sabato 8 gennaio 2011

Da Menocchio a Romedio.



Da come sono ricostruite le vicende per le quali è finito al rogo Domenico Scardella detto Menocchio, mugnaio a Montereale Valcellina nel 1500, si ricaverebbe l’impressione che il suo sia stato un caso isolato. In quegli anni in Friuli imperversava il Tribunale dell’Inquisizione e non passava giorno che in un paese e nell’altro non ci fosse chi finiva al rogo. Ma si trattava di solito di streghe. Menocchio invece era stato arrestato nel 1584 e bruciato qualche anno dopo proprio come eretico. Sosteneva che “questo che fu crocifisso era uno dei figlioli de Dio, perché tutti semo fioli de Dio, homo come noi ma di maggior dignità”. E non rinunciò a professare questa sua fede, anche a costo di lasciarci la pelle. Che ad un mugnaio mentre vedeva girare le ruote del suo mulino mosse dall’acqua sia venuta l’idea che “tutti semo fioli de Dio”, mi era sempre parso poco credibile. Ci doveva essere per forza una corrente di pensiero che era arrivata fino alle pale del suo mulino, con questa teoria teologica così originale che si collegava a quell’altra, non meno originale che al principio “ tutto era caos e quel volume feze una massa come si fa il formazo nel latte et in quel deventorno vermi et quelli furono anzeli et tra quel numero di angeli vi era ancho Dio, creato anchora lui”. Erano gli anni della riforma protestante. Molti friulani frequentavano “le Germanie” come cramars, era logico si fosse diffuso anche in Friuli lo spirito della riforma. Anche a Tolmezzo in quegli anni era finito sotto processo tale Matteo Bruno che per salvarsi dal rogo abiurò mentre a Vinaio nel 1588 venne giustiziato Daniele Dionisio.
In questo contesto si colloca la leggenda dell’Eremita di Vuerpa, ed anche in questo caso la leggenda serve a capire ed a ricostruire meglio il momento storico. Anche in questo caso Romina, la vecchia che me l’ha raccontata, sosteneva che non di leggenda ma del racconto d’un fatto realmente accaduto e quindi di un fatto storico. Ma a me, come ho già detto altre volte, interessano gli elementi del racconto che aiutano a ricostruire il momento storico, non mi fa differenza sapere se i fatti sono realmente accaduti o se sono usciti dalla fantasia di qualcuno.
Comunque, al di la delle solite divagazioni, Romina era una vecchia che avevo incontrato a Vuerpa, borgata poco sopra il paese di Vinaio in Comune di Lauco. C’ero arrivato per la tradizionale festa del pastor, organizzata ogni anno a settembre per celebrare il ritorno del bestiame dall’alpeggio e più che dalla festa ero rimasto incuriosito proprio da quelle quattro case adagiate su un pianoro alle falde del monte, con davanti un panorama eccezionale.
Non c’era nessuno nel piccolo borgo. Erano tutti alla festa. Almeno così m’era parso, ma poi avvicinandomi alle case sono stato attratto da una vecchia che sedeva su una panca accanto all’ingresso d’una vecchia casa. Immobile come se fosse stata una statua. Fissava in silenzio il panorama, con l’attenzione di chi guarda per la prima volta una scena, mentre non c’era scena che le potesse risultare più familiare, dal momento che non c’erano dubbi che quella fosse la sua casa.
Avvicinandomi, un po’ guardavo a lei un po’ seguendo il suo sguardo guardavo al panorama che lei stava fissando. S’apriva davanti la conca tolmezzina che si perdeva a mezzogiorno in una serie infinita di valli e di quinte di montagne. Lei continuava a guardare immobile come se non si fosse accorta del mio avvicinarmi, ma quando le fui accanto, quasi fosse un saluto o una riflessione ad alta voce, senza fare un cenno di movimento verso di me disse
Mi stupiva il suo comportamento, ma mi stupì ancor di più il fatto che le parole con le quali mi accolse erano le stesse che avevo nella mente mentre guardavo quel panorama. Come se avesse potuto leggermi nel mio pensiero.
“E mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni!” disse tra sé e sé ma a voce alta in modo che sentissi. Pensai ad uno strano modo di salutare, colpito dal fatto che anche a me, mentre guardavo al confondersi dell’orizzonte lontano con l’azzurro del cielo, erano venute in mente i versi dell’Infinito di Leopardi: “Tra queste immensità s’annega il pensier mio, e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Da lassù le valli della Carnia, coperte ancora da un trine leggero di nebbia che s’andava dissipando al sole del mattino, parevano appena uscite dall’Oceano primordiale. E le montagne torno a torno erano fate appena uscite dall’acqua, adagiate ad asciugarsi all’ultimo sole di settembre.
Lei invece, la vecchia pareva uscita da una stampa antica. Volata a caso fin davanti a quella casa, come una immagine ritagliata da un vecchio libro ed incollata su uno fotografia. Tra le profonde rughe che segnavano il viso, si riusciva a leggere e distinguere bene la bellezza d’un tempo, i lineamenti delicati le fattezze armoniose. Gli occhi ormai infossati quasi si stessero ritirando nelle cavità del cranio, avevano ancora la luce e la vivacità degli occhi d’una giovane ragazza esuberante e sbarazzina. Ma ciò che più colpiva erano i capelli. Malgrado l’età non erano bianchi: il biondo d’un tempo s’era appena scolorito in un grigio con sfumature dorate. Ed erano attorcigliati in lunghi boccoli, come usano certi popoli primitiva dell’Australia. Ma non bastava! I boccoli erano raccolti in una crocchia dietro dalla nuca, dalla quale poi si dipartivano nuovamente a raggiera a formare una sorta d’aureola. Se mi avesse detto che era una fata o una strega non avrei potuto non crederle. Era più difficile pensare che fosse una donna nata e vissuta tra quelle quattro case sulla montagna. Invece era proprio, così a dimostrare che anche a Vuerpa di Lauco la realtà può superare l’immaginazione.
“Che cosa cerca da queste parti?” mi chiese quando le fui davanti.
“Nulla di particolare,” le risposi. “Sono qui per la festa, e m’è venuta l’idea di esaminare meglio la borgata per capire come si possa vivere tra quattro case in cima ad una montagna”.
“Si vive, si vive!” replicò, “come in qualsiasi altra parte. Un giorno dopo l’altro, sospinti dal tempo fino ad incontrare la morte” Poi notando il mio stupore alla sua risposta aggiunse: “Non so perché ma pensavo che fosse uno che si interessa di leggende”.
Sorpreso per la sua risposta filosofica, al sentire l’aggiunta restai basito. Mi aveva letto nel pensiero sull’Infinito di Leopardi, ed ora s’immaginava il vero motivo del mio interesse a quelle case anche se non le avevo fatto neppure il minimo accenno…In effetti mi ero inoltrato nella borgata proprio pensando che, isolati come erano vissuti, quando fin lassù non arrivavano che sentieri, certamente avevano prodotto nei secoli qualche favola particolare legata al particolare ambiente di montagna.
“Non so come ha fatto ad immaginarlo,” le dissi. “Ma è vero sto cercando di raccogliere delle leggende, prima che se ne perda la memoria. Fino alla vostra generazione c’è stata una trasmissione continua da generazione in generazione. Oggi anche quassù è arrivata la strada asfaltata. Come l’asfalto ha coperto i sassi della carrareccia, così il progresso sta cancellando ogni memoria del passato.”
“Se è vero!” commentò lei. “E’ arrivato nel posto giusto,” aggiunse poi, “perché qui è la casa stessa ad essere una storia che pare una leggenda”.
Senza aggiungere altro, si alzò tutta arzilla e mi aprì la porta invitandomi a seguirla. Era una tipica casa carnica del primo novecento. Sull’atrio, dal pavimento lastricato a grandi pietre irregolari, davano due stanze una a destra ed una a sinistra e davanti partivano le scale in legno per il piano superiore. A fianco s’apriva la porta che dava alla dispensa. La aprì e mi fece scendere per alcuni gradini. Tutto normale ci trovavamo nella cantina. Ma era la cantina ad essere fuori dal normale. Non si trattava d’una vera cantina in muratura ma d’una grotta.
“E’ in questa grotta che inizia la storia della casa…” prese a raccontarmi Romina.
