martedì 10 novembre 2015

San Martino in Carnia,

San Martino in Carnia.(da un’idea di Giulio Astori)
            Come si legge nella sua biografia, San Martino di Tours è nato nel 316 a Szombathely (al tempo Sabaria Sicca), la prima cittadina che si incontra arrivando in Ungheria dall’Italia, subito dopo il confine con l’Austria. Suo padre era tribuno militare della legione che presidiava quella che allora era diventata la capitale della Pannonia superiore. Un avamposto rispetto alle colonie di Aquilieia e Julium Carnicum, ma, sulla via dell’ambra, il centro era subito cresciuto ed era diventato una città importante, con tanto di sede imperiale, terme ed anfiteatro.
            Quando il padre di Martino andò in pensione, come tutti i veterani dell’esercito romano, secondo le usanze, ottenne l’assegnazione di un podere a Pavia. Vi  si trasferì con la famiglia quando il figlio, che  aveva voluto chiamare Martino, in onore del Dio Marte, aveva solo dieci anni. A dispetto del nome che il padre gli aveva dato nella speranza di vederlo diventare almeno comandante di legione, il ragazzo, più che per la guerra, si sentiva portato per la preghiera e la meditazione. A Pavia una volta scomparve di casa per alcuni giorni. Il padre lo cercò disperato e lo trovò in una chiesa, tutto assorto nelle sue riflessioni sul senso della vita. Aveva così ripetuto  le gesta di Gesù che, facendo disperare Giuseppe e Maria,  s’era perso a discutere con i dottori del Tempio di Gerusalemme.
            Ma nel 331 un editto dell’Imperatore Costantino obbligò tutti i figli dei veterani ad arruolarsi nell’esercito romano. Suo malgrado, fu quindi reclutato nella “ Schola imperiali” un corpo scelto di militari perfettamente equipaggiati. Ognuno infatti disponeva d’un cavallo e d’uno schiavo.
            Nel 335 l’imperatore Costantino decise di trasferirsi in Ungheria per definire un trattato con i barbari Visigoti. Avrebbe concesso  loro di stanziarsi sulla riva sinistra del Danubio, ponendo il fiume come confine dell’Impero Romano. Riteneva così di farseli alleati.
            In questa spedizione senza pericoli, diplomatica e non militare,volle che lo accompagnassero i ragazzi della “Schola imperiali” appena arruolati, giovani  di appena quindici sedici anni. Non avendo fretta, prima di attraversare le Alpi si fermò per alcuni giorni nella colonia di Julium Carnicum ospite dell’amico Caio Bebio, che da poco aveva premiato con  l’incarico di governatore di quella colonia.
            I ragazzi della Schola erano accampati appena fuori le mura, nella località detta  Formeaso. In libera uscita si riversavano nella cittadina di Julium in coda per poter consumare nel lupanare. Martino no! Ogni sera si faceva a piedi la salita fino alla chiesa metropolitana dedicata a San Pietro dove officiava il vescovo Callisto. La Chiesa era circondata da due monasteri uno riservato alle monache e uno ai monaci. Si pregava molto e ancor più si discuteva di teologia sul mistero della Trinità, l’argomento più in voga al momento. C’erano infatti alcuni monaci che ancora esprimevano delle riserve sulla dottrina dell’homoousion ed erano vicini all’ eresia di Ario, malgrado già dieci anni prima nel 325 a Nicea, proprio per l’intervento dell’Imperatore Costantino,  fosse stato definito il dogma della consustanzialità sotto la forma del  simbolo niceno
            Martino non era però interessato a queste discussioni pensava che il cristianesimo dovesse richiamarsi agli insegnamenti di Cristo, al precetto che considerava come  vero dogma fondante della nuova religione, quello di amare gli altri come noi stessi, di vedere Cristo nel prossimo, soprattutto nei poveri. Si sentiva così più vicino a Elena, la madre dell’Imperatore, che, invece di filosofare, aveva preferito cercare in Palestina i segni dell’esistenza di Gesù e, sul Golgota, aveva trovato i resti della croce.
            Uscendo una sera dal convento della Chiesa di San Pietro  per rientrare all’accampamento in tempo per la tromba della ritirata, Martino aveva visto, proprio accanto alla porta, un povero affamato e intirizzito.
            “Perché non bussi e ti fai ospitare?” gli aveva chiesto.
            “Ho bussato, ma mi hanno detto che non hanno né tempo né posto per me,  occupati come sono a disquisire sul dogma della Trinità”
            “Ma prima di disquisire, Gesù ha insegnato ad amare!” protestò il giovane soldato romano. Volendo poi passare dalle parole ai fatti, gli era venuta l’idea di tagliare un pezzo del suo mantello per coprire il corpo del poveretto. Ma, in libera uscita, non aveva preso con se le armi. Non aveva una spada e neppure un pugnale per tagliare il mantello in due. Esitò un momento, poi preso da un impeto di carità, senza pensarci, né frapporre indugi si tolse il bianco mantello, la clamide bianca della guardia imperiate,  e coprì il poveretto perché non prendesse altro freddo.
