Racconti che di solito traggono spunto da qualche leggenda della Carnia. Lo spunto,liberamente sviluppato, dà origine a sua volta a nuove leggende...
sabato 8 gennaio 2011
Da Menocchio a Romedio.
Da come sono ricostruite le vicende per le quali è finito al rogo Domenico Scardella detto Menocchio, mugnaio a Montereale Valcellina nel 1500, si ricaverebbe l’impressione che il suo sia stato un caso isolato. In quegli anni in Friuli imperversava il Tribunale dell’Inquisizione e non passava giorno che in un paese e nell’altro non ci fosse chi finiva al rogo. Ma si trattava di solito di streghe. Menocchio invece era stato arrestato nel 1584 e bruciato qualche anno dopo proprio come eretico. Sosteneva che “questo che fu crocifisso era uno dei figlioli de Dio, perché tutti semo fioli de Dio, homo come noi ma di maggior dignità”. E non rinunciò a professare questa sua fede, anche a costo di lasciarci la pelle. Che ad un mugnaio mentre vedeva girare le ruote del suo mulino mosse dall’acqua sia venuta l’idea che “tutti semo fioli de Dio”, mi era sempre parso poco credibile. Ci doveva essere per forza una corrente di pensiero che era arrivata fino alle pale del suo mulino, con questa teoria teologica così originale che si collegava a quell’altra, non meno originale che al principio “ tutto era caos e quel volume feze una massa come si fa il formazo nel latte et in quel deventorno vermi et quelli furono anzeli et tra quel numero di angeli vi era ancho Dio, creato anchora lui”. Erano gli anni della riforma protestante. Molti friulani frequentavano “le Germanie” come cramars, era logico si fosse diffuso anche in Friuli lo spirito della riforma. Anche a Tolmezzo in quegli anni era finito sotto processo tale Matteo Bruno che per salvarsi dal rogo abiurò mentre a Vinaio nel 1588 venne giustiziato Daniele Dionisio.
In questo contesto si colloca la leggenda dell’Eremita di Vuerpa, ed anche in questo caso la leggenda serve a capire ed a ricostruire meglio il momento storico. Anche in questo caso Romina, la vecchia che me l’ha raccontata, sosteneva che non di leggenda ma del racconto d’un fatto realmente accaduto e quindi di un fatto storico. Ma a me, come ho già detto altre volte, interessano gli elementi del racconto che aiutano a ricostruire il momento storico, non mi fa differenza sapere se i fatti sono realmente accaduti o se sono usciti dalla fantasia di qualcuno.
Comunque, al di la delle solite divagazioni, Romina era una vecchia che avevo incontrato a Vuerpa, borgata poco sopra il paese di Vinaio in Comune di Lauco. C’ero arrivato per la tradizionale festa del pastor, organizzata ogni anno a settembre per celebrare il ritorno del bestiame dall’alpeggio e più che dalla festa ero rimasto incuriosito proprio da quelle quattro case adagiate su un pianoro alle falde del monte, con davanti un panorama eccezionale.
Non c’era nessuno nel piccolo borgo. Erano tutti alla festa. Almeno così m’era parso, ma poi avvicinandomi alle case sono stato attratto da una vecchia che sedeva su una panca accanto all’ingresso d’una vecchia casa. Immobile come se fosse stata una statua. Fissava in silenzio il panorama, con l’attenzione di chi guarda per la prima volta una scena, mentre non c’era scena che le potesse risultare più familiare, dal momento che non c’erano dubbi che quella fosse la sua casa.
Avvicinandomi, un po’ guardavo a lei un po’ seguendo il suo sguardo guardavo al panorama che lei stava fissando. S’apriva davanti la conca tolmezzina che si perdeva a mezzogiorno in una serie infinita di valli e di quinte di montagne. Lei continuava a guardare immobile come se non si fosse accorta del mio avvicinarmi, ma quando le fui accanto, quasi fosse un saluto o una riflessione ad alta voce, senza fare un cenno di movimento verso di me disse
Mi stupiva il suo comportamento, ma mi stupì ancor di più il fatto che le parole con le quali mi accolse erano le stesse che avevo nella mente mentre guardavo quel panorama. Come se avesse potuto leggermi nel mio pensiero.