Mi spiegò che si trattava d’una grotta naturale che il caso dell’evoluzione geologica aveva voluto si formasse su quella montagna. Forse era stata abitata anche in epoca preistorica, ma questa poteva essere solo una supposizione. Era certo invece che era stata abitata nel 600 da un originale eremita eretico di nome Romedio. Negli anni successivi si era sviluppato una sorta di culto popolare che aveva fatto del frate un santo, capace di grandi miracoli, per cui sulla grotta era stata costruita una chiesetta. Poi il santo aveva perso l’abitudine di fare i miracoli e così era venuta meno la devozione nei suoi confronti, la chiesetta era stata abbandonata e finita in macerie.
“Con i sassi della Chiesa mio nonno a iniziato a costruire questa casa, inglobando la grotta come cantina”. Era emigrato come molti altri carnici a fare il muratore in Baviera ed era tornato, come tanti altri soprattutto in Val Pesarina, tutto preso dalle idee del socialismo anarchico, convinto che la religione fosse “l’oppio del popolo”. Si gloriò per tutta la vita d’aver trasformato le fondamenta d’una chiesa nelle fondamenta della sua casa, finchè non fu trovato impiccato, senza nessuna ragione plausibile, ad una trave della soffitta della casa…
“La maledizione del capostipite in qualche modo è scesa fino a me, che sono l’ultima erede senza figli. Con me si estinguerà la discendenza. Nessuno vorrà abitare in una casa maledetta, e in breve ci sarà solo un cumulo di macerie a coprire l’ingresso di questa grotta. Non si saprà neppure che esista e si perderà la storia legata ad essa, la storia dell’eremita Romedio”.
Non trovai parole per commentare espressioni così prive di speranza ed in silenzio la seguii di nuovo sull’aia, per sedermi accanto a lei sulla panca di legno a guardare la fuga delle montagne giù nelle valli ed a sentire il racconto della vita di Romedio l’eremita di Vuerpa.
Durante il Seicento molti furono accusati di eresia o stregoneria e bruciati al rogo. Chi si voleva liberare di un nemico non doveva far altro che inventarsi un accusa, e il Tribunale dell’Inquisizione provvedeva al resto. Ma anche se tutti in Carnia sapevano che Romedio era un eretico, nessuno s’arrischiò a denunciarlo. Come si sapeva che era eretico, così si sapeva che aveva dei poteri straordinari, che aveva compiuto miracoli eccezionali.
Tutti si chiedevano da dove gli potessero venire questi poteri. Dal momento che non credeva in Dio, non potevano che derivargli dal Demonio, e nessuno s’arrischiava a mettersi contro un figlio del demonio, neppure il prete di Vinaio che pure aveva avuto modo di confrontarsi con lui in uno scontro verbale nell’osteria del paese, avendo la conferma che fosse eretico. “E della peggiore specie!” Forse per paura, per non mettersi contro il Diavolo, forse per stima per una persona che sapeva sviluppare dei ragionamenti molto profondi, forse soltanto perché affascinati dal suo modo di parlare, erano comunque in molti quelli che ogni giorno da Vinaio e da tutta la Carnia salivano a far visita all’eremita. Fra di loro si era formata una sorta di setta segreta, la setta degli amici di Romedio e non c’era pericolo che si tradissero denunciandosi a vicenda all’Inquisizione. L’unica eccezione era stata quella di Daniele Dionisio di cui ho già ricordato la brutta fine. Era anche lui uno dei più assidui frequentatori dell’eremita. Ma a denunciarlo per altri motivi erano state altre persone del paese. Non uno dei devoti di Romedio.
L’eremita quando sentiva che si erano raccolte alcune persone all’imboccatura della grotta, usciva e sullo spiazzo che sarebbe poi diventata l’aia della casa, e quindi nel luogo ove mi trovavo assieme a Romina, teneva dei discorsi, un po’ come si legge faceva qualche secolo prima S.Francesco. “Discorsi i cui contenuti sono giunti fino a me, di generazione in generazione”, soggiungeva la mia interlocutrice, “e che finiranno con me, non avendo io discendenti a cui trasmetterli. Con questo preambolo, quasi volesse coinvolgermi nel compito di tramandare il pensiero di Romedio, mi fece il riassunto d’una serie di ragionamenti e di riflessioni, che in qualche parte mi ricordavano quelli di Menocchio. Per questo dicevo in premessa che probabilmente in quegli anni sulle montagne friulane s’era sviluppata una originale forma di religione, come via di mezzo tra quella cattolica e quella protestante, una sorta di teologia della liberazione.
Romedio metteva in discussione la Bibbia per tanti aspetti a partire dalla prima riga. Non è vero diceva che “ in principio Dio creò il cielo e la terra”, all’inizio c’era il caos, la materia informe, eterna ma inconsapevole della propria esistenza. Poi ci fu la luce, nel senso che la materia prese coscienza della propria esistenza. La luce era Dio, era nel mondo e per mezzo suo si fece il mondo, imponendo un ordine alla materia. La materia è il principio del male, ossia il demonio da cui nasce la schiera dei diavoli, la coscienza dell’esistere è il principio del bene da cui si sviluppa la schiera degli angeli. La storia dell’umanità è la guerra dei due principi, fatta di tante storie di individui in ognuno dei quali si scontra un angelo ed un demonio.
Una cosmogonia evidentemente molto vicina a quella di Menocchio. La contestazione sulla Bibbia si trasferiva poi ai vangeli. Le evidenti contraddizione anche tra i quattro vangeli canonici, dimostrano che non possono essere presi come verità di fede sosteneva, ripetendo Menocchio che diceva agli inquisitori “circa le cose delli evangeli credo che parte siano veri et parte li evangelisti abbiano messo de suo cervello, come si vede nelli “passi” che uno dice a un modo et uno dice a un altro”.
Ma l’elemento che più avvicinava la teologia di Romedio a quella di Menocchio, era la convinzione che ribadiva in ogni suo discorso che l’uomo è figlio di Dio, che ognuno di noi è figlio di Dio.
Su questi concetti sviluppava poi una sua particolare teoria religiosa che in qualche modo tentava di mediare tra i concetti del libero arbitrio e del servo arbitrio, dando una sua particolare soluzione al problema della predestinazione.
Se lo spirito di Dio è la coscienza di esistere dell’Universo e nel corpo di ogni uomo vive lo spirito che è la sua coscienza di esistere, è evidente che cosa si voglia intendere definendo l’uomo come figlio di Dio, come è evidente che in questa definizione è implicito il concetto della sua immortalità. Il corpo nasce dalla materia e soggiace alle leggi della materia, lo spirito viene dallo Spirito universale e torna allo spirito avendo maturato con il corpo l’esperienza di individuo. C’è un atomo della coscienza universale che si incarna in un uomo e diventa coscienza individuale, per tornare per sempre alla coscienza universale mantenendo la sua individualità.
Nel periodo della convivenza, gli anni della vita dell’uomo, la sua esperienza di vita è quella del conflitto tra il demone della materia e l’angelo dello spirito. L’uomo è come un campo di battaglia nel quale si combatte un conflitto che non dipende da lui se non in minima parte. Il suo demone e il suo angelo cioè i caratteri positivi e negativi che gli vengono dalla natura si combattono generando una serie di circostanze che condizionano la sua vita. Ma come in un gioco virtuale, l’uomo può partecipare modificando le condizioni del campo di battaglia, che possono influire sull’esito della battaglia. La vita è quindi una battaglia a tre tra un demone un angelo ed un uomo, come diceva anche Menocchio, “tra un corpo un’anima ed uno spirito”.
Per capire l’umanità si deve immaginare che l’atmosfera sia carica di semi e ne lasci cadere alcuni che vivono le regole della natura sulla terra riproducendosi per poi diventare di nuovo semi capace di librarsi nuovamente e per sempre nell’aria. Le leggi della terra non sono imposte dall’atmosfera, il seme è libero di trasformarsi, dipende da lui il processo di trasformazione e quindi il risultato con le caratteristiche che avrà il seme tornando a vivere nell’aria.
Romina avrebbe continuato all’infinito a parlarmi delle teorie di Romedio l’Eremita, ma mi stavano aspettando gli amici che avevo lasciato alla festa del Pastor. Con questa scusa, l’ho salutata promettendole che sarei tornato a trovarla con più tempo e più calma. Non ci sono più tornato. Ho infatti ripensato più volte a ciò che mi aveva detto e non ho saputo darmi una risposta. Si trattava di fantasie di un matto? O c’era un senso, se Menocchio per queste teorie s’era lasciato morire sul rogo, pur di non rinunciare all’idea di essere figlio di Dio?...