            Senza pensarci. Ma ci dovette pensare rientrando all’accampamento. L’ufficiale di guardia gli chiese conto del mantello, e non potendo dire che l’aveva regalato si giustificò dicendo che gli era stato rubato. L’ufficiale stabilì che nella libera uscita del giorno dopo avrebbe dovuto recuperarlo, altrimenti gli sarebbe stato addebitato e avrebbe trascorso dieci giorni di punizione  in cella di rigore.
            Fu così che la sera dopo Martino risalì alla Chiesa di San Pietro alla ricerca del povero. Voleva scusarsi e chiedergli che gli restituisse il mantello. Ma durante il giorno c’erano stati degli sviluppi imprevisti. Il suo mantello era già molto lontano sull’altopiano centrale della Carnia.
            Glauco, il poveretto a cui l’aveva dato aveva una sorella avara e taccagna che aveva sposato un contadino di Sezza, ancora più gretto di lei. Quando la donna, che di solito neppure lo salutava,  vide addosso al fratello quel mantello bianco di pregevole fattura, volle sapere dove l’avesse rubato. Glauco invece spiegò come e dove l’aveva ricevuto in regalo. E proprio perché l’aveva avuto in dono si rifiutò di consegnarlo alla sorella che lo pretendeva con insistenza.
            Anzi, pensò fosse un suo dovere di gratitudine girare per i paesi a rendere testimonianza della generosità che caratterizzava i giovani soldati  romani, e partì subito per recarsi nei villaggi di Cazzaso e di Lauco, ancora abitati dai Celti, che avevano in odio i romani.
             Tania, così si chiamava la sorella, con il marito architettò allora uno stratagemma per ottenere il regalo del mantello. Si vestirono entrambi di stracci e si accucciarono ai lati della porta del convento di San Pietro, in attesa che uscisse il giovane soldato romano. L’avevano seguito e avevano notato che l’addetto al vettovagliamento gli aveva assegnato un nuovo mantello.
            Quando lo videro uscire sulla porta presero a lamentarsi del freddo.
            “Non riusciremo a sopravvivere al freddo di questa notte,” piagnucolava la donna.
            “A meno che non ci sia qualche buonanima che ci offre il suo mantello,” aggiunse il marito.
            A quella battuta, il giovane Martino, un ragazzo molto perspicace, intuì che i due sapevano qualcosa del suo mantello, e che lo volevano raggirare.
            Ad ogni buon conto, quella sera era uscito armato. Sfoderò quindi la spada e la puntò con decisione contro il petto della donna. “Che ne è del mantello che ho donato ieri sera al povero del quale voi avete occupato il posto, qui sulla porta del monastero?”
            “Non sappiamo niente, di poveri e di mantelli,” si provò a dire la donna, ma quando sentì contro la sua carne la punta della spada che Martino spingeva per far capire che non aveva intenzione di scherzare, biascicò: “Il povero, di ieri sera è mio fratello, ma adesso chissà dove è, in giro per i paesi a portare il racconto della tua generosità.”
            Preso atto che non avrebbe potuto recuperare il mantello Martino ebbe la brillante idea di risolvere a suo vantaggio  lo stratagemma che i due avevano pensato per approfittare della sua generosità. Li costrinse a incamminarsi davanti a lui, pungolandoli con la punta della spada, e li portò all’accampamento, denunciandoli come le persone che gli avevano rubato il mantello.
            Era una bugia! Ma a volte anche le bugie servono a far valere la giustizia. Sulla parola di Martino, i due furono condannati per furto a passare sei mesi nelle carceri di Julium Carnicum. Espiarono così la giusta pena per l’intenzione che avevano avuto di farsi passare per indigenti per ottenere il suo mantello. L’intenzione di rubare, è una colpa quanto il furto in sé.
            Avendo così trovato i presunti  ladri del suo mantello Martino non  fu punito, e gli fu lasciato in dotazione il nuovo mantello. Probabilmente lo stesso  che poi riuscirà a dividere in due con la spada e che lo renderà famoso nei secoli a venire. Come si sa, in seguito  Martino, ricevendo il battesimo,  è diventato ufficialmente cristiano. Ha fatto il monaco in Francia ed è stato poi acclamato vescovo di Tours. Anticipando il modo di fare i papa Francesco, anche lui non è andato ad abitare  nell’edificio del Vescovado, ma ha fatto il vescovo, restando a vivere nella sua cella di monaco.
            Ma, per quanto voglia far vita riservata e nascosta, un Vescovo è sempre un vescovo, e trova sempre qualche scrittore, più o meno importante, pronto a raccontare le sue gesta. E’ diventato così famoso  il suo gesto, carico di pathos,  d’aver tagliato il proprio mantello, senza neppure scendere da cavallo, per coprire un poveretto che, tutto infreddolito, gli chiedeva la carità.   Prima d’ora  non aveva trovato ancora nessuno che raccontasse di quando aveva  anticipato il gesto, sulle alpi carniche, quando era soltanto un soldato semplice.
             Seppure in ritardo, sono soddisfatto d’aver potuto metterci  una toppa! Giusto in tempo per celebrare il prossimo anno con questa novità il 1700° anniversario della nascita del santo Martino nella vicina Szombathely.

