lunedì 21 luglio 2008

Lo Sbilf di Davài.

C’è chi sostiene che Sbilfs e Gans sono la stessa cosa, addirittura che i due termini sono sinonimi. Nulla di più falso! Se non fossi così disordinato potrei anche trovare nel mio studio i documenti che attestano questa diversità. Ma visto il disordine che regna la ricerca potrebbe risultare inutile. Chiedo dunque mi si creda sulla parola. Nella valle del Degano i Gans, come si è già visto per l’altopiano di Lauco, avevano occupato il versante sinistro della valle, gli sbilfs si erano attestati preferibilmente su quello destro, ed in particolare sull’altopiano di Pani, sopra Raveo. Non è che la separazione fosse assoluta, ed infatti la vicenda dello sbilf di Davai di cui vi voglio parlare, si riferisce ad uno sbilf che aveva attraversato il fiume ed si era insediato sul terrazzo dove ai nostri tempi sorge il cimitero della Frazione di Avaglio del Comune di Lauco.
E’ noto che gli sbilf amano i luoghi ove si sente il respiro della valle sottostante e per sentire la valle del Degano il costone su cui è stato posto il cimitero è veramente eccezionale. I carnici di oggi utilizzano i posti più panoramici per costruirci i cimiteri, nell’idea di passare la vita eterna a sentire il respiro della valle. Gli sbilf, molto più pratici, pensavano che si dovessero godere in vita le bellezze del paesaggio e della natura. Per questo il nostro sbilf s’era costruito un rifugio proprio sul ciglio dello strapiombo da cui si diparte il terrazzo naturale sul quale si è sviluppato il paese di Davài. Così in lingua originale, Avaglio invece, come in qualche momento della sua storia il nome è stato tradotto da qualche scrivano ignorante.
Come casa uno sbilf non aveva bisogno di granchè…Il nostro aveva raccolto alcune stoppie di granoturco nei campi vicini, ed aveva realizzato un piccolo covone, come quelli che si vedono d’autunno in giro per i campi della Carnia. Su un lato aveva lasciato una piccola apertura che di notte chiudeva con un fascio di stoppie a mo’ di porta. Tutto qui…oltre naturalmente ad un comodo pagliericcio, ricavato con le foglie delle pannocchie di granoturco…quelle che, per capirci, anche gli umani usano per riempire i “paiòns” cioè i rudimentali materassi sui quali passano le notti.
Ma perché s’era andato a collocare proprio lì, venendo dagli altipiani opposti di Pani e Valdie? Lo capirono subito le donne di Davài che andavano al lavatoio posto all’uscita del paese: era un guardone maniaco! Se ne stava tutto il giorno a guardarle mentre lavavano i panni. Non è che ci fosse granchè da vedere. A quel tempo le donne non usavano le minigonne, ma al lavatoio per non sporcare le lunghe gonne fino ai piedi, erano solite tirarle su quasi fino al ginocchio…Così allo sbilf capitava alle volte di intravedere qualche polpaccio femminile nudo…e gli bastava quello per perdere la testa…Avendo intuito di quale piede andasse zoppo lo sbilf, Giulia la più bella ragazza del paese prese a mettersi sempre nel primo lavatoio, mettendo bene in vista i polpacci nudi…Potete immaginare lo sbilf… Non riusciva più a dormire la notte, sognandosi quella gamba di donna nuda! Sogna che ti sogna…alla fine si trovò talmente innamorato, che una sera non gli riuscì di evitare la pazzia di seguire Giulia nella sua casa. Gli sbilf infatti non dovrebbero entrare di giorno nelle case degli umani…. E tantomeno nella casa d’una ragazza sola…. Giulia infatti abitava da sola, perché gli erano morti i genitori e non aveva fratelli, proprio nella casa dove adesso c’è il bar, che giustamente è stato intitolato allo sbilf…
