Avevo in programma di partecipare all’inaugurazione dei lavori di completamento del Parco Archeologico Culturale di Castelraimondo a Forgaria del Friuli il 14 ottobre del 2006, ma per sopravvenuti impegni, ho dovuto rinunciare. La curiosità di vedere che cosa era stato scoperto dopo quasi venti anni di studio, da parte dell’Università di Bologna e di Parma, su un sito che risale certamente all’epoca preromana, mi ha portato a visitare il luogo alcuni giorni dopo. L’ambiente è notevole! Salendo in macchina da Forgaria la strada su cui sono arroccate le case della borgata che si è sviluppata sul Zuc Scjaramont, ti si apre ad ogni tornante sempre più ampio il paesaggio per il quale l’altura era stata scelta come luogo di vedetta. Ma anche come luogo di residenza privilegiata, per un popolo come quello dei Celti che sentiva la “poesia degli ampi orizzonti”.
Lasciata l’autovettura nel cortile deserto dell’ultima villa costruita da qualcuno che indubbiamente come i Celti sa apprezzare la poesia dei “respiri della valle”, ho proseguito a piedi secondo le indicazioni del sentiero attrezzato. Quelle pietre che sono state riportate alla luce dalla infinita pazienza dei giovani archeologi, mi davano una emozione profonda. “Sto mettendo i piedi”, pensavo, su sassi lavorati da persone che ci hanno preceduto, nella storia di questi luoghi, di duemilaquattrocento anni. Che pensieri, che parole hanno legato il loro lavoro a quei sassi? Nel silenzio scandito solo dal rumore dei miei passi mi pareva di sentirli, di sentire il vociare del cantiere, di annusare l’odore del sudore nello sforzo di smuovere quei grossi massi, senza altra attrezzatura che le mani, e la capacità di far forza assieme. “Oh! issa!”l’onomatopea che accompagna lo sforzo, forse era la stessa anche nella lingua dei Celti. “Oh! issa!” mi pareva di sentire riecheggiare nel bosco, e gli alberi contorti del bosco incolto, favorivano la mia immaginazione. “Oh issa!” mi pareva ribalzasse il grido di sasso in sasso, come se i sassi ne ripetessero l’eco dopo tanti secoli…
Era una giornata uggiosa d’autunno. Sembrava che stesse per piovere da un momento all’altro, ma non pioveva… Anche il tempo pareva sospeso, nella storia sospesa tra quelle fila di sassi, che erano stati un tempo una muraglia, che erano stati la base di una casa, di una stalla di una torre, che erano stati gli oggetti del pensiero di altri uomini. Pietre come lapidi, in un cimitero nel quale gli uomini avevano scandito il succedersi dei singoli giorni di millenni di storia. Ero solo e camminavo con precauzione, con devozione quasi, come se fossi veramente in un cimitero. Dopo quasi due ore di visita, avevo visto abbastanza. Avevo letto tutti i cartelli. Sapevo già tutto… Mi ero più volte soffermato a contemplare il panorama che dal un lato spazia sulle colline moreniche e la valle del Tagliamento, dall’altro controlla la stretta valle dell’Arzino. Avrei potuto ripartire, ma non riuscivo a decidermi, anche il mio volere restava sospeso… Era come se una voce che non sentivo, ma che mi parlava dentro, mi costringesse a restare, a camminare ancora tra quelle pietre, indeciso sul da farsi.
Fu la pioggia che alla fine mi costrinse a partire. Le gocce d’una nebbiolina che stava salendo dal paese, mi distolse con un brivido di freddo dai miei pensieri e mi risvegliò dalla suggestione del luogo che mi aveva portato fuori dal tempo… Corsi per raggiungere la macchina, ma invece che entrare pensai di ripararmi sotto la tettoia del laboratorio che sorge accanto al luogo nel quale avevo parcheggiato. Così, senza pensarci!... Forse solo perché volevo ancora guardare il panorama della valle, che tra i fili di pioggia diventava quasi fiabesco ed irreale…
Era un laboratorio di falegname. Un uomo, penso il proprietario o un lavorante, stava mettendo a posto alcune assi. Si fermò sorpreso per l’intrusione, non prevista…
“Mi scusi, gli dissi a mo’ di saluto. “Sta piovendo!”
