A quei tempi, ai tempi in cui la Carnia era la terra dei Carni, le montagne erano popolate anche da tanti folletti. Sono favole! qualcuno dirà. E invece è una verità. I Celti infatti credevano che convivessereo assieme due mondi: quello del visibile e quello dell’invisibile. L’invisibile è il mondo nel quale in una altra dimensione vivono quelli che hanno abbandonato il loro corpo in qualche cimitero della montagna, ma anche tanti folletti e bellissime Agane.
Sull’alternarsi di pianori e piccole cime che dalla vetta dell’Arvenis, digradano verso il Tagliamento si era insediata la tribù dei Leuci, da cui prende nome oggi il Comune di Lauco, che ricomprende tutti i villaggi del suggestivo altopiano, che strapiomba su Villa Santina. Avevano occupato tutti i terreni ove era possibile far pascolare le greggi, ma il villaggio di riferimento era più in alto rispetto agli attuali paesi, era il villaggio di Chiàs nella conca ove oggi ci sono le poche case di Tristchiamp. Sull’altra sponda del Tagliamento sui pianori di Pani e Valdie che digradano dal Col Gentile si era insediata la tribù dei Ravei, che aveva il suo punto di riferimento nel villaggio di Sorantri. Le due tribù erano in collegamento con una passerella che attraversava il Tagliamento all’altezza della borgata di Chiassis, che incrociava sull’altra riva la strada che ancor oggi congiunge Raveo con Muina. Su questo collegamento da Chiàssis a Chiàs, i Leuci avevano istituito una sorta di servizio di trasporto permanente. C’erano infatti delle donne che con le gerle ogni giorno trasferivano sugli altipiani i prodotti che le donne di Sorantri portavano giù fino al Tagliamento. Il sistema era organizzato con un gruppo di donne che trasportava i prodotti da Chiassis all’attuale Trava, un altro gruppo da qui fino a Tarlessa e poi da qui fino a alla valle di Chiàs.
Non ci crederete! Ma e proprio storia! Anche se ancora nessun libro l’ha raccolta. Ad aiutarle c’erano i Gans. Sono i folletti che aiutano gli uomini di montagna quando devono fare un grande sforzo. Come racconta anche Giovanni Pielli nel suo libro sugli “Sbilfs” erano di corporatura rozza e massiccia. Pettorali, bicipiti e polpacci molto sviluppati dal continuo esercizio fisico, gli conferivano una forza erculea. Di carattere pacifico e servizievole erano grandi amici soprattutto dei boscaioli, i menàus. Li aiutavano a districare i pericolosi grovigli di legname che si formavano nelle strettoie durante le fluitazioni (stue) oppure nel liberare i tronchi che si incastravano negli inghippi lungo le risene (lisse).dei montanari.
Non essendoci menàus tra i Leuci, i Gans, servizievoli come erano, s’erano impegnati ad aiutare le donne portatrici. Le aiutavano nello sforzo di caricare la gerla sulle spalle, o nei tratti di maggiore pendenza, si mettevano dietro a loro aiutandole a sostenere il peso. Anche loro, come le donne si erano divisi in squadre, ed ogni giorno al far dell’alba lasciavano la piccola grotta chiamata appunto çiase dai Gans e raggiungevano il gruppo di donne alle quali dovevano prestare aiuto.
Nel gruppo che dagli altopiani scendeva al Tagliamento, ai tempi della nostra storia, c’era una bellissima ragazza, dai lunghi capelli biondi raccolti dietro la nuca in due lunghe trecce, con due occhi d’un azzurro così intenso che pareva specchiassero l’azzurro del cielo del monte Arvenis nelle giornate di sole di settembre. Non era grande, ma era tutta così perfettamente proporzionata che sembrava una bambola, sfuggita dalle mani di un grande artista, e per chissà quale incantesimo diventata donna. Era quasi impossibile non innamorarsi di lei ed infatti per un suo sorriso avrebbero dato un occhio tutti i ragazzi dell’altopiano. Non facevano che parlare di lei anche i Gans, quando alla sera si ritiravano nella loro grotta. Innamorarsi è normale, ma Avaglio che era il più romantico dei Gans, s’era preso una cotta tale che gli pareva di non riuscire a vivere senza il sorriso di quella ragazza. Aveva preso a seguirla in ogni momento, la aiutava a portare la gerla continuamente e non solo sulle salite più ripide. Sulla salita che si inerpica fino all’attuale piazza del paese ce la metteva tutta, gli pareva di riuscire a sollevare con la gerla anche la ragazza, poi quando questa appoggiava la gerla sull’apposito trespolo, che aveva accanto all’uscio di casa, le si metteva davanti implorando un suo sorriso… Ma lei niente!