martedì 4 maggio 2010

Dagli Sbilf al bluetooth


Non è per dar torto alla Bibbia. Ci mancherebbe! Ma potrebbe anche darsi che l’evoluzione della specie animale fino alla nascita dell’uomo, non sia avvenuta in tutti i luoghi del globo terracqueo, allo stesso modo. Non metto in dubbio che nel Medio Oriente, dopo aver ordinato alla terra di produrre “esseri viventi secondo la loro specie”, Dio il giorno dopo abbia creato l’uomo a sua immagine. Ma da noi, in Europa prima dell’età dell’uomo, c’è stata quella dei piccoli uomini: la terra era popolata dagli Sbilfs e le acque dalle Agane. A Tolmezzo gli sbilf abitavano alle falde del monte Strabut, (che a quel tempo chissà come si chiamava), le Agane invece ai piedi della montagna nelle acque del But, che a quel tempo passava molto più vicino alla montagna, proprio ove oggi c’è il centro storico del paese. Chi volesse una conferma di questo assunto, può salire fino a Precefìc e, addentrandosi nel pianoro a mezza costa dello Strabut, troverà nell’atmosfera che vi si respira, una evidente e incontrovertibile prova della presenza nel luogo dei piccoli uomini, nella notte dei tempi.
La differenza tra gli Sbilf e gli uomini, non era tanto o non era solo nella dimensione del corpo. Erano degli uomini in miniatura, ma avevano la testa se si vuole anche più grande di quella degli uomini d’oggi, perché nel loro cervello si era sviluppata una grandissima capacità di pensiero. Gli uomini devono mediare con la parola o con la scrittura la comunicazione del loro pensiero, gli sbilf comunicavano direttamente. Il pensiero di chi voleva comunicare, si metteva immediatamente in relazione con il pensiero degli interlocutori, come se le onde del pensiero fossero onde radio
Nella evoluzione dai piccoli uomini agli uomini s’è persa questa particolare capacità di comunicazione. Derivava infatti dalla grande disponibilità degli sbilf a comunicare ed a rapportarsi in positivo con i propri simili. Diventando, con l’evoluzione, più consistente la massa corporea, ha preso sempre più rilievo la coscienza di sè, è diventato sempre più forte l’egocentrismo, sempre minore la disponibilità verso gli altri, e così anche la capacità di pensiero negli uomini si è chiusa in sé, è diventata capacità di riflessione più che di comunicazione. Obiettivo primario per l’uomo è diventato il proprio corpo e si è persa quella capacità di pensiero che faceva in modo che gli sbilf fossero tutti poeti. La capacità rimasta ora soltanto in qualche uomo eccezionale di saper cogliere e vivere la bellezza della natura, di godere nell’emozione nel rapporto immediato ed istintivo con la bellezza del creato.
Non è comunque che anche i piccoli uomini non avessero i loro problemi!... In particolare li angustiava l’impossibilità di conservare nel tempo il pensiero comunicato. Non conoscendo la scrittura e non avendo altre forme di registrazione, potevano comunicare solo in tempo reale e non in differita. Finchè non ci fu la invenzione di Gil e Tiz!...
Erano questi due Sbilf che vivevano in una grotta ai piedi dello Strabut, poco sopra l’attuale Museo Carnico. Tra l’imbocco della grotta e il greto del fiume passava un sentiero molto frequentato dai cani a passeggio. “Dovremmo riuscire ad inventare qualcosa del genere!” disse un giorno Tiz fra sé e sé.
“In che senso?” gli chiese Gil.
“Vedi! I primi fanno la pipì e quelli che vengono dopo la riconoscono. Se riuscissimo a far in modo che il pensiero si attaccasse alle cose, come la pipì dei cani, potremmo far in modo che quelli che seguono possano sentire il pensiero di chi li ha preceduti”.
Gil era un tipo che quando gli davi un input, gli si scatenavano i neuroni nel grande cervello. A forza di pensare gli venne la febbre, gli si sballarono tutti i valori, la glicemia gli andò alle stelle, ma alla fine pur stremato e sfinito ebbe ancora la forza di dire: “Ho trovato!”
“Che cosa hai trovato?” gli chiese Tiz, che, ormai quasi convinto di non poter salvare l’amico, si disperava per essere stato, con la sua domanda, la causa di tutto quel male.
Aveva trovato il modo di legare il pensiero ai dei punti che lui decise di chiamare punti di interesse! Presero così a segnare tutta la Carnia con il loro brevetto, e invitarono le Agane a ripetere i percorsi segnati da loro, riascoltando i loro pensieri. Loro due di giorno, come due cani, segnavano un nuovo sentiero, ed alla sera le Agane in folla uscivano dal But, per ripercorrere il sentiero accompagnate e suggestionate dai pensieri poetici che gli sbilf avevano legato ai punti di interesse.
Si ripeteva così ogni sera una scena di incredibile bellezza. Le fate dell’acqua uscivano dalla corrente, mentre gli ultimi riverberi di porpora del sole si spegnevano ad ovest sui Monfalconi e trasportate dalla brezza della sera, come uno sciame di farfalle, salivano le valli di Carnia traducendo in musica con le loro voci armoniose i pensieri suggeriti dagli sbilf. Una scena che si ripete forse ancora e che, come ho già detto, solo la sensibilità di quegli uomini eccezionali, che sono i poeti, può vedere…Deve essere infatti la scena che descrive Carducci nella poesia “In Carnia”:
De la But che irrompe e scroscia
elle ridono al fragor,
e in quel vortice d’argento
striscian via le chiome d’òr.
Questa leggenda mi è stata raccontata da persona degna di fede che abita nei pressi del luogo dove ci sarebbe stata la grotta dei due sbilf. Ma una conferma indiretta sul fatto che non è soltanto una leggenda mi viene dalla coincidenza per la quale proprio in quel posto, in ambiente che richiamava molto quello d’una grotta, gli uomini della ditta BoDi, hanno pensato ad un progetto che utilizza le moderne tecnologie per riproporre l’idea che hanno avuto, nello stesso luogo, ì due sbilf.
Agli sbilf che, come si è detto, erano poeti non ne è venuto nulla e neppure nessuno li ricorda, agli uomini di BoDi deve essere venuta invece una improvvisa ricchezza. Tant’è che si sono subito trasferiti in ambienti più luminosi e prestigiosi!!!
Per il “bene comune” c’è solo da augurarsi che come le Agane in folla seguivano i suggerimenti degli Sbilf, ci sia ora una folla di turisti che segue Bodì sui sentieri della Carnia diffondendo su tutto il territorio benessere e ricchezza.

(Favola scrittali 1°marzo 2010 in occasione del trasferimento di BoDi all’Agemont con i migliori auguri a Gil a Tiz e di riflesso a Stefano ed a tutti i collaboratori. Buon lavoro!)

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venerdì 26 febbraio 2010

La lavanda di Venzone.



