sabato 9 febbraio 2008

La frana di Cazzaso.

In ogni paese della Carnia si raccontano le stesse storie. Racconti della Carnia, come quello di Silverio sul Moscardo o delle Streghe sul Tenchia. Ma poi ci sono anche i racconti propri di ogni paese, legati a situazioni e fatti particolari, che ne hanno caratterizzato la storia. Il mio paese, Cazzaso, è noto come il paese in frana. Nel 1851 il monte Diverdalce è franato ed ha travolto il paese che sorgeva alle sue falde. Ma quelli di Cazzaso sono persone che non la danno vinta facilmente. Neppure alla montagna hanno voluto darla vinta, e sono tornati a costruire il paese, lì dove era prima, proprio sopra alla frana. E’ naturale quindi che i racconti particolari del paese siano in qualche modo legati alla frana. Anche l’evento della frana è in qualche modo diventato un racconto. Me lo ripeteva spesso mio nonno, giurando che l’aveva sentito direttamente da suo nonno, che aveva vissuto quei terribili momenti. Non so perché ma in Carnia, i racconti si trasmettono da nonno a nipote, invece che da padre e figlio. Sembra quasi che i padri siano troppo impegnati nel fare e non abbiano tempo per i figli. Il compito di mantenere e trasmettere le memorie viene quindi lasciato ai nonni. In fondo è un modo intelligente per attribuire anche agli anziani un ruolo importante nella comunità.
Scusandomi per queste divagazioni sociologiche e tornando a mio nonno, dicevo che quando ero ragazzo era solito raccontarmi di come era avvenuta la frana, ripetendo, a suo dire, il racconto di suo nonno. Mio nonno era uno a cui piaceva raccontare... Lo ricordo in osteria che raccontava, e tutti attorno a lui ad ascoltare. Lo ricordo nelle lunghe sere d’inverno. Ma il ricordo più vivo è sempre ambientato nelle fresche sere del mese di maggio. Nell’ampio cortile davanti alla casa, mentre la brezza della sera portava i rumori soffocati della valle, quei suoni, quelle voci che salivano dal fiume, davano l’impressione che ci fosse veramente un altro mondo che viveva in un’altra dimensione, e le parole del nonno davano voce a quel mondo, ricostruivano i fili che ancora ci legavano ai personaggi della storia del paese.
C’era nel cortile un sasso squadrato sul quale era solito sedersi, guardava alla valle, alla catena del Sernio dietro alla quale si spegneva l’ultimo respiro di luce, come se dal paesaggio dovesse trarre le parole ed il racconto, e prendeva a parlare… Parlava e masticava tabacco, per cui anche le parole assumevano sfumature di suono diverse, e si aveva l’impressione che non fosse più lui a raccontare ma qualcuno con una altra voce, veramente tornato dal passato. Il suo racconto sulla frana, iniziava sempre allo stesso modo, con la stessa frase: era una notte di novembre…
Era una notte di novembre e pioveva da giorni. Come è normale a novembre, il periodo appunto della “montàne di sàns”. La Carnia, come si sa, è uno dei luoghi più piovosi d’Italia. Si hanno normalmente dei periodi di piogge intese, che nella parlata locale hanno preso appunto il nome di “montàne”. Sono periodi di pioggia che ricorrono con cadenze annuali, in occasioni in qualche modo prestabilite. Quella dell’inizio di novembre, per la festa dei santi, è una delle più ricorrenti. Ma quel anno, continuava mio nonno, è stato qualcosa di veramente eccezionale. Sembrava veramente dovesse tornare il diluvio. Pioveva a dirotto già da una settimana e non dava l’impressione di voler smettere. Il rio Laune che scorre sopra il paese pareva un diavolo scatenato. S’era ingrossato come mai prima d’allora. Come una furia scatenata trascinava sassi, sradicava alberi. Da un momento all’altro ci si aspettava che tracimasse e travolgesse il paese. Gli uomini stavano a guardia e il sacrestano sul campanile si teneva pronto a suonare l’allarme.
