San Martino in Carnia.(da un’idea di Giulio
Astori)
Come si legge nella sua biografia,
San Martino di Tours è nato nel 316 a Szombathely (al tempo Sabaria Sicca), la prima
cittadina che si incontra arrivando in Ungheria dall’Italia, subito dopo il
confine con l’Austria. Suo padre era tribuno militare della legione che
presidiava quella che allora era diventata la capitale della Pannonia
superiore. Un avamposto rispetto alle colonie di Aquilieia e Julium Carnicum,
ma, sulla via dell’ambra, il centro era subito cresciuto ed era diventato una
città importante, con tanto di sede imperiale, terme ed anfiteatro.
Quando il padre di Martino andò in
pensione, come tutti i veterani dell’esercito romano, secondo le usanze,
ottenne l’assegnazione di un podere a Pavia. Vi
si trasferì con la famiglia quando il figlio, che aveva voluto chiamare Martino, in onore del
Dio Marte, aveva solo dieci anni. A dispetto del nome che il padre gli aveva
dato nella speranza di vederlo diventare almeno comandante di legione, il
ragazzo, più che per la guerra, si sentiva portato per la preghiera e la
meditazione. A Pavia una volta scomparve di casa per alcuni giorni. Il padre lo
cercò disperato e lo trovò in una chiesa, tutto assorto nelle sue riflessioni
sul senso della vita. Aveva così ripetuto le gesta di Gesù che, facendo disperare
Giuseppe e Maria, s’era perso a
discutere con i dottori del Tempio di Gerusalemme.
Ma nel 331 un editto dell’Imperatore
Costantino obbligò tutti i figli dei veterani ad arruolarsi nell’esercito
romano. Suo malgrado, fu quindi reclutato nella “ Schola imperiali” un corpo
scelto di militari perfettamente equipaggiati. Ognuno infatti disponeva d’un
cavallo e d’uno schiavo.
Nel 335 l’imperatore Costantino
decise di trasferirsi in Ungheria per definire un trattato con i barbari
Visigoti. Avrebbe concesso loro di
stanziarsi sulla riva sinistra del Danubio, ponendo il fiume come confine dell’Impero
Romano. Riteneva così di farseli alleati.
In questa spedizione senza pericoli,
diplomatica e non militare,volle che lo accompagnassero i ragazzi della “Schola
imperiali” appena arruolati, giovani di
appena quindici sedici anni. Non avendo fretta, prima di attraversare le Alpi
si fermò per alcuni giorni nella colonia di Julium Carnicum ospite dell’amico Caio
Bebio, che da poco aveva premiato con l’incarico di governatore di quella colonia.
I ragazzi della Schola erano
accampati appena fuori le mura, nella località detta Formeaso. In libera uscita si riversavano
nella cittadina di Julium in coda per poter consumare nel lupanare. Martino no!
Ogni sera si faceva a piedi la salita fino alla chiesa metropolitana dedicata a
San Pietro dove officiava il vescovo Callisto. La Chiesa era circondata da due
monasteri uno riservato alle monache e uno ai monaci. Si pregava molto e ancor
più si discuteva di teologia sul mistero della Trinità, l’argomento più in voga
al momento. C’erano infatti alcuni monaci che ancora esprimevano delle riserve
sulla dottrina dell’homoousion ed erano vicini all’ eresia di Ario, malgrado
già dieci anni prima nel 325 a Nicea, proprio per l’intervento dell’Imperatore
Costantino, fosse stato definito il
dogma della consustanzialità sotto la forma del simbolo niceno
Martino non era però interessato a
queste discussioni pensava che il cristianesimo dovesse richiamarsi agli
insegnamenti di Cristo, al precetto che considerava come vero dogma fondante della nuova religione,
quello di amare gli altri come noi stessi, di vedere Cristo nel prossimo, soprattutto
nei poveri. Si sentiva così più vicino a Elena, la madre dell’Imperatore, che,
invece di filosofare, aveva preferito cercare in Palestina i segni
dell’esistenza di Gesù e, sul Golgota, aveva trovato i resti della croce.
Uscendo una sera dal convento della
Chiesa di San Pietro per rientrare
all’accampamento in tempo per la tromba della ritirata, Martino aveva visto,
proprio accanto alla porta, un povero affamato e intirizzito.
“Perché non bussi e ti fai
ospitare?” gli aveva chiesto.
“Ho bussato, ma mi hanno detto che
non hanno né tempo né posto per me, occupati come sono a disquisire sul dogma
della Trinità”
“Ma prima di disquisire, Gesù ha
insegnato ad amare!” protestò il giovane soldato romano. Volendo poi passare
dalle parole ai fatti, gli era venuta l’idea di tagliare un pezzo del suo
mantello per coprire il corpo del poveretto. Ma, in libera uscita, non aveva
preso con se le armi. Non aveva una spada e neppure un pugnale per tagliare il
mantello in due. Esitò un momento, poi preso da un impeto di carità, senza
pensarci, né frapporre indugi si tolse il bianco mantello, la clamide bianca
della guardia imperiate, e coprì il
poveretto perché non prendesse altro freddo.
