giovedì 26 ottobre 2017

L'origine storica del Tiramisù

        
L’origine del Tiramisù e del Mascarpone.

   Raimondo della Torre fu Patriarca d’Aquileia dal 1273 al 1299. Appena insediato si rese conto dell’ importanza per l’economia del Patriarcato  del passo di Monte Croce Carnico e quindi del ruolo  di Tolmezzo a presidio sulla strada per il passo. Alla cittadina concesse il privilegio della raccolta del dazio sul commercio della Carnia perché si facessero le mura. I tolmezzini, in segno di gratitudine, sulla porta di sopra, hanno scolpito il suo stemma.
       Ma oltre le motivazioni  geo-politiche a rinsaldare i vincoli di amicizia di Raimondo con Tolmezzo contribuì il suo amore per la buona tavola. Aveva nominato gastaldo della Carnia suo cugino Eghelberto della Torre, famoso buongustaio milanese e la tavola del gastaldo della Carnia si distinse subito per la raffinatezza. Merito soprattutto del cuoco Cromazio  che il Gastaldo era riuscito a scovare nel paese di Cazzaso, un innovatore appassionato,  affascinato dal desiderio  di nuove pietanze con nuovi gusti e sapori e ma preoccupato anche  della genuinità del cibo. Al punto che, volle produrre in proprio  il formaggio, alimento base della sua cucina.         Nelle cantine del castello s’era fatto costruire una piccola latteria e il gastaldo obbligò i suoi contadini a conferire al castello la decima del latte prodotto. Poteva così far colazione con il burro di giornata, mentre il formaggio e la ricotta venivano stagionati a seconda delle pietanze a cui erano destinati. Per non sprecare nulla Cromazio s’era inventato anche la ricetta del Formàdi Frant. Faceva fermentare i resti del formaggio e persino le croste, unendovi delle erbe sempre diverse, ottenendo  così un prodotto con sapori sempre più inusitati.
Ma come capita spesso, fu invece opera del caso la scoperta del formaggio che rese Cromazio famoso in tutto il Patriarcato e oltre.   Una mattina aveva appena raccolta la panna affiorata nelle mastelle nelle quali era stato conservato il latte durante la notte. Aveva deciso di cuocerla per farne l’ont (burro fuso in friulano) da conservare.  Fu chiamato dal Gastaldo proprio mentre  aveva sul fuoco sia la pentola del burro che quella del formadi frant. Aveva appena ordinato ad un suo inserviente di  spremere alcune gocce di limone in quella del formadi frant. Voleva verificare che gusto ne sarebbe derivato a fermentazione avvenuta.
       Al richiamo del superiore si precipitò lasciando perdere ogni cosa. Al ritorno chiese all’inserviente se aveva spremuto il limone. Gli rispose di sì, indicandogli il recipiente che conteneva la panna. Ci si può immaginare la scena! Urla, bestemmie, pedate nel sedere dell’inserviente. Ma ormai era fattal Rovinato il burro della giornata! Anche perché si era spento il fuoco e si era interrotta la cottura del burro.  Come aveva dimostrato con l’invenzione del formadi frant, Cromazio era cresciuto a Cazzaso nella miseria e non sarebbe stato capace di sprecare nulla. Tanto meno la brume (la panna), la parte più pregiata del latte.  Rovesciò la pentola con la panna  su una delle tele che usava per fare la ricotta e ne fece un sacchetto, come appunto fosse ricotta.  Bestemmiando ancora contro la stupidità del suo inserviente portò il nuovo prodotto nel fresco della cantina e  l’appese, accanto ai salami. “Vedrò cosa farne un giorno” e con una ultima imprecazione, preso da altre cose,  si dimenticò dell’incidente.
       Solo il giorno dopo, mentre staccava un salame, gli tornò agli occhi il sacchetto.
“Son curioso di sapere che  cosa ne è avvenuto della panna al limone!” disse. Rovesciò  il sacchetto in un piatto e si trovò davanti un composto cremoso,   bello anche da vedersi. Quando prese ad assaggiarlo, non potè trattenere una bestemmia di soddisfazione. Una prelibatezza! Qualcosa dal gusto raffinato. La stupidità del suo inserviente aveva inventato un derivato dal latte che non era né burro nè formaggio nè ricotta, ma qualcosa di nuovo.  D’una bontà eccezionale.
       Capì subito che il miracolo era opera delle gocce di limone ma anche del fatto che il fuoco si era spento  fermando la cottura ad una temperatura ideale per realizzare il prodotto. Ci mise alcuni giorni a definire la ricetta, con diverse prove andate a vuoto. Bisognava trovare la giusta temperatura e la giusta quantità di limone che aveva provocato il miracolo. Alla fine ci riuscì e scrisse la ricetta
       Si doveva scaldare  in una casseruola la panna a fuoco lento mescolandola con un frusta fino a fare raggiungere gli 80/85 gradi. Poi aggiunte alcune gocce di limone si doveva continuare la cottura per un’altra decina di minuti . Lasciar quindi raffreddare nell’ambiente per 35 minuti, poi scolare in una tela, come fosse ricotta e mettere in fresco per almeno mezza giornata.
       Annunciò allora al gastaldo, gonfio il petto d’orgoglio e soddisfazione, di aver inventato un nuovo tipo di formaggio. Proprio  in quei giorni era in visita il cugino Patriarca. L’occasione cadeva a fagiolo per sentire i commenti sul nuovo prodotto.