Tolmezzo, 11 novembre 2015. Omaggio a San Martino. 

lunedì 20 luglio 2015

La sorgente del Tof a Illegio.




A seguito di qualche scavo archeologico è emerso che, risalendo a ritroso nella storia, il paese di Illegio ha avuto una importanza ben maggiore di quella che ha oggi. Non era isolato come ora, ma attestato su un a via di comunicazione molto importante. Era la strada che salendo da Imponzo per Lovea entrava nella valle d’Incarojo e poi attraversava le alpi al passo di Lanza per scendere in Carinzia.
Una strada che è diventata molto importante nell’alto Medioevo, forse a seguito dell’abbandono di quella per il passo di Monte Croce Carnico, ma che deve aver avuto una sua importanza anche nel periodo romano, come alternativa alla salita non agevole al passo, come si può dedurre dalla leggenda che mi è arrivata nella mente attraverso nonna Giulia una anziana donna del paese. Per una donna di novanta anni potrebbe sembrare più appropriata l’aggettivo di vecchia, ma non fa certo al caso di nonna Giulia che ci tiene al titolo di bis bis nonna, ma ha i movimenti i comportamenti e soprattutto la lucidità mentale d’una sessantenne. L’ho incontrata venendo da Imponzo al termine di quella che dovrebbe diventare la prima tappa de “Il cammino delle Pievi della Carnia”. Nell’autunno incipiente ero rimasto colpito dai colori del bosco scendendo dallo sperone su cui s’adagia la Pieve di S.Floriano. Il bosco che era stato verde durante l’estate, trasformato in una tavolozza di colori con infinite sfumature che andavano dal rosso al giallo ocra e persino al bianco. Ma qua e là a sorpresa qualche cespuglio di verde resisteva ancora, a ricordare l’estate. E Giulia m’era parsa una di questi alberi ancora verdi a sfidare l’autunno. Verde come se il tempo non fosse passato, con la freschezza delle foglie che s’agitano al vento, ricordando le brezze della primavera.
Ed è proprio perché sono stato colpito dalla sua prodigiosa capacità di memoria e dalla prontezza nelle battute e nei ragionamenti mi sono convinto che la leggenda pur nella sua stranezza abbia un fondo di storicità. Ad essere sincero e per amore di verità, devo dire che non so bene neppure se l’ho sentita da lei o se mi si è formata nella mente come conseguenza della emozione e la suggestione che mi ha provocato il suo incontro.
Mi aveva colpito la prontezza e l’immediatezza con la quale mi aveva recitato a poi trascritto la preghiera a S.Floriano.
O Martiri di Dio discepoli fedeli, col sangue avete lavato la veste dell’amore, con Cristo dividete la speranza e il martirio, la croce e la vittoria del regno dei Beati. S.Floreano e san Florido, S.Pietro e San Paolo intercedete per Illegio, pregate e nutrite ogni cuore alla mensa della pace, aiutateci a sperare, insegnateci a fondare una famiglia unita dal segno della fede. A te la lode o Cristo, parola viva e vera che sveli nel martirio la forza di chi crede. Amen
Non avevo capito l’accostamento tra S.Florido patrono di San Marino con Floriano, ma non avevo voluto provocarla chiedendole la spiegazione, e la sera mi ero addormentato pensando a nonna Giulia ed alla stranezza di questo accostamento, tra i due santi per la sola similitudine del nome. Nel frattempo mi ero documentato scoprendo che in effetti era stato concesso alla Pieve di S.Floriano di custodire i resti di un martire cristiano sepolto a Roma nel cimitero di S.Priscilla, al quale per convenzione era stato attribuito il nome di Florido. Non so se è stato un sogno o l’effetto di questo incrocio di nomi e di santi o se nella mente è riemerso un ricordo legato alle parole di nonna Giulia, fatto sta (così diceva mio nonno) che alla mattina avevo chiara nella mente la scena della nonna che raccontava, e nella mente fin nei dettagli il suo racconto…
Correva l’anno trecento dopo Cristo. Così mi stava dicendo, e con un incipit così classico e così deciso, credo che non si possano avere dubbi sulla storicità del racconto…
L’imperatore Diocleziano aveva elaborato un progetto di riforma dell’Impero romano per metterlo in sicurezza, con una organizzazione capace di consentire all’Impero di resistere alla pressione delle continue invasioni barbariche. Con il sistema noto con il nome di tetrarchia aveva diviso l’impero in due parti, quella orientale con capitale Nicomedia e quella occidentale con capitale Milano, con a capo due imperatori chiamati Augusti. Le due parti erano poi a loro volta suddivise e affidate in parte a due Cesari, che avrebbero dovuto essere i loro successori. Vespasiano si tenne l’oriente è insediò come imperatore d’occidente Massimiano. L’impero fu poi organizzato in Diocesi rette da Vicari a loro volta suddivise in Province guidate da Prèsidi, e il fatto assunse una grande importanza anche per i nostri territori, per la prima volta infatti sulle alpi carniche si stabilizzo un confine: quello che divideva la Provincia della Venezia et Histria da quella della Pannonia inferiore, che era però anche confine tra i due Imperi perché confine tra la Diocesi Italiciana, facente parte dell’Impero d’occidente e la diocesi delle Pannonie, parte dell’Impero d’Oriente.
Fra i due Imperi c’erano evidentemente delle relazioni, come tra le Diocesi e le Province, fu così che un certo Floriano veterano dell’esercito romano che ricopriva la carica di princeps offici a Cetia (presso l’odierna Kirchdorf an der Krems in Austria), fu mandato come ambasciatore dal Preside della Provincia della Pannonia al suo collega della Venezia et Histria. Non si sa quale fosse l’importanza del messaggio e dove l’abbia recapitato. Neppure nella “Passio Floriani” cioè nella biografia del messaggero, poi diventato santo, scritta nell’ottavo secolo, si dice nulla al riguardo. Comunque al ritorno da quel viaggio, per qualche motivo che non è dato sapere Floriano con i suoi uomini invece di prendere la strada per monte Croce per valicare le Alpi, prese quella per Lanza e si fermò a dormire nel romitorio di Illegio.
Fu svegliato nella notte dai paesani che gridavano “al fuoco”. Non era raro a quei tempi che scoppiassero degli incendi. Le case erano dei poveri tuguri ad una stanza sola, con il fuoco libero al centro protetto solo da alcuni sassi. I tetti erano fatti di scandole e quindi erano facilmente incendiabili. Bastava una “falisçje”, una scintilla che saliva troppo in alto, e la casa finiva in un rogo. Ma da una casa poi il fuoco stava poco ad estendersi a quella vicina, ed una piccola scintilla bastava a provocare l’incendio di tutto un paese. Era già capitato altre volte anche ad Illegio, e sarebbe finita così anche quella sera se non fosse intervenuto Floriano…
Il veterano romano s’era da qualche tempo convertito alla religione cristiana, e viveva la nuova fede con una convinzione assoluta, come il Centurione romano di cui parla il Vangelo. Anche Floriano come il Centurione era convinto che, per chi ha fede, bastasse una parola per provocare un miracolo. Quando si trovò davanti alla scena dei paesani che correvano con le anfore e le brocche a versare acqua per spegnere l’incendio, si rese conto da comandante militare quale era, che non ce l’avrebbero fatta: era troppo lontana la sorgente da cui si attingeva l’acqua dal luogo dell’incendio.
“Signore, fai sgorgare dell’acqua più vicino al fuoco!” gridò.
E come se le sue parole fossero state un comando, d’un tratto sgorgò dell’acqua abbondante, a formare un piccolo invaso. Attingendo alla nuova sorgente, in breve l’incendio fu domato e il paese fu salvo.
I suoi soldati e gli abitanti di Illegio che avevano assistito al miracolo, spento l’incendio attorniarono Floriano chiedendogli come avesse fatto a compiere quel miracolo.
“Non c’è nulla di strano” rispose lui “per la nostra religione se uno ha fede quanto un granello di senape e dice ad una montagna “trasportati di qui sin là” essa si trasporterà, allo stesso modo è possibile che sgorghi dell’acqua da una montagna”.
Il ragionamento di Floriano non faceva una grinza, anche secondo nonna Giulia. Ma un racconto non è il genere letterario più adatto per aprire una discussione di questa importanza… Resta il fatto che ad Illegio si può ancora ammirare il Tof,una sorgente che sgorga improvvisa con una grande portata d’acqua al centro del paese e che ha fatto funzionare nella storia una serie di mulini e di officine e che ancora fa girare la macina dello storico mulino del Flec.
La storia di Floriano ci dice invece che rientrato in Pannonia durante l’ultima persecuzione dei cristiani voluta da Diocleziano, nella città di Lorch fu arrestato e condotto dal preside, il quale non riuscendo a farlo sacrificare agli dei, lo fece flagellare e quindi lo condannò ad essere gettato nel fiume Enns con una pietra al collo: la sentenza fu eseguita il 4 maggio 304. Il corpo fu, in seguito, ritrovato e seppellito da una certa Valeria e Floriano venne elevato agli onori degli altari come santo e martire.
Dal XV secolo ed ancora oggi viene invocato come protettore contro gli incendi perché, secondo una leggenda spense un incendio divampato in un edificio e secondo alcune varianti in una intera città, con un solo secchio d’acqua. La leggenda che m’è tornata nella mente dopo l’incontro con nonna Giulia è senza dubbio più credibile, e spiega anche la fede della nonna e di tutti gli abitanti di Illegio nel loro santo patrono.
Questo miracolo dell’antichità può spiegare anche come gli abitanti di Illegio mantengano ancora fede nelle capacità taumaturgiche di San Floriano, malgrado il fatto che nel 1700, il paese sia andato completamente distrutto dal fuoco proprio una sera nella quale tutti gli abitanti si trovavano a pregare nella chiesa dedicata al Santo nella pieve che porta il suo nome.

