Le
Agane del Siera (Las Aganes dal Sièra).
Una favola, per inventare un motivo in più per un’ incantevole passeggiata fino al passo Siera, a scelta da Culzei di Pesaris (Cai 231) su una comoda carrabile, o da Sappada su una facile mulattiera (Cai 316). L’originalità sta nel fatto che è una favola che si rilegge camminando.
È
infatti illustrata sul posto dai disegni
di Sergio Sabadelli genero di Luigino Concina (Pilùc) proprietario della Malga Siera finalmente
rimessa a nuovo dopo l’incendio provocato dai tedeschi nell’ambito della lotta
di liberazione il 15 luglio 1944.
C’erano una volta le fate.
Dal latino fatum=destino, il loro nome stava a indicare degli esseri capaci di influire sul destino degli uomini. Esseri capaci di guidare gli uomini verso la felicità, in qualche modo personificazione del desiderio di felicità degli uomini.
Dal latino fatum=destino, il loro nome stava a indicare degli esseri capaci di influire sul destino degli uomini. Esseri capaci di guidare gli uomini verso la felicità, in qualche modo personificazione del desiderio di felicità degli uomini.
In Carnia le fate si chiamavano
Aganes, da àghe-acqua perché
abitavano nei corsi d’acqua. Chi aveva avuto la ventura di incontrarle, s’era
imbattuto con loro sempre vicino ad un ruscello. Uscivano nelle notti di luna
piena ad asciugare le loro vesti al chiarore della luna.
Poi ci fu il concilio di Trento.
Si stabilì che la felicità viene solo da Dio, dalla sua Provvidenza. Si decise
fosse sacrilego immaginare l’esistenza di
principi di felicità che si concretizzavano nella libertà individuale di ogni
uomo, al di fuori della Chiesa. Così le Agane che, come apportatrici di felicità, prima erano raffigurate come bellissime fanciulle,
vennero considerate come brutte espressioni infernali, demoniache.
In questo modo avrebbero dovuto
trasformarsi anche quelle della Val Pesarina. Popolavano la valle, nascoste nel
rio Pesarina, e nei tanti ruscelli che scendono dalle montagne ad alimentare il
torrente. Si riunivano poi ogni notte a danzare sul passo tra la valle del
Boite e la Val Pesarina, che da loro prendeva il nome di passo delle fate.
Danzavano mosse dal vento che soffiava in un senso o nell’altro a seconda che a
prevalere fosse Scirocco o Tramontana. Si ristoravano nel laghetto del passo e
nelle pause andavano a dissetarsi alla fontana degli Sbilf, subito dietro alla
casera della malga.
Una gorne(gronda) alimentata dalla sorgente che prende
l’acqua dal monte Siera, dove come si sa, sono corsi a nascondersi i folletti,
per non incorrere nelle furie dell’Inquisizione.
Hanno dato all’acqua che esce dalla loro
montagna il potere di rinforzare e potenziare ciò che si ha. Per cui se la beve
chi è malvagio, chi porta nel cuore il veleno della malvagità, finisce
avvelenato: il veleno morale si potenzia sino a trasformarsi in veleno del
fisico. Chi porta nel cuore sentimenti di generosità e amore invece, a ogni
sorso, ha la sensazione gli si gonfi il cuore di felicità.
Le agane pesarine avevano anche
il potere di trasformarsi in animali e così di giorno le si poteva incontrare,
senza rendersi conto che fossero loro, mentre si ascoltava estasiati il canto
d’un uccello, o si ammirava la grazia della corsa d’un capriolo o d’un cervo, la
furbizia d’uno scoiattolo, la forza d’un cinghiale, l’imponenza d’un orso.
Trasformate in animali, ne
conoscevano il linguaggio, e diventavano quindi interpreti tra il mondo animale
e quello umano. Per questo la valle andava famosa per il rapporto intenso e
profondo che legava animali e umani: due specie che condividevano lo stesso
ambiente in collaborazione, non, come ora avviene, due specie nemiche, in contrapposizione
continua.
Per questo la valle era un parco
naturale dove la gente veniva per godere dello stupore dell’incontro
ravvicinato con gli animali, per bearsi
del riecheggiare del canto di mille
uccelli che inondava la valle, come il suono degli strumenti di una unica grande
orchestra sinfonica.
Si viveva felici in valle!
Poi con il Concilio venne l’Inquisizione, fu peccato credere alle fate.
Si stabilì che non era vero che le Agane fossero fate, esseri benefici. La loro
natura era invece quella delle streghe: esseri malefici. Il potere di
trasformarsi in animali veniva dal demonio, non da Dio. Andava scacciato dalla
valle il demonio, che l’aveva occupata insediandosi nella forma di queste
Agane.
