voleva controllare se tutto fosse tornato a posto.
Mentre l’assicuravo che avrei fatto tutto secondo le sue raccomandazioni e che sarei tornato per la visita di controllo, mi interruppe per chiedermi: “E’ lei quello che, ho sentito dire, s’interesse dei Celti?”
“Si, sto cercando di raccogliere leggende che in qualche modo li riguardino.”
“Ne parleremo la prossima volta.” E mi lasciò così per un mese intero a pensare di quali originali racconti poteva essere depositaria la vecchia. Pochi giorni prima dello scadere del trentesimo fissato per la visita di controllo, passai per chiederle a che ora le andava bene di ricevermi.
“Alle otto di sera!” Mi disse senza alcun commento.
La strana casa, l’originale vecchia, l’ora insolita per una visita che pur doveva essere una visita medica...confesso che entrai in agitazione nell’attesa del giorno fissato...E ce n’era ben donde!!!
Dentro la casa era costituita da una grande cucina-sala da pranzo con un grande tavolo di noce in mezzo, un grande lavello di pietra sulla parete a sinistra con appesi ancora di secchi “cjaldìers” di rame con i quali si andava a prendere l’acqua alla fontana, quando non c’erano ancora gli acquedotti a portare l’acqua in casa. Di fronte si apriva un vano più stretto con il focolare al centro. Era un focolare di quelli di cui resta memoria solo nei libri, senza la cappa. Sui tre lati girava una panca di legno con lo schienale alto, e in mezzo, su un rialzo di un metro per un metro per l’altezza della panca, ardeva il fuoco. Mancando la cappa il fumo saliva libero per raccogliersi sul soffitto ed uscire da un una apertura che dava direttamente sull’esterno.
Al mio bussare, al mio saluto, aveva risposto con quello che m’era parso più un grugnito che il saluto d’una voce umana. Stava seduta sul lato sinistro del focolare e non s’era mossa per venirmi incontro, per venirmi a salutare. Non mi disse neppure di sedermi. Per togliermi in qualche modo dall’imbarazzo, chiesi se potevo sedermi. Continuava a guardare il fuoco, senza rispondermi. Lo presi per un silenzio assenso e mi sedetti sulla panca di fronte a lei, dall’altra parte del fuoco.
Inquadravo il suo viso poco sopra le fiamme d’un fuoco che ardeva vigoroso, tra il fumo nel quale si scioglieva la fiamma. Era segnato da rughe profonde. I capelli bianchi erano in parte nascosti da un fazzoletto nero che pareva soltanto posato sulla testa, con le estremità piegate di sopra, come usava ancora anche mia nonna. Un grande scialle nero le copriva le spalle e si incrociava davanti coprendole il petto. Era tutta assorta nel guardare il fuoco e sembrava non s’accorgesse neppure che la stavo scrutando, pareva anzi si fosse già quasi dimenticata della mia presenza, tutta presa da chissà quali pensieri. Continuavo a fissarla, quasi volessi fissarmi in testa i particolari della sua immagine, e il fumo che saliva tra me e lei, era come un filtro che dava sempre sfumature nuove e diverse al suo volto.
Sulla sua immagine filtrata attraverso il fumo mi persi come ci si perde nel sonno mentre si sta leggendo un libro. La sua immagine svanì nel fumo e mi ritrovai nel sogno... Già al sentirne il nome, un brivido mi percorreva la schiena... Mèlie dai vuès che in lingua farebbe Amelia delle ossa, mi faceva pensare ad una forza bruta capace di spezzare le ossa, piuttosto che all’abilità che tutti le riconoscevano di rimettere a posto le ossa rotte. Nella valle in realtà, Mèlie sostituiva di fatto il reparto di ortopedia. Quando qualcuno, per qualche incidente, si ritrovava con una gamba o un braccio rotto, od anche con una semplice distorsione, prima di pensare all’ospedale, era normale pensare a lei, alla donna capace di ricomporre le ossa, e solo se lei lo suggeriva, ad estremi mali estremi rimedi, si ricorreva alle cure dell’ortopedico.