domenica 29 maggio 2011

Zoncolan

Zoncolan

Zoncolan è un nome entrato nel mito della storia del ciclismo. Ma era già nel mito dei Dobes il Piccolo Popolo che ha abitato la Carnia nella notte dei tempi. Zon Colan era infatti uno dei tre capi tribù e da lui viene il nome entrato nella storia del ciclismo.

Nella storia dei Dobes, come in quella dei Maya, c’è la profezia sulla fine del mondo al 21 dicembre 2012 , ma con un originale interpretazione dell’idea della fine del mondo.

La profezia e la storia del Piccolo Popolo sono state scoperte in una pergamena ritrovata casualmente sul monte Arvenis in Carnia da un mio amico, che poi ha provveduto alla traduzione ed alla trascrizione, e mi ha lasciato in eredità il manoscritto.

Io ho ritenuto di dover portare alla luce storia e profezia nel libro “I Dobes, la saga del Piccolo Popolo di Carnia”.

Il libro è acquistabile nelle Librerie Feltrinelli.

E’ possibile leggere l’anticipazione delle prime pagine (e anche acquistare il libro) all’indirizzo:

http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=590175

sabato 26 marzo 2011

La profezia dei Dobes sulla fine del mondo.

La profezia sulla fine del mondo al 21 dicembre 2012 si ritrova anche nella storia dei Dobes, il Popolo dei Piccoli Uomini che ha abitato la Carnia nella notte dei tempi, ma con un originale interpretazione dell’idea della fine del mondo.

La profezia e la storia del Piccolo Popolo sono state scoperte in una pergamena ritrovata casualmente sul monte Arvenis in Carnia da un mio amico, che poi ha provveduto alla traduzione ed alla trascrizione, e mi ha lasciato in eredità il manoscritto.

Io ho ritenuto di dover portare alla luce storia e profezia nel libro “I Dobes, la saga del Piccolo Popolo di Carnia”.

Il libro è acquistabile nelle Librerie Feltrinelli.

E’ possibile leggere l’anticipazione delle prime pagine (e anche acquistare il libro) all’indirizzo:

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Mandi.