Una volta, nel tempo prima della storia, la Carnia era abitata dagli Sbilfs e dalle Agane, le fate dell’acqua. Nella stretta di Venzone che prendeva il nome di porta della Carnia perché al tempo con questo nome si comprendevano anche le valli del torrente Fella, una colonia di Sbilfs si era insediata dove ora sorge il paese, mentre al di là dell’acqua del Tagliamento ove ci sono ora le case di Pioverno nelle grotte sotto all’attuale chiesa dell’Immacolata si erano insediate le Agane. La scelta non era stata casuale. A quei tempi si viveva secondo natura, non c’era la necessità di lavorare la terra, ma ci si doveva collocare dove la terra produceva i suoi frutti. Sulla sinistra del Tagliamento cresceva spontaneo il frumento il cibo preferito dagli Sbilfs. Sulla destra invece cresceva quella che oggi chiamiamo lavanda, il profumo preferito dalle Agane. A primavera la stretta tra il S.Simeone e il Plauris pareva la valle dell’eden con l’acqua limpida che si scioglieva in riflessi di cristallo, tra la distese dorate del frumento da una parte e del viola della lavanda dall’altra. Gli Sbilfs che credevano nella Madre Natura, avevano dato un nome femminile alle piante da cui traevano sostentamento e le avevano chiamate spighe. Le Agane che vivevano del profumo dei fiori avevano dato un nome maschile alle loro piante e chiamano spigo i gambi di quella che noi oggi chiamiamo lavanda.
Quando nel rincorrersi dei secoli iniziò la storia degli uomini le nostre montagne furono prima popolate dai Celti venuti dll’Est, e infine anche da queste parti arrivarono i romani a portare la civiltà con la guerra e gli eserciti. I soldati venivano reclutati da ogni parte dell’Impero. Fu così che arrivò nella piana di Venzone una legione tutta formata da Galati, i Celti dell’Asia Minore. Fra loro c’era un centurione di nome Venzo, finito a fare il militare per dimenticarsi le pene d’amore.
In patria era un alchimista innamorato del suo lavoro. Coltivava una pianta che i greci chiamavano nardo celtico, appunto perché coltivato dai Celti d’Asia minore, ed i romani invece lavandula spica. Dalle radici aveva imparato a distillare degli oli essenziali e dei profumi d’una delicatezza raffinata, e degli unguenti che avevano del miracoloso. Di lui si era innamorata una bellissima donna di nome Maddalena. Si erano sposati. Egli l’amava nel profondo del suo cuore, ma tutto preso dal suo lavoro la trascurava. Passava le notti a studiare nuove ricette, cercando le soluzioni più innovative per ricavare il massimo beneficio dalle virtù della pianta del nardo. Fu così che un mattina e non trovò più Maddalena in casa. La cercò invano per tutto il paese, ma invano. Si accorse che era sparito anche l’asino, e che era stato svuotato il magazzino nel quale teneva i suoi prodotti. Un amica della moglie gli riferì che s’era caricata i profumi e gli unguenti sull’asino e che era partita alla volta della Palestina, dove aveva sentito stava predicando un nuovo profeta di nome Gesù. Qualcuno sostiene sia la stessa donna di cui parla l’evangelista Luca raccontando che si era introdotta nella casa d’un fariseo ove Gesù si trovava a pranzo, “era venuta con un vasetto di olio profumato e stando dietro presso ai suoi piedi, piangendo cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato”. Era conosciuta come una peccatrice ma per quel gesto Gesù le disse “Ti sono perdonati i tuoi peccati”. Forse il collegamento può essere fantasioso oppure no, dal momento che non si specifica di che olio profumato si trattasse. Ma in una scena analoga nella quale a ungere i piedi di Gesù d’olio balsamico è Maria di Betania, la sorella di Lazzaro il resuscitato, si dice espressamente che ha usato “una libbra di olio profumato di vero nardo” e quindi non si può escludere si sia trattato proprio dell’olio di Venzo..
Comunque il nostro essendosi trovato alla porta della Carnia, celta galata a dover combattere contro altri Celti, i Carni, entrò in crisi di nuovo e chiese di essere congedato ed ottenne la proprietà dei campi di lavanda che già dal tempo degli Sbilfs cresceva dove oggi sorge il paese di Pioverno. Prese dimora nella grotta che s’apriva nel rilievo sul quale sorge ora la Chiesa del paese. Grotta che era stata delle Agane, e che lo è ancora perché non è che le fate dell’acqua siano sparite, sono solo diventate invisibili per l’incapacità dell’uomo a vedere oltre la dimensione del reale, come è diventata invisibile la grotta perché l’imboccatura è crollata a seguito d’un dei terribili terremoti che hanno interessato ed interessano ancora il monte S.Simeone
Qui, non più distratto dalle grazie della bella Maddalena, riprese con nuova lena le ricerche sulle proprietà benefiche dello spigo e a forza di innesti ed impianti riuscì a sviluppare un nuovo tipo di pianta con maggiori proprietà terapeutiche. Mentre dal nardo celtico l’olio essenziale ed il profumo si ricava dalla radice, nella nuova pianta le proprietà benefiche si trasferirono nel fiore esaltandosi. Divenne in breve famoso in tutta la Carnia perché con i medicamenti tratti da questo nuovo spigo sapeva curare ogni tipo di malattia.
Per ogni tipo di dolore prescriveva dei bagni di spigo. Si deve lavare la parte malata, scriveva, e quindi prescriveva delle diverse composizione di acqua ed olio di spigo. Da militare aveva imparato la lingua latina e in latino le sue ricette iniziavano sempre con “lavanda est” si deve lavare, e così un poco alla volta gli uomini della Carnia presero a parlare di ricette di lavanda, e lo spigo finì per essere chiamato lavanda: la lavanda di Venzo, che in latino diventava appunto “Lavanda Venzonis”, termine oggi correttamente tradotto in italiano come “Lavanda di Venzone”. I botanici la chiamarono lavandula angustifolia per la caratteristica delle foglie strette, distinguendola dalla lavandola spica, detto anche nardo celtico o valeriana celtica, che si coltiva ancora nella montagna carinziana e viene utilizzata soprattutto nelle terme di Bar Kleinchirhheim.
A sentire l’attuale nome comune, di primo acchito viene da pensare che sia stato il paese a dare la denominazione alla lavanda, e invece la storia del legionario Venzo, dimostra il contrario in modo inconfutabile…Comunque anche nel caso dello spigo, le Alpi divennero confine e discrimine, il genere spica si continuò a coltivare al di là, mentre l’angustifolia si diffuse al di qua per tutto l’arco alpino fino alla Liguria per poi da qui debordare in Provenza.
I carnici son gente rude poco portata ai profumi: gli uomini nel bosco e le donne con la gerla, ma anche Carnia pur se è venuta meno, non è mai scomparsa l’usanza di coltivare la lavanda. Valentino Osterman in La vita in Friuli” scriveva alla fine dell’Ottocento che “è pianta benefica; si coltiva negli orti per raccoglierne i fiori che a mazzi vengono collocati tra la biancheria sia per il loro gradevole odore, sia perché si ritiene giovino a tener lontane le tignole l’incubo (calciùt) e le malie tentate contro il compimento dei doveri matrimoniali. Giova pure contro il mal di capo e di nervi, per curare le ferite e per regolare le funzioni muliebri. Ha maggiore virtù se colta nella famosa notte di S.Giovanni.
Con questa ultima annotazione il richiamo dell’Osterman a Venzo è evidente, perché ormai tutti gli studiosi concordano sul fatto che risalgono al Celti i riti della notte di S.Giovanni. Anche la messa in evidenza dei poteri sulle “malie tentate contro il compimento dei doveri matrimoniali” è probabilmente riconducibile a Venzo che nella solitudine della grotta di Pioverno, rimpiangeva di aver trascurato la bella Maddalena, che se n’era andata a far la peccatrice in Palestina.
A proposito! C’è qualcuno che sostiene d’aver letto nei soliti documenti di cui non si trova ormai traccia che lo stesso nome di Pioverno è legato al legionario. Alla sua morte infatti sarebbe stata costruita una chiesetta dedicata al Pio Venzo, delle cui fondamenta risulterebbe si sia trovata traccia quando è stata costruita la Chiesa attuale. Nei secoli poi, come è capitato spesso, il nome sarebbe stato storpiato in quello di Verno.
Ma forse queste sono illazioni di storici che si lasciano guidare dalla fantasia invece che dall’amore per la ricerca. Certo è invece il fatto che Venzo teneva a precisare, consegnando le sue ricette, che per trarne i massimi benefici, gli oli essenziali ed i profumi di spigo o lavanda che dir si voglia, devono essere diluiti nell’acqua delle sorgenti popolate dalle Agane. In Carnia ce n’è diverse, ma sembra che sopra tutte egli consigliasse l’acqua di Applis ad Ovaro, dove l’acqua sgorga fresca e purissima direttamente dal terreono.
Per inciso si deve ricordare che come sono presenti nel mondo degli umani le Agane, così sono ancora presenti gli sbilf anche se invisibili. Come è noto ce n’è di diversi tipi e nomi come il Gan, il Mazarot, il Bagan, e il Pavàr . Ci sono quelli favorevoli agli uomini e quelli pericolosi come il Cialciùt che nell’era moderna s’è montato la testa, ha cambiato nome e si fa chiamare “stress” all’inglese. Gira di notte per le case degli uomini diffondendo la malattia della depressione. Come già ricordava l’Ostermann il potere benefico della lavanda si riscontra soprattutto nel tener lontano gli incubi provocati dai Cialcùt.. In termini moderni, come è ormai ampiamente dimostrato da tanti studi, si direbbe che ha dei poteri quasi magici per vincere il male del secolo: la depressione causata dallo stress.

sabato 29 agosto 2009

La grotta di Attila.