Abitava la bella ragazza in una casupola posta ove ora c’è l’osteria del paese, proprio sulla strada che doveva percorrere più volte al giorno nel suo lavoro di portatrice. Aveva così il vantaggio di potersi fermare un momento a riposare, a bere un sorso d’acqua. Avaglio la seguiva come un ombra. Ogni tanto con uno scatto le si parava davanti e le sorrideva con la speranza di essere ricambiato. Ma lei niente! Ogni momento con lei da quando la prima luce, da dietro al monte Damarie, rompeva il velo nero della notte, fino a quando si spegneva l’ultima lama di luce dietro alle Dolomiti di Forni… In cambio di un sorriso, avrebbe potuto chiederle qualsiasi cosa. Ma lei niente! Non un sorriso ma neppure una parola gli rivolgeva.
Niente! Aveva una bocca che s’apriva come un fiore di genzianella al sorgere del sole. Per un suo bacio soltanto, tutti i ragazzi dell’altopiano avrebbero dato l’anima, e lei non l’apriva neppure quel boccio di rosa, per dire almeno una volta “grazie!” al povero Avaglio che si faceva in quattro per lei.
“Tu às doi voi ca son dos stelis, e la bociute ca è un bombon” le mormorò ispirato un giorno il Gan che come tutti i romantici era anche un poeta, inventandosi così una frase che sarebbe rimasta nella storia. Ma niente!
“Vuoi che ti porti le stelle alpine dal monte Arvenis? Vuoi che scenda nella forre del Vinadia? Vuoi che mi butti nel fuoco? Per te andrei anche a rubare…” La parola gli fece venire l’idea del gesto estremo, di fronte al quale anche Trava avrebbe dovuto cedere.
“Domani, le disse, ti porterò il tesoro dei Gans!”
Nella loro grotta i Gans custodivano un paiolo di bronzo pieno di monete d’oro. Era lì dalla notte dei tempi. Nessuno sapeva come vi fosse arrivato. Qualcuno diceva che veniva dall’India, qualcun altro dall’Egitto. Forse era stato portato dai Celti nella prima immigrazione dall’oriente ed in qualche modo era finito nella grotta la cjase dai Gans. Per i folletti quelle monete non avevano alcun valore in sè. Ma quel paiolo pieno d’oro era diventato il simbolo della loro gente, un sorta di divinità. Portarlo fuori dalla grotta, sarebbe stato un sacrilegio. Il massimo dei sacrilegi.
Ecco luio era disposto a fare il più terribile dei sacrilegi pur di conquistare la bella Trava!. Le spiegò ciò che aveva intenzione di fare per lei, le spiegò quanto fosse madornale l’azione che si accingeva a fare, pur di ottenere le sue grazie. Ma lei niente!
“Forse non le credeva! Pensava che fosse un fanfarone!”
No! Avaglio era di parola!
Mentre gli altri Gans stanchi dormivano, prese il recipiente con le monete e uscì nella notte.
Guardando al cielo di stelle, pensò al sacrilegio che stava compiendo. Ma non provò rimorsi. Non aveva con sé le monete d’oro rubate nella grotta! Le monete che aveva nel paiolo erano le stelle che aveva raccolto per la sua bella. Camminava nella notte sul sentiero che attraversava l’altopiano, ma gli pareva di star attraversando il firmamento come se fosse un prato, e lì per lì inventò un'altra canzone, con la quale pensava si sarebbe presentato a Trava.
Ma quando arrivò alla capanna, lei non c’era. Bussò. Chiamò. Fece forza sulla porta e riuscì ad entrare, ma lei non c’era. Si chiuse dentro e prese ad aspettare. Trascorse l’intera giornata e venne di nuovo notte, ma lei non era ancora tornata. Allora Avaglio si rese conto che non sarebbe tornata mai più. Con il suo gesto estremo invece di conquistarla l’aveva persa definitivamente. Chissà dove era andata pur di non vederlo mai più…
Il Gan innamorato si decise allora per il gesto veramente estremo. Si sarebbe lasciato morire nella casa di Trava, per poterla incontrare almeno nel mondo degli invisibili.
Scavò una buca in corrispondenza del focolare che c’era in mezzo alla capanna, e vi nascose il tesoro di monete d’or e si mise in attesa…
Quando dopo alcuni giorni al villaggio s’accorsero della scomparsa di Trava, forzarono la porta della capanna ma non trovarono nulla. La bella ragazza si era come volatilizzata…Dal momento che anche i Gans lamentavano la scomparsa di Avaglio, il Druido sentenziò che Trava era stata trasformata in spirito dal potere malefico del Gan che innamorato di lei non la voleva dividere con nessuno…
La capanna restò vuota per tanto tempo. Tutti avevano paura dello spirito che aleggiava nella Casa di Trava e se ne tenevano alla larga… Poi con il passare del tempo, ci si dimenticò della storia della bella ragazza. Il nome di Trava, dalla casa passò a tutto il villaggio. Del tesoro nascosto dal Gan, non se n’è più saputo nulla. Chissà che non sia ancora nel terreno dove sorgeva la capanna e dove oggi sorge l’osteria al Gan!!!
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