Igino Piutti.

mercoledì 2 marzo 2011

L'orma del tempo.


Ho raccolto tutti i racconti pubblicati nel blog in un volume che si può leggere in anteprima o acquistare on line nella Libreria di Il Mio Libro. CLICCA QUI PER ENTRARE.
Prezzo di stampa 8,43
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Racconti
1a edizione 2/2011
Formato 15x23 - Copertina Morbida - bianco e nero
232 pagine
Il libro è anche acquistabile presso le Librerie Feltrinelli.

domenica 20 febbraio 2011

La saga del Piccolo Popolo di Carnia.

Forse l'amore per la mia terra m'ha preso la mano, e la fantasia mi ha condotto in uno strano percorso che ho intitolato"I Dobes, la saga del Piccolo Popolo di Carnia"...

Nella notte dei tempi, in un’epoca sospesa tra storia e preistoria, quando sulle Dolomiti s’era affermato il regno dei Fanes, qualcuno sostiene che le Alpi Carniche fossero abitate dal Piccolo Popolo dei Dobes. Per qualcuno sono estinti, per altri vivono ancora, invisibili nelle terre di Carnia, montagna senza confini tra cielo e terra, tra storia e fantasia, tra realtà e poesia…

Vivono ancora nel respiro dei boschi e nel mormorio dell’acqua, nel palpito delle albe e nel brivido dei tramonti. Parlano ancora nella ingenuità del sentire degli ultimo carnici…

La loro leggenda è stata ritrovata in una pergamena che, finalmente, viene portata alla luce nelle pagine di questo libro, acquistabile nelle librerie Feltrinelli e in internet nel sito di Il mio libro…

Il lettore che volesse avventurarsi nella lettura dovrà scusare la forma approssimativa, ma non ho la pazienza necessaria per tornare a rivedere e correggere la prima stesura fatta di getto al computer in vari momenti.

martedì 15 febbraio 2011

Il lago di Monte Cucco.


Il bèc d’àur (il caprone d’oro).