Qui ci vuole Amelia delle ossa, fu l’unanime sentenza di tutti gli accorsi a constatare cosa m’ero fatto a seguito d’una banale caduta della moto. Io stavo ancora cercando di capire come fosse potuto succedere che, quasi da fermo, la moto mi fosse scivolata via da sotto al sedere, lasciandomi sull’asfalto con un piede che aveva assunto una direzione per nulla naturale rispetto alla gamba. La sorpresa dell’imprevista ed improvvisa caduta, e lo stupore per quel piede divaricato, prendevano tutta la mia attenzione, al punto che non sentivo alcun dolore e le voci delle persone accorse mi giungevano come un brusio indistinto.
Mi resi conto della situazione solo quando dal brusio emerse e si definì nella mia mente la frase: qui ci vuole Amelia delle ossa.
Evidentemente quella posizione innaturale del piede stava a significare che s’era rotto qualcosa, se attorno a me tutti ritenevano indispensabile l’intervento della donna capace di riparare le ossa.
Avrei potuto dire, che preferivo essere portato direttamente in ospedale. Ma alla fin fine anch’io ero pur sempre un uomo della valle, e le leggende della valle riportavano infiniti casi di persone rimaste zoppe o sciancate per non aver voluto ricorrere alle cure di Amelia. Si narrava persino di casi in cui la donna aveva dovuto rompere nuovamente gli arti che erano stati riparati male in ospedale, con terribili sofferenze per i malcapitati. Io male ancora non ne sentivo, ma certamente non mi avrebbe fatto piacere vivere il resto della vita, con quel piede così terribilmente rivolto verso l’esterno
In effetti tutte le volte che in passato avevo sentito i racconti della leggenda d’Amelia, professandomi scettico e moderno allo stesso tempo, avevo sempre sostenuto che se mai (tocca ferro!) mi fosse capitato qualcosa alle ossa, sarei ricorso alle cure d’uno specialista e non d’una fattucchiera. Ma lì, in mezzo alla piccola folla accorsa, mentre ero ancora a terra frastornato ed incapace di rendermi conto di come avessi potuto cadere così stupidamente, sullo scettico vinse l’uomo della valle. ed accettai la proposta d’un amico che s’era offerto di accompagnarmi in macchina dall’Amelia delle ossa.
Mi sentivo come il miscredente che dopo essersi proclamato tale per tutta la vita, capendo d’essere in punto di morte, accetta la proposta della moglie che vuole mandare a chiamare il prete. Si ha un bel credere alla scienza, ma quando non c’è più speranza, anche il tentativo più irrazionale acquista un senso!... E quel piede così fuori posto, per me che fortunatamente non avevo mai avuto modo di fare esperienze ortopediche, era qualcosa che aveva necessità d’un intervento miracoloso, per poter tornare allo stato naturale.
La leggenda di Amelia delle ossa veniva raccontata con mille particolari sulle sue caratteristiche fisiche, su dove viveva, su cosa faceva, su quando e come aveva imparato quella capacità quasi taumaturgica, di rimettere a posto le ossa rotte. Ma, appunto, era una sorta di leggenda... Erano elementi a cui avevo prestato l’attenzione che si dà ai particolari con i quali viene di solito allestita una favola nel racconto d’un narratore fantasioso. Quando l’amico fermò la macchina davanti alla casa di Amelia, mi resi conto che almeno per quanto si riferiva alla casa d’abitazione, la realtà superava ogni immaginazione.
L’impianto era quello d’una casa tipica casa carnica. Due arcate molto basse al piano terreno e poi un sistema complesso di scale e di poggiolo in legno a vista che portavano ai piani superiori, che lasciavano appena intravvedere la muratura di pietra. In mezzo alle altre case rimesse a nuovo ed intonacate sembrava veramente un errore del tempo che s’era dimenticato di cancellare quello strano ricordo di modi di vivere ormai dimenticati. L’interno era ancora più originale, ma non lo sto a descrivere, perchè ciò che vorrei raccontare non è tanto il mio primo incontro con Melie dai vuès, quanto il seguito. Nel mio primo incontro si rivelò pari alla fama. Mi unse il piede con unguenti dagli strani odori e me lo rimise a posto senza quasi farmi provare dolore. Mi raccomandò di tenerlo fasciato a di ritornare dopo un mese perchè voleva controllare se tutto fosse tornato a posto.
Mentre l’assicuravo che avrei fatto tutto secondo le sue raccomandazioni e che sarei tornato per la visita di controllo, mi interruppe per chiedermi: “E’ lei quello che, ho sentito dire, s’interesse dei Celti?”
“Si, sto cercando di raccogliere leggende che in qualche modo li riguardino.”