Sopra Cason di Lanza in Comune di Paularo, sul sentiero che porta al passo omonimo, al confine austriaco verso Rattendorf, ci si imbatte in quella che viene chiamata la grotta di Attila. E’ una piccola fenditura nella roccia che un corso d’acqua, poco più che un ruscello, s’è scavato nel calcare nel corso dei secoli. Una delle tante grotte che si incontrarono negli ambienti carsici, ma con un nome che la lega al grande condottiero degli Unni. Come mai? Cosa ha a che fare Attila con l’incantevole altopiano a cavallo tra l’Italia e l’Austria, tra Paularo e Pontebba?
Come si legge nella storia, Attila invase l’Italia nel 452 dopo Cristo, e dopo aver distrutto diverse città del nord, avrebbe distrutto anche Roma se papa Leone non l’avesse fermato al Po. Secondo alcuni ad incutere timore al barbaro sarebbe stato il crocefisso che il papa brandiva, alla stregua di una lancia. I soliti infedeli sostengono che in una mano teneva il crocefisso e nell’altra un bel sacco di monete d’oro con le quali riscattava la città eterna da un nuovo sacco. Ma sono diatribe che interessano gli storici… Ciò che è certo, purtroppo, è che la prima città ad venire distrutta dal nuovo invasore è stata Aquileia, e in qualche modo si collega a questo fatto la leggenda della grotta al passo di Lanza.
Da qui, da questo passo infatti, Attila aveva deciso di iniziare l’invasione dell’Italia, perché aveva saputo che qui era nascosta la spada di Marte che avrebbe garantito la vittoria in tutte le battaglie e chi la portava. Giordane lo storico al quale si deve la gran parte delle notizie sulla vita del condottiero unno, dice che un pastore al pascolo con il suo gregge aveva visto zoppicare una pecora, e non capendo la causa della ferita, aveva seguito le tracce di sangue lasciate dall’animale, trovando alla fine una spada sulla quale la bestia era inciampata brucando l’erba. Aveva quindi recuperato l’arma e l’aveva portata in dono ad Attila. Questi, pensando d’aver trovato la spada di Marte, si convinse di essere stato eletto padrone assoluto del mondo intero.
Non so se sia credibile il racconto d’un pastore che trova per caso una spada magica, e tanto meno so se sia credibile la variante per la quale questo fatto sarebbe avvenuto proprio in Lanza. So invece per certo che qui, sull’altopiano, secondo una antica tradizione orale, ormai dimenticata, Attila ha trovato la famosa lancia che, come si racconta ancora in qualche leggenda friulana, era in grado di “infilzare tante persone in una sola volta”. Era una lancia magica che pareva avesse una prolunga invisibile. Consentiva di trafiggere tanti soldati in un sol colpo, ma anche di perforare la roccia e quindi di demolire edifici. Il nome di Lanza chiaramente derivato da lancia, costituisce una indiretta conferma della tradizione e della leggenda. E quindi si può confermare che proprio qui Attila ha trovato la lancia magica. Con altrettanta certezza si può ritenere che non ha trovato la spada di Marte, tant’è che non è diventato proprio invincibile.
Secondo una ricostruzione che, non senza fatica e dopo estenuanti ricerche, sono riuscito in qualche modo a mettere assieme, pare accertato che le cose siano andate più o meno in questo modo. ..
Risulterebbe infatti che nella notte dei tempi un essere magico, venuto forse da un altro pianeta, abbia forgiato per i Guriùs che lavoravano quassù per estrarre il ferro dalle miniere, due armi straordinarie, una spada ed una lancia capaci di rendere invincibile chi le usava. Ma i Guriùs erano pacifici, credevano nell’arma della desistenza piuttosto che in quella dell’offesa e non sapevano cosa farsi di armi da guerra. Non volendo tuttavia che le armi di distruzione venissero usate da altri, tennero consiglio per decidere che cosa farne. Prevalse il suggerimento del Druido che consigliò di purificarle, perché il loro maleficio non si diffondesse nel mondo e poi di nasconderle perché nessuno potesse utilizzarle. Si trovò quindi una soluzione intelligente per purificarle e nasconderle allo stesso tempo.
Sull’attuale confine italo austriaco, proprio a ridosso della crinale che costringe le gocce di pioggia a separarsi per prendere delle strade assolutamente diverse: le une a scendere nell’Adriatico le altre invece attraverso il Danubio a finire nel Mar Nero, c’era (e c’è ancora!) una sorta di piccolo anfiteatro naturale, all’interno del quale affiora una polla d’acqua. Era una sorgente sacra per i Gurius, credevano infatti avesse il potere di riportare in pace l’animo di chi la beveva. Il Druido propose di immergervi le armi, e poi di coprire il tutto. L’acqua della pace avrebbe vinto per sempre la carica distruttiva delle armi. I Gurius rinunciavano alla loro pace per portare la pace nel mondo!...
Con una grande cerimonia alla quale partecipò tutto il popolo del Gurius, una notte di luna piena, di fronte al monte Zermula che brillava come fosse d’alabastro, deposero la spada e la lancia nella sorgente e poi, di giorno in giorno, le coprirono con tutto il materiale di risulta che andavano estraendo dalle miniere.
Quando abbandonarono l’altopiano, perché non c’era più ferro da estrarre, al posto dell’anfiteatro naturale, c’era una enorme montagna artificiale fatta con i sassi che avevano estratto. E sotto al grande cumulo c’erano le armi magiche… Il fatto avrebbe dovuto restare un segreto di quelli che si perdono nel fiume del tempo, con la morte dell’ultimo Guriut. Ma, come diceva anche mio nonno, i segreti sono come l’odore della polenta, per quanto tu chiuda imposte e finestre, si diffonde all’esterno, e tutti sanno che in casa si mangia polenta. Allo stesso modo in tutta l’Europa si diffuse la leggenda delle armi magiche dei Guriuts, nascoste sui piani di Lanza. Tuttavia malgrado le continue ricerche nei secoli successivi, nessuno era riuscito a trovarle e neppure si riusciva ad immaginare il luogo ove potevano essere nascoste.
La notizia arrivò anche ad Attila, che avendo deciso di invadere l’Italia colse l’occasione per entrare proprio dal passo di Lanza, alla ricerca delle armi magiche che l’avrebbero reso invincibile.
“Se ci sono queste armi, io le troverò!” diceva ai suoi salendo al passo dalla valle del Gail. “Se i folletti sono stati tanto furbi nel nasconderle, io sarò più furbo di loro nel ritrovarle.” In effetti quando, appena superato il passo, si vide davanti un enorme montagna che pareva sorta dal terreno circostante per effetto d’un vulcano, intuì al volo che proprio quello era il colpo di furbizia dei Guriuts.
“Qui non ci sono vulcani!” disse ai suoi. “E’ evidente che questa è una montagna artificiale. Scavatela. E, se non si tratta di una favola, ritroveremo le armi magiche!...”
Diede quindi l’ordine, a tutti i soldati del suo immenso esercito, di riempire gli elmi con i piccoli sassi che avevano scaricato i Guriuts. L’esercito prese ad avanzare come una fiumana che scendeva sui prati di Val Dolce per poi risalire al passo di Zermula e ridiscendere nella valle di Incarojo, passando per il cimitero celtico di Minsincinis. Man mano che l’esercito avanzava, la montagna dei Giurius, diminuiva. Era come se fosse fatta di neve e si stesse sciogliendo al sole di primavera. Erano così numerosi i soldati dell’esercito, che in breve tempo riapparve l’anfiteatro e la fonte sacra dove i Guriuts avevano deposto le armi. Agli ultimi passaggi, Attila volle assistere di persona. Era sicuro che si sarebbero state ritrovate le armi, e non voleva perdere il momento nel quale sarebbero riapparse…