La valle del Chiarsò nella quale sorge il Comune di Paularo viene chiamata anche valle di Incaroio. Un nome anche questo probabilmente storpiato nella traduzione dal carnico. Il termine locale Cjaròi infatti, doveva semmai venir tradotto con Caroio. Ma la frase andare “in Cjaròi” per significare l’andare nella valle del Cjaroi, credo alla fine abbia dato luogo alla storpiatura per cui oggi ci troviamo a parlare della valle d’Incarojo invece che di quella del Caròio. Ma comunque la si voglia chiamare la valle di Paularo, l’etimo di Cjaròi nella parlata locale è chiaramente di derivazione celtica.
La conferma indiretta viene dal fatto che in nessuna valle della Carnia si sono trovate evidenti tracce della presenza dei Celti come in questa, in particolare con il ritrovamento del cimitero celtico di Misincinis. E’ quindi logico che nella tradizione orale di questa valle ci siano molti leggende che si richiamano erspressamente al periodo celitco. Fra queste la più famosa è senza dubbio quella del bèc d’àur (caprone d’oro) che si racconta a Valle e Rivalpo.
Anche di questa leggenda non c’è una versione unica, ci sono varianti diverse che concordano tuttavia su alcuni elementi. L’elemento comune è il fatto che gli altopiani di mezza montagna in destra del Chiarsò erano un tempo abitati dai Pagàns. E’ questo il nome con il quale i conquistatori romano-cristiani, chiamavano gli ultimi residui del clan celtici, che continuavano a vivere la loro cultura e la loro religione isolati sulle montagne. In molte zone della Carnia ci sono delle grotte denominate dei Pagàns o Salvàns, a ricordo degli ultimi gruppi di pagani o selvatici uomini dei boschi che vi hanno abitato. Solo nella valle del Cjaròi tuttavia, si raccontano delle leggende espressamente riferite a queste persone.
Si racconta dunque a Valle Rivalpo che sopra il paese, in località Chiaserualis c’era un villaggio, del quale si possono ancora vedere i resti, abitato dai Pagàns. Un villaggio analogo sorgeva nei pianori di Pornescis, sopra il paese di Cleulis al di là del rio di Valle. Quello di Cjaserualis era il villaggio celtico più importante della valle perchè oltre al solito villaggio con le case dai tetti di paglia, aveva un grande castello. Già questo fatto sarebbe stato sufficiente a distinguerlo dagli altri villaggi, ma il fatto straordinario era che il castello non era stato costruito da mani umane, e che non vi abitavano degli umani. Era stato portato lì da non si sa dove, da essere ultraterreni... Un po’ come si racconta per la casa di Nazareth portata dagli angeli a Loreto. Vi abitava un caprone d’oro, o rivestito d’oro. Qui i racconti si differenziano. Secondo quelli di Valle che sono più portati ad esagerare il Bèc era proprio interamente fatto di oro, secondo quelli di Rivalpo, più realisti il caprone era un vero animale, con il pelo fatto di fili di oro. Che tra le due borgate ci siano due versioni diverse, risulta più che naturale, se si pensa che neppure sul nome della località hanno la stessa versione, ciò che a valle è Cjarsovalas a Rivalpo diventa Cjarasualas. Per non far torto nè agli uni nè agli altri, nel raccontò userò d’ora in poi il termine di Chiaserolis, usato dal Lazzarini che all’inizio del secolo scorso è stato il primo a studiare i resti del villaggio.
Comunque, lasciando perdere la disputa sul nome, nel merito a me onestamente (non me ne abbiano quelli di Valle!) sembrerebbe più credibile l’idea di un animale con il manto d’oro. Se così fosse gli studiosi troverebbero un interessante spunto di ricerca per provare a capire come sia possibile che in una valle della Carnia, si sia diffuso lo stesso mito del vello d’oro che secondo la mitologia greca si trovava nella Colchide, nell’attuale Asia Minore, e che fu rapito da Giasone e Medea. Un collegamento che intriga anche uno come me che, pur non potendosi considerare uno studioso della materia, non può dimentica d’essersi laureato con una tesi proprio sulla tragedia di Medea.
Guarda il caso! Studiare all’Università il mito di Medea che rapisce il vello d’oro, per poi ritrovarsi da vecchio sui monti della Carnia, con lo stesso mito!...
Perchè, caso vuole, che anche la leggenda della valle del Cjaròi si sviluppi sul tema del rapimento del vello d’oro, o del bèc fatto d’oro. Comunque, anche per quelli di Valle che lo credevano fatto d’oro, il bec non era una semplice statua, ma un essere soprannaturale vero e proprio. Tutte le tradizioni orali convengono sul fatto che si trattava di un essere straordinario che proteggeva i Pagàns, privilegiando come è evidente quelli del villaggio dove risiedeva. Aveva una particolare virtù, si diceva che favorisse la fecondazione delle donne...Forse era soltanto una diceria, ma sta di fatto che tutte le famiglie di Cjarsevualis avevano nove o dieci figli, mentre la gran parte delle donne di Pronescis non avevano figli. Se non si fosse invertita la tendenza, era in pericolo la stessa sopravvivenza del villaggio, per questo a quelli di Pronescis, (ad estremi mali estremi rimedi!) venne l’idea di rapire il Bec d’àur, per portarlo nel proprio villaggio.
Nel mito greco Medea si mosse accompagnata dagli Argonauti per rapire il vello d’oro custodito da Creonte. Quelli di Pornescis si mossero in massa, uomini e donne, con tutte le armi di cui potevano disporre, guidati dal loro Druido. Attraversarono il rio Valle di notte per prendere di sorpresa nel sonno quelli di Chiarsevualis. Ma quelli di Chiarsevualis avevano il bèc d’aur che da essere sopranaturale qual’era, intuì il pericolo e nella notte prese a suonare all’impazzata la campanella che, dalla torre più alta del castello, di solito suonava al far dell’alba e quando le prime ombre del tramonto si distendevano sulla valle. Il Druido che s’era recata al castello a chiedere il perchè di quell’allarme, venne informato del pericolo che stavano correndo il villaggio ed organizzò immediatamente una spedizione che si mosse per fermare quelli di Pornescis, prima che si potessero avvicinare alle casupole usate come abitazione per incendiarle....