“E mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni!” disse tra sé e sé ma a voce alta in modo che sentissi. Pensai ad uno strano modo di salutare, colpito dal fatto che anche a me, mentre guardavo al confondersi dell’orizzonte lontano con l’azzurro del cielo, erano venute in mente i versi dell’Infinito di Leopardi: “Tra queste immensità s’annega il pensier mio, e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Da lassù le valli della Carnia, coperte ancora da un trine leggero di nebbia che s’andava dissipando al sole del mattino, parevano appena uscite dall’Oceano primordiale. E le montagne torno a torno erano fate appena uscite dall’acqua, adagiate ad asciugarsi all’ultimo sole di settembre.
Lei invece, la vecchia pareva uscita da una stampa antica. Volata a caso fin davanti a quella casa, come una immagine ritagliata da un vecchio libro ed incollata su uno fotografia. Tra le profonde rughe che segnavano il viso, si riusciva a leggere e distinguere bene la bellezza d’un tempo, i lineamenti delicati le fattezze armoniose. Gli occhi ormai infossati quasi si stessero ritirando nelle cavità del cranio, avevano ancora la luce e la vivacità degli occhi d’una giovane ragazza esuberante e sbarazzina. Ma ciò che più colpiva erano i capelli. Malgrado l’età non erano bianchi: il biondo d’un tempo s’era appena scolorito in un grigio con sfumature dorate. Ed erano attorcigliati in lunghi boccoli, come usano certi popoli primitiva dell’Australia. Ma non bastava! I boccoli erano raccolti in una crocchia dietro dalla nuca, dalla quale poi si dipartivano nuovamente a raggiera a formare una sorta d’aureola. Se mi avesse detto che era una fata o una strega non avrei potuto non crederle. Era più difficile pensare che fosse una donna nata e vissuta tra quelle quattro case sulla montagna. Invece era proprio, così a dimostrare che anche a Vuerpa di Lauco la realtà può superare l’immaginazione.
“Che cosa cerca da queste parti?” mi chiese quando le fui davanti.
“Nulla di particolare,” le risposi. “Sono qui per la festa, e m’è venuta l’idea di esaminare meglio la borgata per capire come si possa vivere tra quattro case in cima ad una montagna”.
“Si vive, si vive!” replicò, “come in qualsiasi altra parte. Un giorno dopo l’altro, sospinti dal tempo fino ad incontrare la morte” Poi notando il mio stupore alla sua risposta aggiunse: “Non so perché ma pensavo che fosse uno che si interessa di leggende”.
Sorpreso per la sua risposta filosofica, al sentire l’aggiunta restai basito. Mi aveva letto nel pensiero sull’Infinito di Leopardi, ed ora s’immaginava il vero motivo del mio interesse a quelle case anche se non le avevo fatto neppure il minimo accenno…In effetti mi ero inoltrato nella borgata proprio pensando che, isolati come erano vissuti, quando fin lassù non arrivavano che sentieri, certamente avevano prodotto nei secoli qualche favola particolare legata al particolare ambiente di montagna.
“Non so come ha fatto ad immaginarlo,” le dissi. “Ma è vero sto cercando di raccogliere delle leggende, prima che se ne perda la memoria. Fino alla vostra generazione c’è stata una trasmissione continua da generazione in generazione. Oggi anche quassù è arrivata la strada asfaltata. Come l’asfalto ha coperto i sassi della carrareccia, così il progresso sta cancellando ogni memoria del passato.”
“Se è vero!” commentò lei. “E’ arrivato nel posto giusto,” aggiunse poi, “perché qui è la casa stessa ad essere una storia che pare una leggenda”.
Senza aggiungere altro, si alzò tutta arzilla e mi aprì la porta invitandomi a seguirla. Era una tipica casa carnica del primo novecento. Sull’atrio, dal pavimento lastricato a grandi pietre irregolari, davano due stanze una a destra ed una a sinistra e davanti partivano le scale in legno per il piano superiore. A fianco s’apriva la porta che dava alla dispensa. La aprì e mi fece scendere per alcuni gradini. Tutto normale ci trovavamo nella cantina. Ma era la cantina ad essere fuori dal normale. Non si trattava d’una vera cantina in muratura ma d’una grotta.
“E’ in questa grotta che inizia la storia della casa…” prese a raccontarmi Romina.