Ciò che si temeva alla fine avvenne. Erano le otto di sera, del giorno dei morti. Le campane avrebbero dovuto suonare per accompagnare la processione per la visita di preghiera al cimitero. E invece suonò soltanto la campana “grande” quella che suona l’ Ave Maria quando muore qualcuno. Suonava “a morto” come non aveva mai suonato, come se anche lei sentisse che non si trattava della morte d’una persona, ma di tutto il paese…
Il torrente aveva tracimato e strava trasformando in torrenti di fango le strade del paese. Ma c’era di peggio, l’acqua si si era infiltrata sotto al paese, e tutto il paese si stava muovendo, stava scivolando a valle. Al suono della campana la gente era tutta fuggita, ritirandosi sulla collina del cimitero, verso il paese di Fusea, perché tutti sapevano che quello il luogo sicuro. A sottolineare i momenti di maggiore intensità drammatica dei racconti, mio nonno tirava lontano uno sputo di tabacco, e faceva una pausa. A questo punto era solito fare uno sputo più forte del solito, e una pausa più lunga…a sottolineare l’eccezzionalità dell’evento. Riprendeva, ci vorrebbe un romanziere russo per riuscire a rendere la drammaticità del momento.
La gente che avrebbe dovuto salire al cimitero per pregare per i morti era affollata tra le tombe a guardare giù il paese che si muoveva lentamente, che lentamente moriva. Quasi che la natura volesse prendersi gioco di quella povera gente, per un poco smise di piovere. Sopra il Diverdalce si squarciarono per un poco le nubi ed uscì la luna. E gli abitanti di Cazzaso dal cimitero poterono guardare il loro paese che scendeva, nel movimento della frana le case di contorcevano con stridii sinistri e poi si sfasciavano con lugubri tonfi. Il paese sembrava un grande animale ferito incapace di resistere alla forza della montagna che lo trascinava a valle, e che in un lamento esalava gli ultimi respiri. Ad una ad una si piegarono su se stesse tutte le case e del paese non si vedeva che un cumulo di macerie. Le nubi si chiusero di nuovo, la luna sparì, e gli abitanti rimasero soli e disperati in mezzo alle tombe dei morti. Anche i vivi, più morti che vivi, con la morte nel cuore per aver perso tutto. Si strinsero le famiglie attorno alle tombe dei loro morti, chiedendo ai morti un aiuto ed una speranza. I ragazzi aggrappati alle madri che tenevano in braccio i figli più piccoli. I padri a fianco, incapaci di una parola e di un gesto. Ma quando si è ridotti a riporre la speranza nei morti…
Ringraziamo comunque Dio perché siamo tutti salvi, continuava a ripetere il prete, girando da tomba a tomba. Ma ad un certo punto ebbe un soprassalto, come quando ci viene in testa qualcosa all’improvviso. “E la Turche?” gridò. Tutti si guardarono attorno a cercarla, ma lei non c’era. Pensavano di essersi salvati tutti, ma si erano dimenticati della Turche. Ormai era troppo tardi per pensarci, era rimasta senza dubbio travolta dalle macerie della sua casa.
La Turche era una vedova molto vecchia e senza figli. Viveva nella casa più povera del paese, un tugurio più che una casa. Quando in paese si parlava di streghe, per farsene una idea di pensava sempre a lei. Non che avesse dato segni di particolari capacità di magia. Ma tutta vestita di nero, chiusa la testa in un grande fazzoletto nero dal quale usciva un viso rinsecchito con un naso adunco ed il mento prominente, era la vera immagine di una strega. “Nessuno si stupirebbe una notte a vederla volare a cavallo di una scopa” era diventata una battuta ricorrente in paese quando si parlava di lei. Anche quel soprannome che in qualche modo sembrava avere a che fare con la Turchia, aumentava l’alone di mistero attorno alla sua figura. E invece anche il nome non era suo, ma le derivava dal marito che bestemmiava come un turco e per questo alla fine era stato soprannominato il “turc” il turco, e lei di conseguenza era finita per diventare la “Turche”.