Giulia s’era accorta d’essere stata seguita…ma era una sbarazzina ed era molto incuriosita anche lei di vedere che cosa sarebbe stato capace di fare quel piccolo mostriciattolo dello sbilf, e lasciò aperta la porta perché potesse entrare dopo di lei…Lo sbilf era alto attorno ai trenta centimetri, se tutto fosse stato in proporzione, non c’era neppure il rischio che la potesse stuprare. Questo pensava la ragazza per tranquillizzarsi…ma se avesse potuto entrare nella testa dello sbilf e leggere i suoi pensieri sarebbe stata ancora più tranquilla…Lo sbilf l’amava intensamente, ma d’un amore platonico, gli piaceva solo guardarla, pensarla, amare l’immagine che di lei con lo sguardo di portava nel cuore…mai avrebbe avuto il coraggio neppure di sfiorarla, voleva solo guardarla, e guardandola si beava come se si fosse trovato d’incanto in paradiso, davanti al più bello degli angeli… S’era rannicchiato in un cantuccio della casa e la guardava…e gli mancava quasi il respiro…
“Non mi dici niente?” chiese lei.
“Non ho nulla da chiedere… Grazie d’avermi fatto entrare…Voglio solo guardarti, come il sole guarda l’acqua del ruscello, come la luna guarda le ombre della notte, e l’alba le gocce di rugiada appese alle corolle dei fiori…
“Siete poeti voi sbilfs!”
“La poesia è dentro alle cose e non nel cuore dei poeti…tu sei una poesia…”
“Grazie!” sussurrò Giulia che dai ragazzi di Davài, non aveva mai ricevuto un complimento così bello.
“Non hai un moroso?” le chiese lo Sbilf.
“Son tanti i ragazzi che mi fanno la corte, ma non riesco ad innamorami di nessuno. Credo che l’amore non debba essere una scelta della ragione, ma un moto istintivo del cuore”.
“Anche noi sbilfs la pensiamo allo stesso modo, ma l’innamoramento perfetto si ha quando alla scelta della ragione s’unisce l’impeto del cuore. Per ringraziarti dell’accoglienza, voglio farti un regalo, trasferendo a questa casa uno dei miei poteri magici. Tra queste mura s’incendieranno i cuori, il tuo e quello del ragazzo che avrai scelto di lasciare entrare…Questo mio potere magico resterà alle mura della casa, finchè non tornerò a riprenderlo!!!...
“Giulia non sapeva che dire…stava ancora pensando alle parole sull’innamoramento perfetto e non si accorse neppure che lo sbilf, senza aggiungere altro, senza neppure una parola di saluto, aveva aperto l’uscio e se n’era andato avvolto nelle ombre della notte che intanto erano calate sul piccolo paese…L’avrebbe cercato il giorno dopo per dirgli grazie…
Ma alle sue amiche non era sfuggita la scena dello sbilf che la seguiva in casa. Gelose, avevano raccontato la cosa ai Gans di Trava, che si erano arrabbiati di brutto…”Come? loro ad aiutare le donne e portare i pesi, e un cicisbeo di sbilf a far moine alla più bella…All’alba del giorno dopo vennero in forze da Trava a Davài, raggiunsero il costone dove lo sbilf aveva costruito il suo ricovero. Lui protestava che non aveva fatto nulla di male…che sentissero, diceva, la testimonianza di Giulia…Ma i Gans avevano già deciso, non potevano accettare d’essere stati fatti fessi da un intruso di forestiero…Fecero muro davanti allo sbilf costringendolo a ritirarsi fin sull’orlo del burrone…Sospinto da loro fu costretto a fare ancora un passo all’indietro, perse l’equilibrio e poi precipitò nel burrone con un grido straziante, che si sentì per tutta la valle…
Finì così lo sbilf di Davài, senza riuscire a riprendersi il dono magico che aveva fatto alla casa di Giulia, potere magico che è quindi rimasto attaccato alle pietre della casa, e dura ancora…Chi ragazzo o ragazza sta facendo la corte a qualcuno senza riuscire a farlo innamorare, se con una scusa qualsiasi riesce a portarlo o portarla nel bar allo Sbilf ad Avaglio…E’ fatta!...Tra quelle mura, riprende forza la magia dello sbilf… si diffonde nel ambiente come un magico profumo il potere dell’amore, ed entra inarrestabile e irresistibile nel cuore dei presenti…
Provare per credere!!!…Per questo, da quella volta, Avaglio è diventato famoso come il paese dell’amore!!!...