In effetti, come si può vedere anche adesso, riemerse una sorgente, dalla quale aveva origine un piccolo ruscello che, dopo un percorso di pochi metri, si inabissava in una caverna. Dall’acqua della fonte, emerse la lancia là dove era stata deposta dal Druido dei Guriuts, ma della spada che avrebbe garantito l’invincibilità a chi la portava, non si trovò traccia. O meglio, si capiva benissimo che l’acqua miracolosa della pace, l’aveva sciolta. Si vedevano distintamente le tracce di ferro lasciate nella sorgente è nel ruscello che spariva nella grotta. Attila ordinò al suo scudiero nano di entrare nella grotta alla ricerca della spada. Ma questi ritornò dopo poco tempo raccontando che la grotta faceva un gomito, ma poi si interrompeva subito dopo pochi metri, e l’acqua si perdeva nella roccia per scendere chissà dove…
Per la rabbia il feroce condottiero uccise il nano trafiggendolo con la lancia che aveva appena impugnato. Ma la morte del nano non fece sbollire la delusione per non aver ritrovato la spada, che l’avrebbe reso invincibile. Si può immaginare quali imprecazioni abbia rivolto ai Gurius che avevano distrutto per sempre la spada dell’invincibilità…
Scese comunque in Friuli con il grosso del suo esercito, per dare man forte all’avanguardia che aveva mandato in avanscoperta e che già da alcuni mesi stava tentando inutilmente di espugnare Aquileia.
“Ma cosa devono fare i soldati dei sassi che hanno raccolto negli elmi?” gli chiesero i generali quando furono nella pianura friulana.
“Rifacciamo in pianura la collina che nascondeva la mia lancia,” rispose. “Voglio salirvi in cima, per contemplare da lassù l’incendio di Aquileia, la prima di tante città italiano che andremo a saccheggiare”. E indicò un luogo nella piana tra i torrenti Cormor e Torre che volle si chiamasse con il nome di U-Din. Era il nome dello scudiero che aveva appena ucciso. Pentendosi d’aver ucciso in un momento d’ira il nano che gli aveva allietato tante serate inventandosi le leggende più fantasiose, voleva che restasse perenne il suo nome. Un nome che avrebbe ricordato nei secoli che l’ira ricade a danno di chi l’alimenta. Il povero nano non aveva avuto altra colpa se non quella di non aver ritrovato una spada che non si poteva trovare perché s’era sciolta nell’acqua della sorgente della pace.
Mentre il grosso dell’esercito, passando nel luogo indicato, prese a dar forma alla collina artificiale, Attila raggiunse l’esercito appostato attorno ad Aquileia. Si pose subito alla testa ordinando un nuovo attacco alla città. Con la sua lancia magica demolì la torre nord e dalla breccia l’esercito si rovesciò dentro alle mura della città, come si rovescia sulla campagna circostante, un fiume in piena che è riuscito a far breccia in un argine.
Lasciati i suoi a divertirsi nel saccheggio della città, Attilà cavalcò di nuovo verso la collina che intanto i suoi soldati avevano formato, e salì sulla cima per godersi lo spettacolo dell’incendio della città romana.
Una leggenda racconta che, sul far della sera, una colomba sia uscita dalla città di Aquileia, ed abbia raggiunto Attila, in attesa sulla montagnola artificiale, per annunciargli l’inizio dello spettacolo. Può anche essere, se si vuole credere alle leggende…Certo è che avendo egli dato l’ordine di procedere all’incendio al calare della notte, non aveva bisogno di annunci per avere conferma che il suo ordine sarebbe stato rispettato…E infatti quella sera l’orizzonte del Friuli, a sud verso il mare, divenne una striscia di fuoco. Pareva che la pianura avesse dato vita ad un drago di fuoco dalle mille lingue che si agitava tra il cielo e la terra. Attila si vide come trasformato in quel drago e pensò che gli dei, facendogli ritrovare la lancia magica gli avessero concesso il potere su tutta l’umanità…
Ma non aveva trovato la spada…Fu così che quando si trovò davanti a papa Leone ebbe il dubbio che fosse invece questi ad avere la spada di Marte, e decise di rinunciare alla conquista di Roma. Così ho potuto ricostruire i fatti. In verità Attila si era messo ad attendere il papa in atteggiamento provocatorio, con una mano sulla lancia piantata a terra e con l’altra appoggiata all’elsa della spada. Ma il papa, dimostrando di non temerlo, s’era piantato di fronte a lui con analogo atteggiamento di sfida, puntando a terra una strana lancia che finiva in alto con una elsa a forma di croce che portava in rilievo la scultura di un uomo crocefisso. Il barbaro superstizioso pensò che poteva anche trattarsi di una strana lunghissima spada, la spada di Marte appunto, con l’elsa ornata dalla figura magica di un Dio crocefisso…
“Deve essere questa l’arma che rende invincibili” pensò il barbaro, impressionato anche dall’imponenza dell’uomo che gli stava di fronte, che non a caso era soprannominato “magno”. Il papa per l’occasione s’era anche vestito con i paramenti sacri, portava un piviale ricamato d’oro ed aveva in testa una enorme mitria dorata e ornata di pietre preziose che gli conferivano l’immagine di una grande forza ed imponenza.
Come ho già detto, qualcuno sospetta che il papa avesse con se anche qualcosa d’altro per convincere il barbaro a rinunciare all’idea di conquistare Roma. Ma io ritengo sia stata proprio quella strano oggetto che il papa aveva piantato in terra a mo’ di lancia, a fargli cambiare idea. Attila non poteva sapere che si trattava soltanto di una croce astile…
A volte le convinzioni ci influenzano più della realtà…
Comunque, come siano andate le cose tra Attila e Papa Leone, è una verità che può interessare soltanto gli storici. Ai carnici interessa maggiormente la verità che il castello dove sedeva il Parlamento del Friuli sia costruito su terra di Carnia. Se questo non è un dato emblematico su cui riflettere… a conferma che ben a ragione la Carnia è stata definita la madre del Friuli!!!...
Agli abitanti di Paularo, ed ai turisti che frequentano la valle d’Incarojo, può interessare invece ancor più sapere la fine che ha fatto l’acqua carica delle molecole di ferro della spada miracolosa dei Guriùts... Chi sale ai piani di Lanza, si imbatte ancora oggi nella fonte che poi si insinua nella grotta di Attila, e può constatare senza ombra di dubbio, per i residui lasciati dall’acqua sui sassi del greto, come sia effettivamente un’acqua che trasporta del ferro. Ma per trovare l’acqua ferruginosa non occorre salire fin lassù… L’acqua che, come ha dovuto constatare il nano di Attila, si perde all’interno della grotta, filtra poi tra le rocce del monte Zermula e fuoriesce subito sotto alla borgata di Ravinis, a fianco del cimitero dei Celti a Misincinis, E’ un’acqua che conserva ancora la capacità di ispirare la pace, come faceva all’origine la fonte dei Guriuts ed allo stesso tempo di trasmettere la forza che gli viene dal ferro della spada magica che continua a sciogliersi.
Chi la beve ne ricava forza da usare in pace!…
E’ la forza che gli uomini imparano ad utilizzare, non contro gli altri, ma in pace con i propri simili, con la natura e con tutto il creato, ed a proprio vantaggio e beneficio. Una forza da utilizzare per esaltare il proprio spirito di intraprendenza e la propria libertà, che deve trovare un limite soltanto nella libertà degli altri. E’ la forza che in passato ha fatto di Paularo la culla di tanti grandi imprenditori, a cominciare da Jacopo Linussio.
Da un po’ di tempo, (è più che evidente!), gli abitanti di Paularo non si abbeverano alla fonte dell’acqua ferruginosa. L’hanno sistemata molto bene…oggi l’acqua fuoriesce da un bellissimo mascherone, a ricordo dell’ origine mitica dell’acqua, ma gli uomini hanno smesso di berla e quindi di assorbirne i suoi poteri magici, ossia la capacità di mettere in sintonia la forza con la pace…
C’è da augurarsi che i giovani paularini, e i giovani che vengono in ferie nella valle, tornino a prendere l’abitudine di dissetarsi a questa fonte, per fare di Paularo nuovamente un faro dal quale si sprigiona la voglia di intrapresa, e la capacità di coniugare forza e generosità, un faro con il quale illuminare nuovamente tutta la Carnia, come aveva già fatto Jacopo Linussio.