La sua stamberga era in centro al paese, ma lei non usciva quasi mai se non per andare a lavorare in un piccolo orto che le aveva lasciato il marito, e dal quale ricavava quel poco che le era necessario per sopravvivere. Era anche terribilmente sorda, ed anche questo difetto aveva finito per isolarla sempre più. Non aveva parenti, non aveva amici, conoscenti…era insomma sola. Sola e sorda, quella sera non aveva sentito la campana suonare l’allarme ed era quindi stata travolta dalla sua casa e dalla frana. O forse era ancora in vita sotto le macerie e quindi si sarebbe dovuto organizzare una squadra di soccorso. Ma sarebbe stato un suicidio entrare nella frana ancora in movimento e quindi prevalse il suggerimento del prete di pregare per lei perché potesse salvarsi.
Il lento movimento della frana continuò per alcuni giorni e gli abitanti di Cazzaso avevano trovato una provvisoria ospitalità nelle case di Fusea. Quando alla fine tornò il bel tempo e ci si rese conto che la frana si era finalmente assestata, prima di vedere cosa era rimasto delle loro case si cercò tra la macerie della sua casa la Turche. Era morta e non restò che farne il funerale. La stampa del tempo quando parla della frana parla d’un morto, senza farne il nome. Era la Turche che anche senza nome divenne importante, perché un evento naturale come una frana o un terremoto senza neppure un morto, sembra qualcosa di poco rilievo. Il morto dà invece importanza all’evento. E infatti ci furono degli interventi pubblici per aiutare gli abitanti di Cazzaso a costruirsi una casa ai bordi della frana in Salaries, dove c’era già un casolare. Nacque così Cazzaso nuova.
Ma vuoi perché gli abitanti di Cazzaso ora come allora sono testardi, vuoi perché il nuovo paese era disagevole perché costruito su un pendio troppo ripido, vuoi perché si resta sempre legati al luogo in cui si è nati, dopo alcuni anni quando la frana si era definitivamente assestata, si decise di ricostruire il paese dove era e come era. Come abbiano fatto a mettersi d’accordo sui confini in un terreno che era stato stravolto dal movimento franoso, è un mistero. Ma in qualche modo si trovò l’accordo, si definì una strada centrale che attraversava la frana collegando due piazze, quella della fontana e quella di Ciaveç. Le macerie della casa della Turche restavano ai bordi della strada verso sud. Erano state il patibolo e la tomba della vecchia, nessuno avrebbe avuto il coraggio di toccarle e di costruirvi sopra qualcosa. Ma quando il paese era già tutto ricostruito e quasi non ci si ricordava più del terremoto, venne una signora dal Friuli in sposa ad un Piutti, e chiese di poter costruire la casa su quelle macerie. La Turche non aveva lasciato eredi, e nessuno del paese si oppose, anzi erano tutti felici che qualcuno avesse il coraggio di ripulire gli ultimi resti della frana. La Furlane così venne subito soprannominata la nuova arrivata, con l’aiuto seppur riluttante del marito, pose mano alla costruzione. Utilizzò in parte le pietre del tugurio preesistente, ma realizzò una casa ben più grande della precedente, ben più moderna e confortevole. Il marito che sapeva della storia della Turche e che pensava con gli altri paesani che su quei sassi ci fosse una qualche maledizione, l’aveva sconsigliata. Ma le donne friulane sanno farsi ubbidire. Fu costretto a seguire la moglie… Ma quando, ed erano appena entrati ad abitare nella nuova casa, fu trovato una mattina stecchito nel letto, anche la Furlane cominciò a chiedersi se veramente era stata una buona idea quella di farsi la casa, nel luogo in cui si era verificata una morte violenta. Il marito le era morto accanto nel letto con gli occhi sbarrati come se nel sogno avesse avuto un grande spavento… E una notte ebbe infine la conferma…La sua amica che veniva da Gorizia (per questo aveva preso il nome di Gurizàne), che abitava in corrispondenza della sua casa, al di sopra della strada, la sentì urlare con quanto fiato aveva in gola: “Lasciami, non mi toccare!” La vide poi correre su, cercando aiuto in camicia da notte, come una indemoniata.