Vista la gravità della
situazione, a fare gli scongiuri per trasformare le fate della Val Pesarina da Agànis in Strìes salì
personalmente il Patriarca di Aquileia Gregorio da Montelongo. Trasformate in
streghe, si sarebbero dovute bruciare, come si faceva negli altri paesi, il
parroco del luogo, un ambientalista, suggerì che per evitare l’inquinamento
atmosferico, in alternativa si potevano buttare nelle “cjalcinàrie”: l’effetto
sarebbe stato lo stesso: il fuoco trasforma in fumo, la calce riduce in
polvere.
Ma, si sa, la Val Pesarina è sempre stata una valle di
anarchici, di controcorrente. Anche le fate erano in linea, anarchiche fino
all’ultimo respiro, opposero una decisa resistenza, non accettarono di
trasformarsi in streghe, preferirono la morte.
A ricordo del loro potere di diventare animali,
chiesero di poter restare dentro agli alberi, mantenendo l’immagine che avevano
scelto in vita vive. E si vedono ancora, sul sentiero che porta al passo, ora
trasformato in una carrareccia transitabile con i fuoristrada. Chi fa
attenzione però, scopre ancora i resti dell’originario sentiero lastricato: il “tròi
das Agànis”.
Sette di loro invece, le più
anarchiche, non accettarono neppure questo compromesso.
Si opposero e alla fine chi l’ha
dura la vince, l’ebbero vinta sul
Patriarca, al punto di costringerlo a
venire a patti. Ottennero di restare
fate, accettando però di riapparire e riunirsi solo una volta alla settimana, di
venerdì, la sera del sabba, come fanno anche le streghe. Non più nei verdi prati del
passo, ma sulla strada di accesso. Nascondendosi non più nel laghetto del passo
ma nel rio Siera-
Da lì escono a danzare al
limitare del ruscello, in un piccolo bosco di larici, che da loro prende il nome di boschetto delle Agane,
il boscùt da Agànis.
Si era le fate del Passo,
invece
abbiam resistito…
Poi una alla volta si presentano:
Sono
la fata della fede
Sono
la fata della speranza
Sono
la fata della carità
Sono
la fata della prudenza
Sono
la fata della giustizia
Sono
la fata della fortezza
Sono
la fata della temperanza
La fata della prudenza ha i
piedi girati all’indietro, per lei infatti è sempre meglio un passo indietro
che un passo avanti.
La fata della speranza ha invece le ali, sostiene che
comunque non si deve mai smettere di volare in alto, almeno con la fantasia.
Quella della fede ne ha quattro di ali, come le libellule, a dire che la fede
vola ancora più in alto della speranza.
Quella della giustizia gira tenendo in mano la stadera che s’usava un tempo anche nelle malghe.
Quella della forza, ha i piedi a forma di zoccolo di cavallo, a ricordare l’aiuto che viene all’uomo da questo animale. Ma la forza va usata con giudizio, sostiene la fata della temperanza, vestita da filosofo o da mago che dir si voglia.
C’è infine quella della carità che ha quattro braccia e quattro mani, sostiene che la felicità dell’uomo sta nel dare non nell’avere, “più dai e più ricevi” è il suo motto.
Danzano in cerchio tenendosi per
mano, a significare che nessuna di loro è in grado di dare la felicità,
che per
gli uomini la vera felicità nasce dal concerto e dalla sintesi dei loro poteri.
Danzano e cantano per tutta la
notte. Nelle pause s’appoggiano al tronco del larice da ognuna prescelto, che
così assorbe al contatto i loro poteri. Per questo, anche di giorno, si vede la
loro immagine sugli alberi. Per questo,
chi si ferma nel boschetto delle Agane, sente il loro influsso e torna a
valle rigenerato.
Fino all’alba. Poi salgono con il sole che inonda di luce la montagna e si nascondono tra le rocce delle Vette Nere. Così è stata chiamata la montagna a ricordare il lutto perché le tiene sepolte per l’intera settimana.
Fino all’alba. Poi salgono con il sole che inonda di luce la montagna e si nascondono tra le rocce delle Vette Nere. Così è stata chiamata la montagna a ricordare il lutto perché le tiene sepolte per l’intera settimana.
Vi entrano infilandosi in una piccola grotta che prende il nome di “buse das Aganis”. A difendere la loro privacy hanno ora assunto un orso che fa da guardiano.
Dalle parole iniziali del loro inno viene il nome Siera con il quale ora si nomina quello che un tempo era il passo delle fate.
Dalle parole iniziali del loro inno viene il nome Siera con il quale ora si nomina quello che un tempo era il passo delle fate.
SPIEGAZIONE
A fianco della carrareccia che porta al Siera Sergio Sabdaelli ha
incollato sugli alberi delle immagini di animali.
A un certo punto in un boschetto segnalato da apposita freccia ha inserito in sette alberi sette immagini di fate, (disegni naif). Sono immagini da portare a casa come foto ricordo non da asportare come oggetti-ricordo.
A un certo punto in un boschetto segnalato da apposita freccia ha inserito in sette alberi sette immagini di fate, (disegni naif). Sono immagini da portare a casa come foto ricordo non da asportare come oggetti-ricordo.
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