Mi spiegò che si trattava d’una grotta naturale che il caso dell’evoluzione geologica aveva voluto si formasse su quella montagna. Forse era stata abitata anche in epoca preistorica, ma questa poteva essere solo una supposizione. Era certo invece che era stata abitata nel 600 da un originale eremita eretico di nome Romedio. Negli anni successivi si era sviluppato una sorta di culto popolare che aveva fatto del frate un santo, capace di grandi miracoli, per cui sulla grotta era stata costruita una chiesetta. Poi il santo aveva perso l’abitudine di fare i miracoli e così era venuta meno la devozione nei suoi confronti, la chiesetta era stata abbandonata e finita in macerie.
“Con i sassi della Chiesa mio nonno a iniziato a costruire questa casa, inglobando la grotta come cantina”. Era emigrato come molti altri carnici a fare il muratore in Baviera ed era tornato, come tanti altri soprattutto in Val Pesarina, tutto preso dalle idee del socialismo anarchico, convinto che la religione fosse “l’oppio del popolo”. Si gloriò per tutta la vita d’aver trasformato le fondamenta d’una chiesa nelle fondamenta della sua casa, finchè non fu trovato impiccato, senza nessuna ragione plausibile, ad una trave della soffitta della casa…
“La maledizione del capostipite in qualche modo è scesa fino a me, che sono l’ultima erede senza figli. Con me si estinguerà la discendenza. Nessuno vorrà abitare in una casa maledetta, e in breve ci sarà solo un cumulo di macerie a coprire l’ingresso di questa grotta. Non si saprà neppure che esista e si perderà la storia legata ad essa, la storia dell’eremita Romedio”.
Non trovai parole per commentare espressioni così prive di speranza ed in silenzio la seguii di nuovo sull’aia, per sedermi accanto a lei sulla panca di legno a guardare la fuga delle montagne giù nelle valli ed a sentire il racconto della vita di Romedio l’eremita di Vuerpa.
Durante il Seicento molti furono accusati di eresia o stregoneria e bruciati al rogo. Chi si voleva liberare di un nemico non doveva far altro che inventarsi un accusa, e il Tribunale dell’Inquisizione provvedeva al resto. Ma anche se tutti in Carnia sapevano che Romedio era un eretico, nessuno s’arrischiò a denunciarlo. Come si sapeva che era eretico, così si sapeva che aveva dei poteri straordinari, che aveva compiuto miracoli eccezionali.
Tutti si chiedevano da dove gli potessero venire questi poteri. Dal momento che non credeva in Dio, non potevano che derivargli dal Demonio, e nessuno s’arrischiava a mettersi contro un figlio del demonio, neppure il prete di Vinaio che pure aveva avuto modo di confrontarsi con lui in uno scontro verbale nell’osteria del paese, avendo la conferma che fosse eretico. “E della peggiore specie!” Forse per paura, per non mettersi contro il Diavolo, forse per stima per una persona che sapeva sviluppare dei ragionamenti molto profondi, forse soltanto perché affascinati dal suo modo di parlare, erano comunque in molti quelli che ogni giorno da Vinaio e da tutta la Carnia salivano a far visita all’eremita. Fra di loro si era formata una sorta di setta segreta, la setta degli amici di Romedio e non c’era pericolo che si tradissero denunciandosi a vicenda all’Inquisizione. L’unica eccezione era stata quella di Daniele Dionisio di cui ho già ricordato la brutta fine. Era anche lui uno dei più assidui frequentatori dell’eremita. Ma a denunciarlo per altri motivi erano state altre persone del paese. Non uno dei devoti di Romedio.
L’eremita quando sentiva che si erano raccolte alcune persone all’imboccatura della grotta, usciva e sullo spiazzo che sarebbe poi diventata l’aia della casa, e quindi nel luogo ove mi trovavo assieme a Romina, teneva dei discorsi, un po’ come si legge faceva qualche secolo prima S.Francesco. “Discorsi i cui contenuti sono giunti fino a me, di generazione in generazione”, soggiungeva la mia interlocutrice, “e che finiranno con me, non avendo io discendenti a cui trasmetterli. Con questo preambolo, quasi volesse coinvolgermi nel compito di tramandare il pensiero di Romedio, mi fece il riassunto d’una serie di ragionamenti e di riflessioni, che in qualche parte mi ricordavano quelli di Menocchio. Per questo dicevo in premessa che probabilmente in quegli anni sulle montagne friulane s’era sviluppata una originale forma di religione, come via di mezzo tra quella cattolica e quella protestante, una sorta di teologia della liberazione.