domenica 13 luglio 2008

ArPaZu




Al tempo della notte dei tempi, anche nella Carnia viveva il popolo dei piccoli uomini, degli Sbilfs dei Guriùts, dei Gans e delle Vinadie. Un giorno un Guriùt di nome Cjaròi, salendo sul monte Arvenis, la montagna cuore della Carnia, volle entrare a curiosare nella grotta che si trova quasi in cima al monte. E con sua grande sorpresa scoprì che dentro c’era già qualcuno. Un elfo, un piccolo uomo molto strano per nulla simile nè ai Guriuts ne agli altri elfi che aveva conosciuto sulle montagne.
Se Cjaròi avesse avuta la nostra conoscenza gli sarebbero venuti in mente i tre moschettieri. Per il cappello a larghe tese che aveva in testa, ma soprattutto per i vestito che indossava come quello dei moschettieri, o se si vuole come la pianeta che il parroco indossa dicendo messa. A tutto campo, al posto della croce c’era uno strano simbolo. Un grande cerchio, come quelli che si usano per il tiro a segno, con una freccia sulla destra e due gambe sotto.
“Da dove vieni” gli chiese Cjaròi.
“Non so bene rispose l’altro se da un altro mondo, o da un altro continente di questo mondo!”
Colpito dalla stranezza della risposta Cjaròi insistette:
“Ma se non sai da dove vieni come mai sei qui”
“Mi ha portato qui il desiderio di conoscenza”
“Il desiderio di conoscenza non può trasportare fisicamente i viventi”
“Perchè no? Se la fede può spostare le montagne, perchè la fede nella conoscenza non potrebbe trasportare i viventi”. Ad una logica così stringente ed assurda allo stesso tempo Cjaròi non seppe cosa replicare.
Gli chiese allora come si chiamasse.
“Arpazù!” rispose. “Per l’esattezza, aggiunse poi, mi dovrei chiamare Arpa Azzurra, ma sin da piccolo gli amici hanno preso a storpiare ed abbreviare il mio nome che è diventato appunto Arpazù”.
“Suona bene Arpa Azzurra!” commentò Cjaroi, mi ricorda i nomi che usavano gli indiani d’America. Ma che senso ha dare un aggettivo di colore ad uno strumento musicale?
“Da noi anche per i viventi si usano nomi poetici, e la poesia è fatta di metafore. Il suono dell’arpa evoca l’azzurro del cielo ove si perde il pensiero dei viventi seguendo il vibrare delle note dell’arpa.
Cambiando discorso gli chiese allora che cosa significasse lo strano simbolo che portava sul vestito.
“E’ il simbolo della nostra filosofia di vita” gli rispose. E’ necessario darsi lo scopo di centrare un obiettivo, allora diventa chiara la direzione da seguire, e si trova la forze nelle gambe per seguirla”.
Cjaròi invitò lo strano piccolo uomo a seguirlo, avrebbe voluto presentarlo ai suoi amici su nella valle ai piedi dello Zèrmula. Ma scesi a Zuglio mentre attraversavano il torrente But, incontrarono un gruppo di Vinadie, le fate scese dalle montagne per bagnarsi nelle acque pure e fresche del torrente. Queste, curiose come tutti gli esseri femminili, si fecero loro attorno chiedendo a Cjaròi chi fosse quel suo così strano ed originale compagno di viaggio.
“E’ uno venuto qui per conoscere!” disse Cjaròi per darsi importanza facendo il misterioso.
“Ma perchè vuole conoscere?” chiesero in coro le Vinadie.
Rispose Arpazù come se la domanda fosse stata diretta a lui: “Voglio conoscere tutto ciò che è altro, per conoscere meglio me stesso. Da noi si dice che per essere felici si deve conoscere se stessi, e che per conoscere se stessi si deve conoscere gli altri, il diverso. Per questo il mio desiderio di conoscere mi ha spinto fino qui”.
Non riusciva a spiegarsi ed a spiegare come fosse finito nella grotta sulla cima del monte Arvenis. Ma il saperlo era in fondo una curiosità inutile. Sbilfs, Guriuts, Gans ed Aganis della Carnia considerarono dei loro il nuovo arrivato Arpazù, e lo presero a modello per quel che diceva sul conoscere e fecero proprio il suo logo ed il suo motto
“assumere un obiettivo
per sapere dove andare
e trovare nelle gambe la forza per andare”.


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