“Vedo!” rispose asciutto.
“Mi ero intrattenuto su al parco!” aggiunsi quasi a chiedere scusa.
“Le è piaciuto?”
“Straordinario!” commentai e poi sempre a giustificarmi per l’intrusione nel suo laboratorio gli spiegai del mio interesse per i Celti, delle ricerche che avevo condotto. Vedendo che mi stava seguendo con interesse, e che non voleva smettere di piovere, mi lasciai trasportare dalla foga del discorso, e presi a parlargli della idea che mi ero fatta sulla loro religione fondata sulla compresenza del mondo dell’invisibile con quella del visibile.
Ad un certo punto mi interruppe bruscamente. “Guardi,” mi disse “è da tempo che cerco una persona come lei. Ho un racconto da farle…E’ come se da tempo volessi confessarmi, senza riuscire a trovare il prete all’altezza di valutare i miei peccati… Non ne ho mai parlato con nessuno, per non farmi prendere in giro, ma da quello che ho appena sentito sui suoi interessi, penso sia lei la persona adatta con cui potermi confidare…”
Prese a dire…
Anch’io, come lei un momento fa, ho sempre sentito sin da bambino la suggestione del sito del Casteraimondo. Abito qui vicino, e il parco del castello è sempre stato per me il mio giardino pubblico. Quando volevo fare due passi facevo un giro sul colle, ad ogni ora del giorno, ed a volte, nelle notti di luna, anche di notte… Poi è arrivata l’Università, sono arrivati gli studenti, ho fatto amicizia con loro, li ho anche aiutati nel lavoro di ricerca. Ho visto venire alla luce le pietre, le fondamenta delle case... Quando hanno deciso di costruire le tettoie per riparare i resti che avevano messo in luce, mi sono opposto… Mi pareva che quelle costruzioni moderne avrebbero rovinato la poesia dei luoghi. Mi spiegarono della necessità di riparare i reperti. Io ribattevo della necessità di non stravolgere l’atmosfera che si respira sul colle del castello. Alla fine prevalse l’esigenza di proteggere i reperti, e si sono fatte le tettoie di riparo… Non mi piacevano, ma questo non mi impedì di continuare a frequentare il parco archeologico di Castelraimondo. Fino ad un paio di mesi fa…poi non ho avuto più il coraggio di mettervi piede…
“Come mai?” lo interruppi.
“Perché mi è capitato quel che le vorrei raccontare e che non ho mai raccontato a nessuno. Se vuole starmi a sentire, e mi promette di non prendermi per pazzo…”.
Mi pareva di sentire l’architetto del romanzo de “I Celti ritornano”, ma non glielo dissi, anzi lo assicurai che sulle presenze dei Celti avevo già raccolto tante testimonianze, che mi portavano a credere ci fosse qualcosa di misterioso e di inspiegabile…
“Misterioso ed inspiegabile!” ripetè, “proprio come ciò che è capitato a me”. E riprese a raccontare…
Era un pomeriggio dello scorso mese di agosto. Si stava avvicinando un temporale minaccioso. Grossi nuvoloni neri si erano abbassati fino a lambire il colle del castello. Non era certo il momento per fare una passeggiata, eppure mi era venuto il desiderio di salire, come quando ti viene voglia di una sigaretta, nel momento più inopportuno…”Vado e torno!” mi dissi e presi a salire quasi di corsa per il sentiero già completato, pronto per l’inaugurazione. Ero appena arrivato nei pressi dei resti di quella che era stata recuperata come la “casa-santuario” dei Celti, quando si mise a piovere come non avevo mai visto, come se S.Pietro avesse aperto all’improvviso tutte le cateratte del cielo… Contro la luce dei lampi si vedevano fili di pioggia grossi come corde, e i tuoni sembrava entrassero nel suolo per smuovere le pietre come ci fosse stato un terremoto. Mi riparai sotto la tettoia che copre i resti della casa. Mi ero opposto alla sua costruzione, ma ero il primo ad averne un vantaggio…Nella vita capita spesso di dover approfittare di ciò che è stato realizzato nostro malgrado… Tuoni, lampi e il rumore assordante della pioggia sul tetto… Mi sembrava di essere finito in un inferno…”Passerà” pensavo, e invece si faceva sempre più buio, come se la cima del colle fosse finita dentro ad un nuvolone fitto e nero.