sabato 31 gennaio 2009

Melie dai vuès.


Già al sentirne il nome, un brivido mi percorreva la schiena... Mèlie dai vuès che in lingua farebbe Amelia delle ossa, mi faceva pensare ad una forza bruta capace di spezzare le ossa, piuttosto che all’abilità che tutti le riconoscevano di rimettere a posto le ossa rotte. Nella valle in realtà, Mèlie sostituiva di fatto il reparto di ortopedia. Quando qualcuno, per qualche incidente, si ritrovava con una gamba o un braccio rotto, od anche con una semplice distorsione, prima di pensare all’ospedale, era normale pensare a lei, alla donna capace di ricomporre le ossa, e solo se lei lo suggeriva, ad estremi mali estremi rimedi, si ricorreva alle cure dell’ortopedico.
Qui ci vuole Amelia delle ossa, fu l’unanime sentenza di tutti gli accorsi a constatare cosa m’ero fatto a seguito d’una banale caduta della moto. Io stavo ancora cercando di capire come fosse potuto succedere che, quasi da fermo, la moto mi fosse scivolata via da sotto al sedere, lasciandomi sull’asfalto con un piede che aveva assunto una direzione per nulla naturale rispetto alla gamba. La sorpresa dell’imprevista ed improvvisa caduta, e lo stupore per quel piede divaricato, prendevano tutta la mia attenzione, al punto che non sentivo alcun dolore e le voci delle persone accorse mi giungevano come un brusio indistinto.
Mi resi conto della situazione solo quando dal brusio emerse e si definì nella mia mente la frase: qui ci vuole Amelia delle ossa.
Evidentemente quella posizione innaturale del piede stava a significare che s’era rotto qualcosa, se attorno a me tutti ritenevano indispensabile l’intervento della donna capace di riparare le ossa.
Avrei potuto dire, che preferivo essere portato direttamente in ospedale. Ma alla fin fine anch’io ero pur sempre un uomo della valle, e le leggende della valle riportavano infiniti casi di persone rimaste zoppe o sciancate per non aver voluto ricorrere alle cure di Amelia. Si narrava persino di casi in cui la donna aveva dovuto rompere nuovamente gli arti che erano stati riparati male in ospedale, con terribili sofferenze per i malcapitati. Io male ancora non ne sentivo, ma certamente non mi avrebbe fatto piacere vivere il resto della vita, con quel piede così terribilmente rivolto verso l’esterno
In effetti tutte le volte che in passato avevo sentito i racconti della leggenda d’Amelia, professandomi scettico e moderno allo stesso tempo, avevo sempre sostenuto che se mai (tocca ferro!) mi fosse capitato qualcosa alle ossa, sarei ricorso alle cure d’uno specialista e non d’una fattucchiera. Ma lì, in mezzo alla piccola folla accorsa, mentre ero ancora a terra frastornato ed incapace di rendermi conto di come avessi potuto cadere così stupidamente, sullo scettico vinse l’uomo della valle. ed accettai la proposta d’un amico che s’era offerto di accompagnarmi in macchina dall’Amelia delle ossa.
Mi sentivo come il miscredente che dopo essersi proclamato tale per tutta la vita, capendo d’essere in punto di morte, accetta la proposta della moglie che vuole mandare a chiamare il prete. Si ha un bel credere alla scienza, ma quando non c’è più speranza, anche il tentativo più irrazionale acquista un senso!... E quel piede così fuori posto, per me che fortunatamente non avevo mai avuto modo di fare esperienze ortopediche, era qualcosa che aveva necessità d’un intervento miracoloso, per poter tornare allo stato naturale.
La leggenda di Amelia delle ossa veniva raccontata con mille particolari sulle sue caratteristiche fisiche, su dove viveva, su cosa faceva, su quando e come aveva imparato quella capacità quasi taumaturgica, di rimettere a posto le ossa rotte. Ma, appunto, era una sorta di leggenda... Erano elementi a cui avevo prestato l’attenzione che si dà ai particolari con i quali viene di solito allestita una favola nel racconto d’un narratore fantasioso. Quando l’amico fermò la macchina davanti alla casa di Amelia, mi resi conto che almeno per quanto si riferiva alla casa d’abitazione, la realtà superava ogni immaginazione.
L’impianto era quello d’una casa tipica casa carnica. Due arcate molto basse al piano terreno e poi un sistema complesso di scale e di poggiolo in legno a vista che portavano ai piani superiori, che lasciavano appena intravvedere la muratura di pietra. In mezzo alle altre case rimesse a nuovo ed intonacate sembrava veramente un errore del tempo che s’era dimenticato di cancellare quello strano ricordo di modi di vivere ormai dimenticati. L’interno era ancora più originale, ma non lo sto a descrivere, perchè ciò che vorrei raccontare non è tanto il mio primo incontro con Melie dai vuès, quanto il seguito. Nel mio primo incontro si rivelò pari alla fama. Mi unse il piede con unguenti dagli strani odori e me lo rimise a posto senza quasi farmi provare dolore. Mi raccomandò di tenerlo fasciato a di ritornare dopo un mese perchè voleva controllare se tutto fosse tornato a posto.
Mentre l’assicuravo che avrei fatto tutto secondo le sue raccomandazioni e che sarei tornato per la visita di controllo, mi interruppe per chiedermi: “E’ lei quello che, ho sentito dire, s’interesse dei Celti?”
“Si, sto cercando di raccogliere leggende che in qualche modo li riguardino.”
“Ne parleremo la prossima volta.” E mi lasciò così per un mese intero a pensare di quali originali racconti poteva essere depositaria la vecchia. Pochi giorni prima dello scadere del trentesimo fissato per la visita di controllo, passai per chiederle a che ora le andava bene di ricevermi.
“Alle otto di sera!” Mi disse senza alcun commento.
La strana casa, l’originale vecchia, l’ora insolita per una visita che pur doveva essere una visita medica...confesso che entrai in agitazione nell’attesa del giorno fissato...E ce n’era ben donde!!!
Dentro la casa era costituita da una grande cucina-sala da pranzo con un grande tavolo di noce in mezzo, un grande lavello di pietra sulla parete a sinistra con appesi ancora di secchi “cjaldìers” di rame con i quali si andava a prendere l’acqua alla fontana, quando non c’erano ancora gli acquedotti a portare l’acqua in casa. Di fronte si apriva un vano più stretto con il focolare al centro. Era un focolare di quelli di cui resta memoria solo nei libri, senza la cappa. Sui tre lati girava una panca di legno con lo schienale alto, e in mezzo, su un rialzo di un metro per un metro per l’altezza della panca, ardeva il fuoco. Mancando la cappa il fumo saliva libero per raccogliersi sul soffitto ed uscire da un una apertura che dava direttamente sull’esterno.
Al mio bussare, al mio saluto, aveva risposto con quello che m’era parso più un grugnito che il saluto d’una voce umana. Stava seduta sul lato sinistro del focolare e non s’era mossa per venirmi incontro, per venirmi a salutare. Non mi disse neppure di sedermi. Per togliermi in qualche modo dall’imbarazzo, chiesi se potevo sedermi. Continuava a guardare il fuoco, senza rispondermi. Lo presi per un silenzio assenso e mi sedetti sulla panca di fronte a lei, dall’altra parte del fuoco.
Inquadravo il suo viso poco sopra le fiamme d’un fuoco che ardeva vigoroso, tra il fumo nel quale si scioglieva la fiamma. Era segnato da rughe profonde. I capelli bianchi erano in parte nascosti da un fazzoletto nero che pareva soltanto posato sulla testa, con le estremità piegate di sopra, come usava ancora anche mia nonna. Un grande scialle nero le copriva le spalle e si incrociava davanti coprendole il petto. Era tutta assorta nel guardare il fuoco e sembrava non s’accorgesse neppure che la stavo scrutando, pareva anzi si fosse già quasi dimenticata della mia presenza, tutta presa da chissà quali pensieri. Continuavo a fissarla, quasi volessi fissarmi in testa i particolari della sua immagine, e il fumo che saliva tra me e lei, era come un filtro che dava sempre sfumature nuove e diverse al suo volto.
Sulla sua immagine filtrata attraverso il fumo mi persi come ci si perde nel sonno mentre si sta leggendo un libro. La sua immagine svanì nel fumo e mi ritrovai nel sogno... Già al sentirne il nome, un brivido mi percorreva la schiena... Mèlie dai vuès che in lingua farebbe Amelia delle ossa, mi faceva pensare ad una forza bruta capace di spezzare le ossa, piuttosto che all’abilità che tutti le riconoscevano di rimettere a posto le ossa rotte. Nella valle in realtà, Mèlie sostituiva di fatto il reparto di ortopedia. Quando qualcuno, per qualche incidente, si ritrovava con una gamba o un braccio rotto, od anche con una semplice distorsione, prima di pensare all’ospedale, era normale pensare a lei, alla donna capace di ricomporre le ossa, e solo se lei lo suggeriva, ad estremi mali estremi rimedi, si ricorreva alle cure dell’ortopedico.