“Ne parleremo la prossima volta.” E mi lasciò così per un mese intero a pensare di quali originali racconti poteva essere depositaria la vecchia. Pochi giorni prima dello scadere del trentesimo fissato per la visita di controllo, passai per chiederle a che ora le andava bene di ricevermi.
“Alle otto di sera!” Mi disse senza alcun commento.
La strana casa, l’originale vecchia, l’ora insolita per una visita che pur doveva essere una visita medica...confesso che entrai in agitazione nell’attesa del giorno fissato...E ce n’era ben donde!!!
Dentro la casa era costituita da una grande cucina-sala da pranzo con un grande tavolo di noce in mezzo, un grande lavello di pietra sulla parete a sinistra con appesi ancora di secchi “cjaldìers” di rame con i quali si andava a prendere l’acqua alla fontana, quando non c’erano ancora gli acquedotti a portare l’acqua in casa. Di fronte si apriva un vano più stretto con il focolare al centro. Era un focolare di quelli di cui resta memoria solo nei libri, senza la cappa. Sui tre lati girava una panca di legno con lo schienale alto, e in mezzo, su un rialzo di un metro per un metro per l’altezza della panca, ardeva il fuoco. Mancando la cappa il fumo saliva libero per raccogliersi sul soffitto ed uscire da un una apertura che dava direttamente sull’esterno.
Al mio bussare, al mio saluto, aveva risposto con quello che m’era parso più un grugnito che il saluto d’una voce umana. Stava seduta sul lato sinistro del focolare e non s’era mossa per venirmi incontro, per venirmi a salutare. Non mi disse neppure di sedermi. Per togliermi in qualche modo dall’imbarazzo, chiesi se potevo sedermi. Continuava a guardare il fuoco, senza rispondermi. Lo presi per un silenzio assenso e mi sedetti sulla panca di fronte a lei, dall’altra parte del fuoco.
Inquadravo il suo viso poco sopra le fiamme d’un fuoco che ardeva vigoroso, tra il fumo nel quale si scioglieva la fiamma. Era segnato da rughe profonde. I capelli bianchi erano in parte nascosti da un fazzoletto nero che pareva soltanto posato sulla testa, con le estremità piegate di sopra, come usava ancora anche mia nonna. Un grande scialle nero le copriva le spalle e si incrociava davanti coprendole il petto. Era tutta assorta nel guardare il fuoco e sembrava non s’accorgesse neppure che la stavo scrutando, pareva anzi si fosse già quasi dimenticata della mia presenza, tutta presa da chissà quali pensieri. Continuavo a fissarla, quasi volessi fissarmi in testa i particolari della sua immagine, e il fumo che saliva tra me e lei, era come un filtro che dava sempre sfumature nuove e diverse al suo volto.
Sulla sua immagine filtrata attraverso il fumo mi persi come ci si perde nel sonno mentre si sta leggendo un libro. La sua immagine svanì nel fumo e mi ritrovai nel sogno...
Correvamo, lei davanti ed io, dietro sulla mulattiera che da Malga sale attraversando il bosco..Correvamo ma senza muover le gambe, come due ombre trasportate dal vento, sfiorando appena la pedrata. Prima di allora avevo fatto una sola volta quel percorso, per andare in malga ed al Crist di Val. Il sentiero sale ripido, avevo fatto molta facita. Ora invece come volando sul sentiero, senza fare alcuna fatica stavo rifacendo con la velocità del lampo lo stesso percorso. Ed in un baleno entrai con lei che mi faceva da guida per la seconda volta nella valle dove c’è malga Val. La volta precedente mi aveva colpito la malga realizzata in blocchi di marmo rosso, squadrati alla perfezione. Ma ora mi pareva che la malga fosse sparita .... Tutta la conca ai piedi del monte Verzegnis, era illuminata da uno strano chiarore come se fosse una notte di luna piena, o meglio come nel chiarore lattiginoso del buio che precede un grande temporale. C’era una folle enorme che come in una teatro riempiva tutta la valle ed anche i pascoli in alto, fino sotto alle rocce. Come quando a primavera un prato si riempie di fiori sì che non si riesce più a vedere il verde del prato. Ma erano fiori senza colore, d’un bianco sporco, come gigli appassiti, petali sparsi alla rinfusa prima che marcissero del tutto.