Le aprì la porta, l’accolse il casa, la fece accomodare. Accese il fuoco per farle bollire un infuso di camomilla e intanto le chiedeva di parlare. Ma la Furlane la guardava spaventata, senza riuscire a dir parola, come se un grande spavento l’avesse resa muta. Fu solo al mattino quando sentì il suono della campana dell’Ave Maria che parve svegliarsi, come se quel suono fosse quello di una sveglia.
“Se sapessi cosa m’è capitato stanotte!...”
“Sono ore che ti chiedo di raccontare”, ribattè la Gurizane .
La guardò sorpresa come se prima non si fosse resa conto neppure d’essere nella casa dell’amica, e prese a raccontare…
“Mi sono svegliata d’un tratto, ma non ero nella mia camera…”
“Sarà stato un sogno, un brutto incubo!”
No. Era sicura d’essere sveglia ed al posto della sua bella casa c’era un tugurio, con l’impiantito di terra ed un focolare al centro costituito da tre pietre poste su tre lati. Era acceso il fuoco che riscaldava una piccola pentola appesa ad un filo di ferro che scendeva dal soffitto. Accanto al focolare era seduta una vecchia tutta vestita di nero, con un piccolo viso rinsecchito dagli anni. Stava facendo abbrustolire dell’orzo con l’attrezzo apposito. Teneva in mano una lunga asta di ferro che aveva all’estremità opposta una sorta di palla di ferro, nella quale c’era l’orzo. Girava lentamente l’attrezzo perché l’orzo si cuocesse senza bruciarsi.
“Se aspetti un po’, le disse ad un certo punto, “ci facciamo un caffè” come se sapesse della sua presenza e considerasse normale la cosa.
“Chi sei? Dove sono?” aveva chiesto lei.
“Sono la padrona di casa”, le aveva risposto la vecchia. “Sei a casa mia” aveva aggiunto commentando la frase con una risata sinistra.
“Voglio tornare a casa mia!” aveva ribattuto lei.
“Ma sei a casa tua!” rise la vecchia sarcastica. Brutta era brutta. Ma quando rideva era orribile. Sopra il mento prominente le si apriva la fessura della bocca con qualche raro dente. Era ciò che aveva sempre pensato potesse essere una strega!
“Ma come a casa mia?” chiese la Furlane.
“Hai pur voluto costruire la casa sulla mia! Ora quindi ciò che tuo è mio ciò che è mio è tuo. Tuo marito me lo sono già preso, ed ora sono venuta a prendere te. Ma non c’è fretta! Prima possiamo farci un caffè. Preparo l’orzo per la prossima volta ma il caffè è già nel pentolino e subito bolle. Manca poco ormai…”
Capì allora in un attimo che aveva ragione il marito, quando insisteva che non avrebbero dovuto fare la casa in un luogo maledetto. “Son tutte frottole” aveva sempre detto lei. Ora si rendeva conto che purtroppo non erano frottole. Aveva allora preso ad arretrare verso la porta per cercare di scappare, ma la vecchia aveva lasciato l’attrezzo dell’orzo e le stava venendo incontro, alzando le mani per prenderla. “Lasciamo! Non mi toccare” aveva allora lei gridato, e in un gesto istintivo di difesa raccolto le mani al petto. E in quel gesto come per caso s’era trovato tra le mani la medaglia della Madonna del Rosario. Il contatto della sua mano con la medaglia aveva fatto il miracolo: era scomparsa la vecchia, era scomparso il tugurio e lei era di nuovo nel suo letto.