Secondo una delle versioni lo scontro avvenne dove oggi sorge la malga di Albareit bassa, che prenderebbe il nome dal biancore che si notava anche da grande distanza dove oggi si stendono i pascoli della malga, che era dato dalle ossa dei cadaveri della carneficina in cui era finita la battaglia. . Secondo un’altra versione invece lo scontro avvenne sui prati di malga Plombs e mentre “nel castello il Bec d'Aur assisteva allo scontro fra i Pagans l'ira crebbe in lui. Come potevano quei miseri uomini pretendere di trattare un dio come se fosse qualcosa di loro proprietà? Così il Bec d'Aur si animò ed uscì dal castello per punire la presunzione degli uomini. Corse verso il crêt che sovrastava Cjaserualis, e con i colpi delle sue potenti corna fece saltare in frantumi la roccia, questa franò improvvisamente con un enorme boato, e precipitò sul campo di battaglia uccidendo gran parte dei Pagans impegnati nello scontro. Anche il castello fu travolto e distrutto in un solo istante, con tutte le sue mura che avevano sfidato intatte i secoli.
A me, confesso, questa seconda versione non convince... La malga Plombs e il crepaccio che si sarebbe formato per l’ira del bèc che ha frantumato la montagna, si trova oltre il villaggio di Chiaserolis per chi viene da Pronescis. Se veramente dovesse essere questa l’origine del crepaccio, cioè l’ira del Bec d’àur per la guerra tra pagàns, si dovrebbe supporre che ci sia stato un altro assalto a Chiaserolis da parte degli abitanti del villaggio di Ciagnòn situato sull’altopiano sopra l’attuale abitato di Cabia. Con quelli di Ciagnon gli abitanti di Cjarsevalis, avrebbero potuto incontrarsi a metà strada nei pressi di Suart, e lì il Bec d’aur avrebbe potuto mandare in frantumi la roccia dando luogo al crèt di Plombs, tuttora visibile, ma non con quelli di Pronescis che erano dall’altra parte...
Se anche nei Vangeli ci sono quattro diverse versioni di come gli apostoli hanno scoperto che Gesù era risorto, non deve far meraviglia che ci siano delle imprecisioni su come sia finita la guerra tra Chiaserolis e Pronescis...L’unica cosa certa è che oltre malga Plombs c’è un crepaccio che si sarebbe formato a seguito della cornate del Bec d’àur.
“Credere o lasciare”, soleva dire mio nonno. Tutti concordano invece sull’ultima parte della leggenda nella quale si racconta di come dopo questa battaglia fratricida, i pochi supersiti si dispersero sulle montagne della Carnia, nei boschi e nelle caverne tanto è vero che le madri minacciano i figli più irrequieti dicendo loro "Cjale che vegnin i Pagans e ti puartin vie se no tu fâs il brâf" (attento che vengono i pagani ei ti portano via se non fai il bravo)..
Il Bec d'Aur offeso per quanto avevano fatto i Pagans non tornò più fra gli uomini e tutt'ora vaga per le montagne senza che nessuno lo possa mai incontrare. Camminando lascia impronte profonde nel terreno e dove si ferma a riposare la sua sagoma rimane segnata sull'erba bruciata dal potere che emana il suo corpo. Ogni tanto i montanari trovano queste tracce e sanno che sono quelle del Bec d'Aur che un tempo viveva nel castello di Cjaserualis.
A conferma che si tratta d’una storia vera e non di una leggenda gli abitanti sia di Valle che di Rivalpo sono concordi nel sostenere che, nel rio Plombs, così è chiamato il primo tratto del rio Pòi, affluente del Chiarsò, è stata trovata la campanella che dalla torre del castello, suonò l’allarme nella famosa notte dello scontro. La si può ancora vedere nella chiesa di S.Martino. E’ la campanella in bronzo sulla porta della sacrestia che avverte dell’ingresso in chiesa del prete, per l’inizio delle funzioni religiose.
Qui comunque, con la testimonianza di questa campanella, finiva il racconto, con il Bèc d’àur disperso non si sa bene dove sulle montagne della Carnia. Sarebbe finito così anche il mio racconto, se non avessi per caso incontrato a Rivalpo la Sepe. che di storie ne sapeva a bizzeffe. Era una vecchietta dall’età indefinibile. Molto piccola, con il viso che faceva pensare ad un teschio sul quale si fosse rinsecchita la pelle come si vede nelle mummie di Venzone. Il suo corpo, rimasto quello d’una bambina di dieci anni, era stato anche rattrappito ed ingobbito dalla vecchiaia, per cui sembrava ancora più piccola. Non una donna, ma uno dei “piccoli uomini” che anche secondo le leggende che lei andava raccontando, vivevano in Carnia ancor prima dei Carni. Abitava in una casupola sopra al paese, che sembrava fatta a sua misura. Entrando, anche a me che pure non sono alto, veniva istintivo di abbassare la testa per non correre il rischio di incocciare nel soffitto.
Le avevo portato in regalo una bottiglia di grappa perchè mi avevano detto che le piaceva e che la facilitava nel racconto. L’aprì ne bevve a canna alcuni sorsi. Ma ancora non si decideva a rispondere alla mia domanda su quanto sapesse a proposito del Bec d’Aur e mi tenne sulle spine per oltre un quarto d’ora. Poi, finalmente, come se la grappa fosse riuscita a liberarla d’un groppo che teneva in gola: “Non è nulla la leggenda del rapimento del Bèc, che già saprai,” prese a dire, “a confronto del suo seguito”.
“Quale seguito?” la incalzai curioso. Prese così a raccontarmi di come non sia vero che il Bec d’Aur abbia abbandonato Valle e Rivalpo, e di rimessa mi ha dato la spiegazione sul perchè nella sua piccola casa si vedevano di continuo in visita delle giovani coppie. Secondo quel che mi ha raccontato la Sèpe, il bèc d’Aur vive ancora a Chiaserolis nella dimensione dell’invisibile, ed ha conservato tutti i suoi poteri nell’aiutare le donne ad avere figli. Mi ha riportato così una serie di casi di giovani coppie che da anni non avevano figli, che avevano provato ad interpellare i più grandi specialisti in ginecologia senza alcun risultato, e che seguendo il suo consiglio erano andati a far l’amore nel bosco tra i resti del villaggio di Chiaserolis, bevendo l’acqua del rio Plombs e immancabilmente dopo nove mesi erano venute a ringraziarla accompagnate dal pianto d’un bambino in fasce.
“Ma un giorno solo a fare l’amore in Chiaserolis?” ho dovuto per mio malgrado interromperla stupito, “per risolvere tutti i problemi di fecondazioni assistite, o eterologhe! Te l’immagini avremmo frotte di gente da tutto il mondo!”
“Io non so cosa sono queste fecondazioni “estrologhe”, mi ribattè lei imperterrita e piccata “e mi darebbe anche fastidio che la gente accorresse a frotte a Valle Rivalpo, io ti ho solo detto come stanno le cose...”
“Ma perchè tu non hai ricorso alla fecondazione del Bèc d’àur?” la provocai allora, sapendo che non aveva avuto figli. Mi vergognai di me stesso, per la battuta infelice. Ma oramai m’era uscita di bocca. Lei non parve particolarmente offesa, mi rispose tranquillamente che il Bec d’aur non è lo Spirito santo, ci vuole comunque un uomo, perchè la sua l’influenza abbia effetto, e lei era invece come Maria Vergine che per tutta la vita non aveva conosciuto uomo.
