martedì 10 novembre 2015

San Martino in Carnia,

San Martino in Carnia.(da un’idea di Giulio Astori)
            Come si legge nella sua biografia, San Martino di Tours è nato nel 316 a Szombathely (al tempo Sabaria Sicca), la prima cittadina che si incontra arrivando in Ungheria dall’Italia, subito dopo il confine con l’Austria. Suo padre era tribuno militare della legione che presidiava quella che allora era diventata la capitale della Pannonia superiore. Un avamposto rispetto alle colonie di Aquilieia e Julium Carnicum, ma, sulla via dell’ambra, il centro era subito cresciuto ed era diventato una città importante, con tanto di sede imperiale, terme ed anfiteatro.
            Quando il padre di Martino andò in pensione, come tutti i veterani dell’esercito romano, secondo le usanze, ottenne l’assegnazione di un podere a Pavia. Vi  si trasferì con la famiglia quando il figlio, che  aveva voluto chiamare Martino, in onore del Dio Marte, aveva solo dieci anni. A dispetto del nome che il padre gli aveva dato nella speranza di vederlo diventare almeno comandante di legione, il ragazzo, più che per la guerra, si sentiva portato per la preghiera e la meditazione. A Pavia una volta scomparve di casa per alcuni giorni. Il padre lo cercò disperato e lo trovò in una chiesa, tutto assorto nelle sue riflessioni sul senso della vita. Aveva così ripetuto  le gesta di Gesù che, facendo disperare Giuseppe e Maria,  s’era perso a discutere con i dottori del Tempio di Gerusalemme.
            Ma nel 331 un editto dell’Imperatore Costantino obbligò tutti i figli dei veterani ad arruolarsi nell’esercito romano. Suo malgrado, fu quindi reclutato nella “ Schola imperiali” un corpo scelto di militari perfettamente equipaggiati. Ognuno infatti disponeva d’un cavallo e d’uno schiavo.
            Nel 335 l’imperatore Costantino decise di trasferirsi in Ungheria per definire un trattato con i barbari Visigoti. Avrebbe concesso  loro di stanziarsi sulla riva sinistra del Danubio, ponendo il fiume come confine dell’Impero Romano. Riteneva così di farseli alleati.
            In questa spedizione senza pericoli, diplomatica e non militare,volle che lo accompagnassero i ragazzi della “Schola imperiali” appena arruolati, giovani  di appena quindici sedici anni. Non avendo fretta, prima di attraversare le Alpi si fermò per alcuni giorni nella colonia di Julium Carnicum ospite dell’amico Caio Bebio, che da poco aveva premiato con  l’incarico di governatore di quella colonia.
            I ragazzi della Schola erano accampati appena fuori le mura, nella località detta  Formeaso. In libera uscita si riversavano nella cittadina di Julium in coda per poter consumare nel lupanare. Martino no! Ogni sera si faceva a piedi la salita fino alla chiesa metropolitana dedicata a San Pietro dove officiava il vescovo Callisto. La Chiesa era circondata da due monasteri uno riservato alle monache e uno ai monaci. Si pregava molto e ancor più si discuteva di teologia sul mistero della Trinità, l’argomento più in voga al momento. C’erano infatti alcuni monaci che ancora esprimevano delle riserve sulla dottrina dell’homoousion ed erano vicini all’ eresia di Ario, malgrado già dieci anni prima nel 325 a Nicea, proprio per l’intervento dell’Imperatore Costantino,  fosse stato definito il dogma della consustanzialità sotto la forma del  simbolo niceno
            Martino non era però interessato a queste discussioni pensava che il cristianesimo dovesse richiamarsi agli insegnamenti di Cristo, al precetto che considerava come  vero dogma fondante della nuova religione, quello di amare gli altri come noi stessi, di vedere Cristo nel prossimo, soprattutto nei poveri. Si sentiva così più vicino a Elena, la madre dell’Imperatore, che, invece di filosofare, aveva preferito cercare in Palestina i segni dell’esistenza di Gesù e, sul Golgota, aveva trovato i resti della croce.
            Uscendo una sera dal convento della Chiesa di San Pietro  per rientrare all’accampamento in tempo per la tromba della ritirata, Martino aveva visto, proprio accanto alla porta, un povero affamato e intirizzito.
            “Perché non bussi e ti fai ospitare?” gli aveva chiesto.
            “Ho bussato, ma mi hanno detto che non hanno né tempo né posto per me,  occupati come sono a disquisire sul dogma della Trinità”
            “Ma prima di disquisire, Gesù ha insegnato ad amare!” protestò il giovane soldato romano. Volendo poi passare dalle parole ai fatti, gli era venuta l’idea di tagliare un pezzo del suo mantello per coprire il corpo del poveretto. Ma, in libera uscita, non aveva preso con se le armi. Non aveva una spada e neppure un pugnale per tagliare il mantello in due. Esitò un momento, poi preso da un impeto di carità, senza pensarci, né frapporre indugi si tolse il bianco mantello, la clamide bianca della guardia imperiate,  e coprì il poveretto perché non prendesse altro freddo.