La mia guida non mi fece scendere in mezzo a quelle figure evanescenti, ma prese subito a salire per il sentiero che porta alla grotta del Crist. Già nella mia gita precedente avevo visitato quella grotta. Situata in alto sulla parete all’ingresso della valle, prende il nome da un crocefisso che è stato scolpito nella roccia. Nel secolo scorso quando si viveva di agricoltura, avevo letta che era stata più volte meta di pellegrinaggi per implorare la pioggia, a ristorare i campi dove il sole stava bruciando i già poveri raccolti di granoturco e patate. Ci arrivammo in un attimo come due refoli di nebbia che il vento ha staccato dalla nebbia che riempie la valle. E da lassù la valle sembrava veramente ricoperta da un trine di nebbia...
C’era qualcuno nella grotta che ci attendeva, come se il nostro arrivo fosse stato preannunciato, come se la mia guida fosse attesa, perchè aveva un ruolo nella scena che era stata preparata nella valle e che aveva fatto accorrere tutte quelle presenze. Non mi presentò, come se anche la mia presenza fosse scontata e normale. Cercai l’immagine del Cristo che avevo visto nella mia precedente visita ma non c’era. L’avrei dovuto vedere, perchè al centro della grotta era acceso un grande fuoco come quello che avevo appena visto nella casa di Amelia. Le lingue di fuoco si riflettevano sulle pareti rischiarandole e dando l’impressione che si muovessero. Non era più una grotta ma qualcosa di vivo come se la montagna fosse un enorme essere vivente, una donna gigantesca, e la grotta fosse diventata la sua vulva.
Senza avere il coraggio di chiederle niente, mi voltai verso Amelia, cercando spiegazioni di ciò che mi stava accadendo. Non so se per rispondermi o perchè faceva parte del cerimoniale intonò una nenia lugubre come un “dies irae”, e la valle gli faceva eco come se tutte le presenze che avevo intuito più che visto, popolare la valle, rispondessero in coro.
Fuoco dio Lug-Beleno,
penetra la Madre terra,
falla vibrare con il tuo amore
perchè torni a generare,
entri in lei l’umore del vostro incontro,
e la bagni perchè riviva e dia frutto.
Come se mi fossi addormentato su un libro ed avessi sognato del libro stesso, mi risvegliai, guardando al fuoco nella casa di Amelia, come se fosse lo stesso fuoco della grotta del Crist. Mi guardai attorno, sorpreso nel non vederla dove l’avevo lasciata, sulla panca di fronte. Avrei dovuto chiamarla, avrei dovuto salutarla. Invece ricordando il sogno, mi prese la paura. Uscii in fretta ed in silenzio...Sicuro d’una cosa sola che non mi sarei fatto più vedere in quella casa, da quella strega, neppure nella malaugurata ipotesi d’una nuova frattura alle ossa...
Ho ripensato poi più volte a ciò che mi era capitato chiedendomi se anch’io con Amelia aveva fatto un “viaggio dell’anima” come sono capaci di fare gli uomini nati con la camicia. Non so. Forse lei era capace di un tanto, ed aveva usato i suoi poteri perchè la potessi seguire. Perchè non mi aveva voluto spiegare niente? Forse perchè era evidente la simbologia di ciò che mi aveva fatto vivere.
Quando il mio amico Enore mi raccontava di quando bambino la mamma lo portava in processione a pregare il Crist di Val, inconsciamente lo portava a pregare perchè Dio rendesse fertile la natura. Era solo cambiata la prospettiva. Si chiedeva al Dio del cielo di far piovere “Rorate caeli desuper ed nubes pluant iustum” “Stillate cieli dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia” mi diceva il mio amico che si usava cantare. Confondendo il Giusto o la giustizia del canto d’avvento, che riporta le parole del profeta Isaia, con la pioggia. Ma in fondo era proprio un atto di giustizia che si chiedeva, chiedendo che non andasse sprecato tutto il lavoro fatto a primavera per dar da mangiare ai figli.
I Celti invece chiedevano che fosse il Dio dall’interno a fecondare la natura. Forse Amelia era una sciamana e aveva voluto portarmi a toccare con mano la continuità tra la religiosità dei Celti e quella cristiana, a farmi capire come molta delle religiosità celtica sia stata in qualche modo incorporata, prendendo forme e simboli cristiani, nel substrato culturale del popolo dei Carni.

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