“E qui comincia il mio racconto…” riprese il mio interlocutore, dopo una breve pausa, facendo il gesto di asciugarsi il sudore dalla fronte. Continuò…ad un tratto mi parve di vedere una luce che usciva dalla terra, dal centro della casa, nel posto ove gli archeologi dicono di aver ritrovato i resti della cerimonia per la posa della prima pietra. La luce crebbe lentamente come se si gonfiasse, e apparve una persona… Era la luce ad essere la persona… Vestita di bianco, con una lunga barba, i lineamenti del viso e l’età indefinite. Non avevo dubbi: era l’immagine di un Druido, come l’avevo vista in tanti libri. Pensai che mi avrebbe toccato e che sarei morto, come avevo letto in tante leggende. Avrei voluto fuggire, ma non riuscivo a muovermi, come capita a volte nei sogni.
Forse aveva letto nel mio pensiero e mi parlò senza muoversi, per non spaventarmi. “Era questa la mia casa!” prese a dire. E’ questa ancora la mia casa, perché io sono ancora qui… Come ancora sono ancora qui nell’eternità tutti quelli che hanno vissuto qui, nello scorrere del tempo della storia. Non viviamo nella dimensione dell’eternità, voi in quella del tempo. Un tempo tra le due dimensioni ci si comunicava... Io ero uno di quelli che sapeva uscire dalla dimensione del tempo per ritrovarmi con quelli che vivono nella dimensione dell’eternità. Lo strumento che avete trovato, il synx, (come si legge nel pannello illustrativo) era lo strumento che mi permetteva di mettermi in contatto con il mondo senza tempo. E’ capace di emettere degli ultrasuoni che consentono il rapporto con l’altra dimensione… Oggi con te, m’è riuscito il percorso inverso, ma non l’ho fatto per spiegarti queste cose, alle quali voi non sapete più credere… Sono tornato per fugare i dubbi che a qualche studioso sono venuti ritrovando in questa casa i corpi di bambini nati morti. Nulla di strano, è una credenza che sei secoli si è sviluppata anche nella vostra religione: avete pensato che i bambini potessero risorgere per un momento per ricevere il viatico per una eternità felice. Anche noi lo pensavamo… Pensavamo che nella dimensione dell’eternità, l’individuo dovesse avere memoria del suo essere stato nel tempo. Li portavano a me, perché io dessi loro la memoria della vita dei loro genitori, non potendo avere loro memoria d’una vita che non avevano vissuto…
Così mi ha detto e senza aspettare che io gli rivolgessi la parola, che gli facessi delle domande, che gli chiedessi delle spiegazioni, si è spento come un fuoco che cessa di ardere, e si è sciolto di nuovo nel centro della sua capanna…
Faceva già freddo in quella giornata piovosa di ottobre. Ma il falegname continuava a tergersi il sudore della fronte, attendendo un mio commento…
Non sapevo che cosa dirgli. Anch’io mi stavo chiedendo per quale strano gioco delle coincidenze, dovevano finire a me tutti questi racconti sui Celti. Perché invece che salire in macchina come sarebbe stato più logico, ero finito in questo laboratorio di falegname a sentire questo così originale e strano racconto?...
Se l’idea di quel racconto sui bambini nati morti fosse venuta a me, potevo darmi una spiegazione perché proprio in quei giorni stavo studiando la storia della Madonna di Trava di Lauco, ove la tradizione voleva che tornassero a rivivere i bambini nati morti, il tempo necessario per ricevere il battesimo. Ma il falegname mi confessò che non sapeva nulla della Madonna di Trava, e che non aveva capito a che cosa si riferisse il Druido quando parlava di una credenza presente anche nella nostra religione…
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