Romedio metteva in discussione la Bibbia per tanti aspetti a partire dalla prima riga. Non è vero diceva che “ in principio Dio creò il cielo e la terra”, all’inizio c’era il caos, la materia informe, eterna ma inconsapevole della propria esistenza. Poi ci fu la luce, nel senso che la materia prese coscienza della propria esistenza. La luce era Dio, era nel mondo e per mezzo suo si fece il mondo, imponendo un ordine alla materia. La materia è il principio del male, ossia il demonio da cui nasce la schiera dei diavoli, la coscienza dell’esistere è il principio del bene da cui si sviluppa la schiera degli angeli. La storia dell’umanità è la guerra dei due principi, fatta di tante storie di individui in ognuno dei quali si scontra un angelo ed un demonio.
Una cosmogonia evidentemente molto vicina a quella di Menocchio. La contestazione sulla Bibbia si trasferiva poi ai vangeli. Le evidenti contraddizione anche tra i quattro vangeli canonici, dimostrano che non possono essere presi come verità di fede sosteneva, ripetendo Menocchio che diceva agli inquisitori “circa le cose delli evangeli credo che parte siano veri et parte li evangelisti abbiano messo de suo cervello, come si vede nelli “passi” che uno dice a un modo et uno dice a un altro”.
Ma l’elemento che più avvicinava la teologia di Romedio a quella di Menocchio, era la convinzione che ribadiva in ogni suo discorso che l’uomo è figlio di Dio, che ognuno di noi è figlio di Dio.
Su questi concetti sviluppava poi una sua particolare teoria religiosa che in qualche modo tentava di mediare tra i concetti del libero arbitrio e del servo arbitrio, dando una sua particolare soluzione al problema della predestinazione.
Se lo spirito di Dio è la coscienza di esistere dell’Universo e nel corpo di ogni uomo vive lo spirito che è la sua coscienza di esistere, è evidente che cosa si voglia intendere definendo l’uomo come figlio di Dio, come è evidente che in questa definizione è implicito il concetto della sua immortalità. Il corpo nasce dalla materia e soggiace alle leggi della materia, lo spirito viene dallo Spirito universale e torna allo spirito avendo maturato con il corpo l’esperienza di individuo. C’è un atomo della coscienza universale che si incarna in un uomo e diventa coscienza individuale, per tornare per sempre alla coscienza universale mantenendo la sua individualità.
Nel periodo della convivenza, gli anni della vita dell’uomo, la sua esperienza di vita è quella del conflitto tra il demone della materia e l’angelo dello spirito. L’uomo è come un campo di battaglia nel quale si combatte un conflitto che non dipende da lui se non in minima parte. Il suo demone e il suo angelo cioè i caratteri positivi e negativi che gli vengono dalla natura si combattono generando una serie di circostanze che condizionano la sua vita. Ma come in un gioco virtuale, l’uomo può partecipare modificando le condizioni del campo di battaglia, che possono influire sull’esito della battaglia. La vita è quindi una battaglia a tre tra un demone un angelo ed un uomo, come diceva anche Menocchio, “tra un corpo un’anima ed uno spirito”.
Per capire l’umanità si deve immaginare che l’atmosfera sia carica di semi e ne lasci cadere alcuni che vivono le regole della natura sulla terra riproducendosi per poi diventare di nuovo semi capace di librarsi nuovamente e per sempre nell’aria. Le leggi della terra non sono imposte dall’atmosfera, il seme è libero di trasformarsi, dipende da lui il processo di trasformazione e quindi il risultato con le caratteristiche che avrà il seme tornando a vivere nell’aria.
Romina avrebbe continuato all’infinito a parlarmi delle teorie di Romedio l’Eremita, ma mi stavano aspettando gli amici che avevo lasciato alla festa del Pastor. Con questa scusa, l’ho salutata promettendole che sarei tornato a trovarla con più tempo e più calma. Non ci sono più tornato. Ho infatti ripensato più volte a ciò che mi aveva detto e non ho saputo darmi una risposta. Si trattava di fantasie di un matto? O c’era un senso, se Menocchio per queste teorie s’era lasciato morire sul rogo, pur di non rinunciare all’idea di essere figlio di Dio?...
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