Quasi a chiedere scusa per la mia impertinenza, dimostrando interesse per il racconto le chiesi se bastava una visita a Chiaserolis per godere del miracolo. “No!” mi rispose precisa e convinta, guardandomi fisso negli occhi, quasi a sfidare la mia incredulità. Si deve tornare per quindici giorni di seguito. E dopo aver fatto l’amore la donna deve bere dell’acqua ferruginosa alla sorgente che si trova sotto i “ciampùs” i piccoli campi, che non sono altro che le tombe del cimitero dei Celti...
L’aggiunta che la Sèpe faceva alla leggenda corrente, mi aveva confermato nell’idea che quella del Bèc d’Aur fosse la leggenda più importante dei Carni, che in qualche modo collegasse la cultura celtica a quella greca. Desiderai quindi sentire al riguardo il parere di Diver Dalce, l’autore che è riuscito ad inventarsi la storia di un soggiorno in Carnia nell’antichità, dello stesso Pitagora.
L’ho trovato che stava rovistando nella campagna dietro alle case del paese di Misincinis, per trovare conferma d’una sua teoria nella quale la leggenda del Bec d’àur aveva un riferimento di assoluto rilievo. “Scusi,” gli chiesi a bruciapelo, “lei che ha persino immaginato Pitagora tra queste montagne cosa mi dice d’una possibile relazione tra le leggende del Bèc d’Aur a Valle Rivalpo e del Vello d’Oro in Grecia?”. All’udire la mia domanda, si fermò di scatto, come se qualcosa l’avesse ferito. Aveva in mano una punta di freccia e prese a pulirla. Puliva la freccia e mi parlava, come se la sua attenzione fosse rivolta alla freccia e non alle parole che mi diceva.
“Lei è più intelligente di quanto può sembrare!” iniziò. Non risposi e non mi offesi perchè sapevo che per parlare con lui si dovevano subire gli attacchi della sua originalità e lo lasciai parlare, lasciando partire il registratore. Risentendo le sue parole, uno sproloquio più che un racconto, ho pensato che fosse finito per dar di matto come l’architetto dei suo romanzo sui Celti. Comunque senza assumermi nessuna responsabilità, solo per dovere di cronaca, mi pare giusto riportare ciò che mi ha detto.
A suo dire, in epoca preromana il collegamento tra la Grecia e l’Altoadriatico era un fatto normale. Per i collegamento con le cave di sale di Halstatt e della Baviera, si preferiva il collegamento via mare, più agevole rispetto alle difficoltà che avrebbe comportato l’attraversamento a piedi dell’attuale penisola balcanica. Si risaliva poi il corso del Tiliaventus e quindi quello del Chiarsò per poi attraversare le Alpi al passo di Meledis. Se si conviene su questa teoria è evidente l’importanza che sin dall’antichità più remota aveva la valle del Cjaròi, la valle di sosta prima dell’attraversata delle Alpi. Per questo assieme ai Carni si insediarono nella valle delle colonie greche, e fra queste la più famosa fu quella che si insedio sull’altopiano ai piedi del monte Tersadia. Anche questo nome è stato storpiato. Si chiamava a quei tempi Tessaglia, a ricordo della regione della Grecia da cui erano arrivati i coloni, e il vello di Chiaserolis è lo stesso della storia di Medea!
“Questa poi!” non riuscii a far a meno di esclamare e con l’esclamazione chiusi i registratore pensando che il mi interlocutore si fosse bevuto il cervello.
Ma ripensando poi a ciò che mi aggiunse, a registratore spento, mi pentii d’averlo fatto. Avrei potuto documentare almeno la fantasia senza limiti di Diver...
Mi portò a ragionare sul fatto che le case del villaggio erano a base rettangolare, mentre quelle celtiche, come si vede bene sul monte Sorantri a Raveo sono rotonde. E questo, a suo dire era sufficiente a dimostrare che il villaggio non era celtico.
Mi ricordò come nella leggenda greca si dica che Giasone e Medea tornando dalla Colchide, puntiti da Giove, smarriscano la rotta e finiscano nell’Adriatico per poi risalire il Po e attraverso il Rodano raggiungere la Liguria e poi la Sardegna e infine il Monte Circeo, per purificarsi presso la maga Circe. Secondo Diver i trascrittori non conoscendo la geografia hanno fatto un errore i georeferenziazione. In effetti i fiumi percorsi, uscendo dall’Adriatico, sono proprio il Tiliaventus e il Cjaròi, e la maga Circe abitava nel lago che c’era a quel tempo sulla cima della montagna del Cucco proprio dirimpetto al Tersadia. Lassù Giasone e Medea furono purificati dalla maga Circe per gli omicidi che avevano commesso, e in segno di gratitudine, lasciarono agli abitanti di Chiaserolis che li avevano ospitati un pezzetto del vello d’oro che aveva la virtù di favorire la fecondità delle donne, ma anche degli animali e di tutta la natura.
Quando ci si lascia prendere dalla fantasia e la si mescola all’amore per il proprio paese, si finisce per immaginare il proprio paese al centro del mondo. In questa ottica si può capire la ricostruzione fantastica di Diver. Anche se, a dir il vero, anch’io ho trovato qualche riscontro nei racconti che mi ha fatto la Sepe legati alle montagne di Valle Rivalpo.
Anche lei infatti mi ha detto che sul monte Cucco c’era un lago. Il monte sarebbe stato un vulcano, come ce ne sono altri al mondo, il cui cratere era riempito d’acqua a formare un lago. Poi a seguito d’un terremoto s’era spezzato un lato dell’argine e l’acqua era precipitata portandosi dietro la montagna, dando origine ai crepacci del Lander, e travolgendo infine il municipium romano di Iulium Carnicum. Anche la Sèpe mi ha detto che sulle acque del lago del monte Cucco, si nascondeva una fata che ogni tanto usciva a prendere il sole come fanno ora le colonie di marmotte che numerosa popolano la conca nella quale sorgeva il lago. Una fata che sembra sia scesa in forma d’angelo ad avvertire gli abitanti di Zuglio del pericolo incombente. Ma anche allora, come adesso non si credeva nè alle fate nè agli angeli, per cui quando l’onda del lago si precipitò sul paese distrusse le case e travolse tutti gli abitanti, come in tempi recenti è capitato al paese di Longarone travolto dall’onda del lago artificiale del Vajont invaso da una enorme frana.
Resterebbe il problema di spiegare come il termine Circe sia stato storpiato fino a diventare Cucco, ma se Cjaròi e diventato Incaroio tutto è teoricamente possibile...