Senza pensarci. Ma ci dovette
pensare rientrando all’accampamento. L’ufficiale di guardia gli chiese conto
del mantello, e non potendo dire che l’aveva regalato si giustificò dicendo che
gli era stato rubato. L’ufficiale stabilì che nella libera uscita del giorno
dopo avrebbe dovuto recuperarlo, altrimenti gli sarebbe stato addebitato e
avrebbe trascorso dieci giorni di punizione in cella di rigore.
Fu così che la sera dopo Martino
risalì alla Chiesa di San Pietro alla ricerca del povero. Voleva scusarsi e
chiedergli che gli restituisse il mantello. Ma durante il giorno c’erano stati
degli sviluppi imprevisti. Il suo mantello era già molto lontano sull’altopiano
centrale della Carnia.
Glauco, il poveretto a cui l’aveva
dato aveva una sorella avara e taccagna che aveva sposato un contadino di
Sezza, ancora più gretto di lei. Quando la donna, che di solito neppure lo
salutava, vide addosso al fratello quel
mantello bianco di pregevole fattura, volle sapere dove l’avesse rubato. Glauco
invece spiegò come e dove l’aveva ricevuto in regalo. E proprio perché l’aveva
avuto in dono si rifiutò di consegnarlo alla sorella che lo pretendeva con
insistenza.
Anzi, pensò fosse un suo dovere di
gratitudine girare per i paesi a rendere testimonianza della generosità che
caratterizzava i giovani soldati romani,
e partì subito per recarsi nei villaggi di Cazzaso e di Lauco, ancora abitati
dai Celti, che avevano in odio i romani.
Tania, così si chiamava la sorella, con il
marito architettò allora uno stratagemma per ottenere il regalo del mantello.
Si vestirono entrambi di stracci e si accucciarono ai lati della porta del
convento di San Pietro, in attesa che uscisse il giovane soldato romano.
L’avevano seguito e avevano notato che l’addetto al vettovagliamento gli aveva
assegnato un nuovo mantello.
Quando lo videro uscire sulla porta
presero a lamentarsi del freddo.
“Non riusciremo a sopravvivere al
freddo di questa notte,” piagnucolava la donna.
“A meno che non ci sia qualche
buonanima che ci offre il suo mantello,” aggiunse il marito.
A quella battuta, il giovane
Martino, un ragazzo molto perspicace, intuì che i due sapevano qualcosa del suo
mantello, e che lo volevano raggirare.
Ad ogni buon conto, quella sera era
uscito armato. Sfoderò quindi la spada e la puntò con decisione contro il petto
della donna. “Che ne è del mantello che ho donato ieri sera al povero del quale
voi avete occupato il posto, qui sulla porta del monastero?”
“Non sappiamo niente, di poveri e di
mantelli,” si provò a dire la donna, ma quando sentì contro la sua carne la
punta della spada che Martino spingeva per far capire che non aveva intenzione
di scherzare, biascicò: “Il povero, di ieri sera è mio fratello, ma adesso
chissà dove è, in giro per i paesi a portare il racconto della tua generosità.”
Preso atto che non avrebbe potuto
recuperare il mantello Martino ebbe la brillante idea di risolvere a suo
vantaggio lo stratagemma che i due
avevano pensato per approfittare della sua generosità. Li costrinse a
incamminarsi davanti a lui, pungolandoli con la punta della spada, e li portò
all’accampamento, denunciandoli come le persone che gli avevano rubato il
mantello.
Era una bugia! Ma a volte anche le
bugie servono a far valere la giustizia. Sulla parola di Martino, i due furono
condannati per furto a passare sei mesi nelle carceri di Julium Carnicum.
Espiarono così la giusta pena per l’intenzione che avevano avuto di farsi
passare per indigenti per ottenere il suo mantello. L’intenzione di rubare, è
una colpa quanto il furto in sé.
Avendo così trovato i presunti ladri del suo mantello Martino non fu punito, e gli fu lasciato in dotazione il
nuovo mantello. Probabilmente lo stesso che poi riuscirà a dividere in due con la
spada e che lo renderà famoso nei secoli a venire. Come si sa, in seguito Martino, ricevendo il battesimo, è diventato ufficialmente cristiano. Ha fatto
il monaco in Francia ed è stato poi acclamato vescovo di Tours. Anticipando il
modo di fare i papa Francesco, anche lui non è andato ad abitare nell’edificio del Vescovado, ma ha fatto il
vescovo, restando a vivere nella sua cella di monaco.
Ma, per quanto voglia far vita
riservata e nascosta, un Vescovo è sempre un vescovo, e trova sempre qualche
scrittore, più o meno importante, pronto a raccontare le sue gesta. E’
diventato così famoso il suo gesto,
carico di pathos, d’aver tagliato il
proprio mantello, senza neppure scendere da cavallo, per coprire un poveretto
che, tutto infreddolito, gli chiedeva la carità. Prima d’ora non aveva
trovato ancora nessuno che raccontasse di quando aveva anticipato il gesto, sulle alpi carniche,
quando era soltanto un soldato semplice.
Seppure in ritardo, sono soddisfatto d’aver
potuto metterci una toppa! Giusto in
tempo per celebrare il prossimo anno con questa novità il 1700° anniversario
della nascita del santo Martino nella vicina Szombathely.
Tolmezzo, 11
novembre 2015. Omaggio a San Martino.
1 commento:
Ho sempre amato le leggende, quindi grazie per questo racconto.
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