“Vedi appunto che è stato un sogno!” commentò la Gurizane.
“Ti dico di no!” insistette la Furlane. “Sono abituata a sognare! Ma quello di stanotte non era un sogno. La Gurizane restava convinta che si trattasse d’un sogno, ma anche per calmare l’amica le consigliò di ripetere il racconto al prete, e l’accompagnò in canonica.
Immaginava che anche il prete la convincesse che s’era trattato d’un sogno ed invece, il vecchio sacerdote le credette subito, quasi se l’aspettasse la ricomparsa dell’anima della Turche.
“Ma cosa posso fare?” gli chiese la Furlane.
“Oggi diremo una Messa di suffragio per l’anima, e stasera all’Ave Maria verrò a casa tua a dare una benedizione. La notizia della ricomparsa della Turche si diffuse in un momento da porta a porta in tutto il piccolo paese e tutti si precipitarono in Chiesa per la messa di suffragio. Tutti infatti si sentivano un po’ in colpa per non essersi ricordati della Turche che essendo sorda non aveva potuto sentire la campana quando aveva suonato l’allarme per la frana. Alla sera poi, la curiosità vinse sulla paura, e tutto il paese era attorno alla casa della Furlane a seguire quello che avevano già definito come uno scongiuro.
Il prete era arrivato all’imbrunire, aveva indossato la stola viola, s’era preso accanto la Furlane che teneva il secchiello dell’acqua santa come se fosse un chierichetto. Si teneva pronto con in mano il libro di preghiere dei morti con un dito infilato tra le pagine a mo di segnalibro. Al primo rintocco della campana per l’Ave Maria, aprì il libro e prese a recitare il De Profundis. Aveva appena finito il primo versetto che la casa da Furlane prese a tremare. Tutti i presenti pensarono al terremoto. In effetti era come se fosse partito veramente un terremoto, ma interessava solo quella casa. Per il prete e per la Furlane invece la casa si era trasformata nel tugurio della Turche, e lei era di nuovo là come la sera prima, che faceva bollire il caffè mentre tostava dell’altro orzo.
“Perché sei tornata?” le chiese il prete.
Lei scoppio in una risata. “Non sai che è casa mia?” aggiunse poi.
“La tua casa è nel regno dei morti!”
“Non c’è pace per me nel regno dei morti.”
“Perché?”
Alla domanda del prete, come la sera prima lei lasciò lo strumento per tostare l’orzo e fece per avventarsi contro di loro due. Il prete fu lesto a tirarle addosso con l’aspersorio dell’acqua santa. Lei si fermò come sorpresa, e lui allora la benedì facendo con l’acqua il segno della croce e recitando per quattro volte il requiescat in pace. Appena toccata dall’acqua santa, lei si sciolse come un refolo di nebbia al raggio del sole, e con lei si sciolse l’immagine della sua casa.
Lo scongiuro per la Turche è stato poi raccontato così sia dal prete che dalla Furlane. Gli altri infatti non avevano visto e capito niente. Avevano sentito le parole del prete, ma non quelle dell’anima della Turche. Soltanto alla fine, quando il prete aveva dato la benedizione ed anche tutti loro si erano fatti il segno della croce, avevano visto uscire dalla porta della casa da Furlane un uccello spaventato. Per la velocità con la quale era uscito e perché era già quasi notte nessuno capì di che tipo d’uccello si trattasse.
Quando gli ultimi tocchi del suono della campana si dispersero nelle prime ombre della notte. Dal grande noce cresciuto nel prato sottostante la casa della Furlane, uscì il lugubre canto della civetta. Tutti pensarono allora che fosse una civetta l’uccello uscito dalla casa, che fosse la Turche, costretta dallo scongiuro ad abbandonare la casa, ma non ancora disposta ad abbandonare il paese.
Sono passati dei secoli, ma sul grande noce, di notte, si posa ancora a volte una civetta e nel suo lugubre lamento continua a ricordare la storia della frana e della Turche.

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