            Senza pensarci. Ma ci dovette pensare rientrando all’accampamento. L’ufficiale di guardia gli chiese conto del mantello, e non potendo dire che l’aveva regalato si giustificò dicendo che gli era stato rubato. L’ufficiale stabilì che nella libera uscita del giorno dopo avrebbe dovuto recuperarlo, altrimenti gli sarebbe stato addebitato e avrebbe trascorso dieci giorni di punizione  in cella di rigore.
            Fu così che la sera dopo Martino risalì alla Chiesa di San Pietro alla ricerca del povero. Voleva scusarsi e chiedergli che gli restituisse il mantello. Ma durante il giorno c’erano stati degli sviluppi imprevisti. Il suo mantello era già molto lontano sull’altopiano centrale della Carnia.
            Glauco, il poveretto a cui l’aveva dato aveva una sorella avara e taccagna che aveva sposato un contadino di Sezza, ancora più gretto di lei. Quando la donna, che di solito neppure lo salutava,  vide addosso al fratello quel mantello bianco di pregevole fattura, volle sapere dove l’avesse rubato. Glauco invece spiegò come e dove l’aveva ricevuto in regalo. E proprio perché l’aveva avuto in dono si rifiutò di consegnarlo alla sorella che lo pretendeva con insistenza.
            Anzi, pensò fosse un suo dovere di gratitudine girare per i paesi a rendere testimonianza della generosità che caratterizzava i giovani soldati  romani, e partì subito per recarsi nei villaggi di Cazzaso e di Lauco, ancora abitati dai Celti, che avevano in odio i romani.
             Tania, così si chiamava la sorella, con il marito architettò allora uno stratagemma per ottenere il regalo del mantello. Si vestirono entrambi di stracci e si accucciarono ai lati della porta del convento di San Pietro, in attesa che uscisse il giovane soldato romano. L’avevano seguito e avevano notato che l’addetto al vettovagliamento gli aveva assegnato un nuovo mantello.
            Quando lo videro uscire sulla porta presero a lamentarsi del freddo.
            “Non riusciremo a sopravvivere al freddo di questa notte,” piagnucolava la donna.
            “A meno che non ci sia qualche buonanima che ci offre il suo mantello,” aggiunse il marito.
            A quella battuta, il giovane Martino, un ragazzo molto perspicace, intuì che i due sapevano qualcosa del suo mantello, e che lo volevano raggirare.
            Ad ogni buon conto, quella sera era uscito armato. Sfoderò quindi la spada e la puntò con decisione contro il petto della donna. “Che ne è del mantello che ho donato ieri sera al povero del quale voi avete occupato il posto, qui sulla porta del monastero?”
            “Non sappiamo niente, di poveri e di mantelli,” si provò a dire la donna, ma quando sentì contro la sua carne la punta della spada che Martino spingeva per far capire che non aveva intenzione di scherzare, biascicò: “Il povero, di ieri sera è mio fratello, ma adesso chissà dove è, in giro per i paesi a portare il racconto della tua generosità.”
            Preso atto che non avrebbe potuto recuperare il mantello Martino ebbe la brillante idea di risolvere a suo vantaggio  lo stratagemma che i due avevano pensato per approfittare della sua generosità. Li costrinse a incamminarsi davanti a lui, pungolandoli con la punta della spada, e li portò all’accampamento, denunciandoli come le persone che gli avevano rubato il mantello.
            Era una bugia! Ma a volte anche le bugie servono a far valere la giustizia. Sulla parola di Martino, i due furono condannati per furto a passare sei mesi nelle carceri di Julium Carnicum. Espiarono così la giusta pena per l’intenzione che avevano avuto di farsi passare per indigenti per ottenere il suo mantello. L’intenzione di rubare, è una colpa quanto il furto in sé.
            Avendo così trovato i presunti  ladri del suo mantello Martino non  fu punito, e gli fu lasciato in dotazione il nuovo mantello. Probabilmente lo stesso  che poi riuscirà a dividere in due con la spada e che lo renderà famoso nei secoli a venire. Come si sa, in seguito  Martino, ricevendo il battesimo,  è diventato ufficialmente cristiano. Ha fatto il monaco in Francia ed è stato poi acclamato vescovo di Tours. Anticipando il modo di fare i papa Francesco, anche lui non è andato ad abitare  nell’edificio del Vescovado, ma ha fatto il vescovo, restando a vivere nella sua cella di monaco.
            Ma, per quanto voglia far vita riservata e nascosta, un Vescovo è sempre un vescovo, e trova sempre qualche scrittore, più o meno importante, pronto a raccontare le sue gesta. E’ diventato così famoso  il suo gesto, carico di pathos,  d’aver tagliato il proprio mantello, senza neppure scendere da cavallo, per coprire un poveretto che, tutto infreddolito, gli chiedeva la carità.   Prima d’ora  non aveva trovato ancora nessuno che raccontasse di quando aveva  anticipato il gesto, sulle alpi carniche, quando era soltanto un soldato semplice.
             Seppure in ritardo, sono soddisfatto d’aver potuto metterci  una toppa! Giusto in tempo per celebrare il prossimo anno con questa novità il 1700° anniversario della nascita del santo Martino nella vicina Szombathely.

Tolmezzo, 11 novembre 2015. Omaggio a San Martino. 

1 commento:

Kinsy ha detto...

Ho sempre amato le leggende, quindi grazie per questo racconto.