       “Masse bon!” esclamò con enfasi l’arcidiacono della Carnia che era stato invitato per l’occasione e che come di regola i prelati, era anche un buongustaio. “Che prelibatezza!” aggiunse il Patriarca con fare estasiato. “Come l’hai chiamato?” chiese il gastaldo a Cromazio, soddisfatto per la bella figura che gli stava facendo fare. “Non ci ho ancora pensato, non ho dimestichezza con le parole” confessò quello. Allora intervenne il giullare, anche lui di Cazzaso, che si divertiva invece a giocare con le parole e a fare anagrammi: “Mettendo assieme le vostre esclamazione se ricaverebbe un Maschèpre. “Non mi pare granchè, ma riconosco che è un nome originale, se va bene al cuoco tuo compaesano può andar bene a noi, cui più che il nome interessa il gusto veramente nuovo e squisito,” disse il Gastaldo. Il cuoco non aveva parole e quindi nel Patriarcato si diffuse la voce che a Tolmezzo era stato inventato il Maschépre.
       A questo punto il lettore vorrà sapere come mai non s’è continuato a produrlo.
       Per rispondere bisogna tornare alla storia.  Nel 1279 il Patriarca Raimondo guidò in Lombardia un contingente di truppe friulane in aiuto dei suoi parenti in lotta contro i Visconti, per  il dominio della Signoria di Milano. Naturalmente si offerse come volontario anche il nipote, Gastaldo della Carnia, che si portò al seguito anche il cuoco Cromazio.
       Con i buongustai però non si vincono le guerre! Fu così che i Torriani subirono una sonora sconfitta a Vaprio sull’Adda. L’armata friulana fu disfatta. Anche Cromazio cadde prigioniero e finì i suoi giorni a fare il cuoco nel castello di Abbiategrasso, che già dal 1277 era passato con i Visconti, insegnando ai nuovi padroni  la ricetta del Maschépre, che nel frattempo aveva cambiato nome.
        Mentre si abbuffavano con quella nuova delizia del palato invece che prepararsi alla battaglia, i feudatari patriarchini si erano resi conto  che almeno il nome della specialità che gustavano ogni giorno doveva essere appropriato per l’ambiente militare. Maschèpre sapeva di frocio, per questo il giullare, lasciando inalterata la base, propose di cambiarlo nel più militaresco Mascherpòn, o Mascarpòn.
       Oltrechè sul nome ci furono grandi discussioni su quali fossero gli accostamenti migliori, se con il dolce o con il salato . Anche qui fu il caso a dare la soluzione.
       In una delle scaramucce che precedettero lo scontro finale, l’armata friulana si era scontrata con quella dei Conti di Savoia, alleati dei Torriani, ed era riuscita a fare qualche prigioniero. Tra questi il cuoco del conte. Cromazio si trovò ad avere così un valido collaboratore e assieme inventarono ricette eccezionali che fondevano la tradizione della Savoia con quella del Friuli. Come specialità il nuovo arrivato portava dei biscotti d’una particolare leggerezza che chiamava “savoiardi”. Fu per loro quasi inevitabile mettere assieme le due ricette: uno strato di savoiardi e uno strato di Mascherpòn il tutto farcito con ottimo zabaglione al vino moscato del Piemonte e ne venne fuori un dolce tanto squisito quanto facile a farsi.
        “Una bomba energetica!” commentò il giullare con questo “Tiramisù” saremo invincibili”, aggiunse, dando così il nome al nuovo dolce. Non fu così, perché  malgrado il Tiramisù furono sonoramente sconfitti. I Visconti si presero  la signoria di Milano, mentre i Torriani si spostarono in Friuli al seguito del loro Patriarca a godere dei feudi loro assegnati, ove deliziarsi di Tiramisù e Mascarpone. 
       Quando, nel 1420, Venezia pose fine allo Stato Patriarcale, prese a considerare il Friuli poco più che una colonia dalla quale importare legname per le proprie navi. Anche le buone tradizioni culinarie sviluppate con i Patriarchi si sono perse. Solo nell’ultimo dopoguerra, negli anni del boom economico è tornato in voga il Tiramisù Come mai sia venuta l’idea a Norma Pielli titolare e cuoca dell’Albergo Roma di Tolmezzo negli anni cinquanta del  Novecento, è facile a spiegarsi alla luce di questa storia. La Torre Raytemberger porta di accesso al castello patriarchino era al tempo, diventata cantina dell’Albergo.  E’ facile immaginare che vi aleggiasse lo spirito di Cromazio,  tornato da morto nei luoghi che avevano visto brillare la sua stella di grande cuoco. Invece che i numeri del lotto, come sono soliti fare i defunti, Cromazio  ha portato a Norma la ricetta. Come suggerito dall’anima di Cromazio, Astori  ha preso a importare da Abbiategrasso il Mascarpone che  i lombardi avevano continuato a produrre, sulla ricetta insegnata loro dal carnico prigioniero. Norma , da cuoca innovativa quanto Cromazio,  ha  arricchito la ricetta del Tiramisù,  che gli era venuta in sogno, con i gusti del caffè e del cacao che  lui non poteva conoscere.

       Ecco come la storia da sempre “magistra vitae” è anche in grado di tagliare la testa al toro sulla querelle dell’origine del Tiramisù. Alla luce della storia che s’è letta, è fuor di dubbio che il moderno Tiramisù è nato a Tolmezzo, recuperando la ricetta dei tempi del Patriarca Raimondo Della Torre.

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