Qui ci vuole Amelia delle ossa, fu l’unanime sentenza di tutti gli accorsi a constatare cosa m’ero fatto a seguito d’una banale caduta della moto. Io stavo ancora cercando di capire come fosse potuto succedere che, quasi da fermo, la moto mi fosse scivolata via da sotto al sedere, lasciandomi sull’asfalto con un piede che aveva assunto una direzione per nulla naturale rispetto alla gamba. La sorpresa dell’imprevista ed improvvisa caduta, e lo stupore per quel piede divaricato, prendevano tutta la mia attenzione, al punto che non sentivo alcun dolore e le voci delle persone accorse mi giungevano come un brusio indistinto.
Mi resi conto della situazione solo quando dal brusio emerse e si definì nella mia mente la frase: qui ci vuole Amelia delle ossa.
Evidentemente quella posizione innaturale del piede stava a significare che s’era rotto qualcosa, se attorno a me tutti ritenevano indispensabile l’intervento della donna capace di riparare le ossa.
Avrei potuto dire, che preferivo essere portato direttamente in ospedale. Ma alla fin fine anch’io ero pur sempre un uomo della valle, e le leggende della valle riportavano infiniti casi di persone rimaste zoppe o sciancate per non aver voluto ricorrere alle cure di Amelia. Si narrava persino di casi in cui la donna aveva dovuto rompere nuovamente gli arti che erano stati riparati male in ospedale, con terribili sofferenze per i malcapitati. Io male ancora non ne sentivo, ma certamente non mi avrebbe fatto piacere vivere il resto della vita, con quel piede così terribilmente rivolto verso l’esterno
In effetti tutte le volte che in passato avevo sentito i racconti della leggenda d’Amelia, professandomi scettico e moderno allo stesso tempo, avevo sempre sostenuto che se mai (tocca ferro!) mi fosse capitato qualcosa alle ossa, sarei ricorso alle cure d’uno specialista e non d’una fattucchiera. Ma lì, in mezzo alla piccola folla accorsa, mentre ero ancora a terra frastornato ed incapace di rendermi conto di come avessi potuto cadere così stupidamente, sullo scettico vinse l’uomo della valle. ed accettai la proposta d’un amico che s’era offerto di accompagnarmi in macchina dall’Amelia delle ossa.
Mi sentivo come il miscredente che dopo essersi proclamato tale per tutta la vita, capendo d’essere in punto di morte, accetta la proposta della moglie che vuole mandare a chiamare il prete. Si ha un bel credere alla scienza, ma quando non c’è più speranza, anche il tentativo più irrazionale acquista un senso!... E quel piede così fuori posto, per me che fortunatamente non avevo mai avuto modo di fare esperienze ortopediche, era qualcosa che aveva necessità d’un intervento miracoloso, per poter tornare allo stato naturale.
La leggenda di Amelia delle ossa veniva raccontata con mille particolari sulle sue caratteristiche fisiche, su dove viveva, su cosa faceva, su quando e come aveva imparato quella capacità quasi taumaturgica, di rimettere a posto le ossa rotte. Ma, appunto, era una sorta di leggenda... Erano elementi a cui avevo prestato l’attenzione che si dà ai particolari con i quali viene di solito allestita una favola nel racconto d’un narratore fantasioso. Quando l’amico fermò la macchina davanti alla casa di Amelia, mi resi conto che almeno per quanto si riferiva alla casa d’abitazione, la realtà superava ogni immaginazione.
L’impianto era quello d’una casa tipica casa carnica. Due arcate molto basse al piano terreno e poi un sistema complesso di scale e di poggiolo in legno a vista che portavano ai piani superiori, che lasciavano appena intravvedere la muratura di pietra. In mezzo alle altre case rimesse a nuovo ed intonacate sembrava veramente un errore del tempo che s’era dimenticato di cancellare quello strano ricordo di modi di vivere ormai dimenticati. L’interno era ancora più originale, ma non lo sto a descrivere, perchè ciò che vorrei raccontare non è tanto il mio primo incontro con Melie dai vuès, quanto il seguito. Nel mio primo incontro si rivelò pari alla fama. Mi unse il piede con unguenti dagli strani odori e me lo rimise a posto senza quasi farmi provare dolore. Mi raccomandò di tenerlo fasciato a di ritornare dopo un mese perchè voleva controllare se tutto fosse tornato a posto.
Mentre l’assicuravo che avrei fatto tutto secondo le sue raccomandazioni e che sarei tornato per la visita di controllo, mi interruppe per chiedermi: “E’ lei quello che, ho sentito dire, s’interesse dei Celti?”
“Si, sto cercando di raccogliere leggende che in qualche modo li riguardino.”
“Ne parleremo la prossima volta.” E mi lasciò così per un mese intero a pensare di quali originali racconti poteva essere depositaria la vecchia. Pochi giorni prima dello scadere del trentesimo fissato per la visita di controllo, passai per chiederle a che ora le andava bene di ricevermi.
“Alle otto di sera!” Mi disse senza alcun commento.
La strana casa, l’originale vecchia, l’ora insolita per una visita che pur doveva essere una visita medica...confesso che entrai in agitazione nell’attesa del giorno fissato...E ce n’era ben donde!!!
Dentro la casa era costituita da una grande cucina-sala da pranzo con un grande tavolo di noce in mezzo, un grande lavello di pietra sulla parete a sinistra con appesi ancora di secchi “cjaldìers” di rame con i quali si andava a prendere l’acqua alla fontana, quando non c’erano ancora gli acquedotti a portare l’acqua in casa. Di fronte si apriva un vano più stretto con il focolare al centro. Era un focolare di quelli di cui resta memoria solo nei libri, senza la cappa. Sui tre lati girava una panca di legno con lo schienale alto, e in mezzo, su un rialzo di un metro per un metro per l’altezza della panca, ardeva il fuoco. Mancando la cappa il fumo saliva libero per raccogliersi sul soffitto ed uscire da un una apertura che dava direttamente sull’esterno.
Al mio bussare, al mio saluto, aveva risposto con quello che m’era parso più un grugnito che il saluto d’una voce umana. Stava seduta sul lato sinistro del focolare e non s’era mossa per venirmi incontro, per venirmi a salutare. Non mi disse neppure di sedermi. Per togliermi in qualche modo dall’imbarazzo, chiesi se potevo sedermi. Continuava a guardare il fuoco, senza rispondermi. Lo presi per un silenzio assenso e mi sedetti sulla panca di fronte a lei, dall’altra parte del fuoco.
Inquadravo il suo viso poco sopra le fiamme d’un fuoco che ardeva vigoroso, tra il fumo nel quale si scioglieva la fiamma. Era segnato da rughe profonde. I capelli bianchi erano in parte nascosti da un fazzoletto nero che pareva soltanto posato sulla testa, con le estremità piegate di sopra, come usava ancora anche mia nonna. Un grande scialle nero le copriva le spalle e si incrociava davanti coprendole il petto. Era tutta assorta nel guardare il fuoco e sembrava non s’accorgesse neppure che la stavo scrutando, pareva anzi si fosse già quasi dimenticata della mia presenza, tutta presa da chissà quali pensieri. Continuavo a fissarla, quasi volessi fissarmi in testa i particolari della sua immagine, e il fumo che saliva tra me e lei, era come un filtro che dava sempre sfumature nuove e diverse al suo volto.
Sulla sua immagine filtrata attraverso il fumo mi persi come ci si perde nel sonno mentre si sta leggendo un libro. La sua immagine svanì nel fumo e mi ritrovai nel sogno...
Correvamo, lei davanti ed io, dietro sulla mulattiera che da Malga sale attraversando il bosco..Correvamo ma senza muover le gambe, come due ombre trasportate dal vento, sfiorando appena la pedrata. Prima di allora avevo fatto una sola volta quel percorso, per andare in malga ed al Crist di Val. Il sentiero sale ripido, avevo fatto molta facita. Ora invece come volando sul sentiero, senza fare alcuna fatica stavo rifacendo con la velocità del lampo lo stesso percorso. Ed in un baleno entrai con lei che mi faceva da guida per la seconda volta nella valle dove c’è malga Val. La volta precedente mi aveva colpito la malga realizzata in blocchi di marmo rosso, squadrati alla perfezione. Ma ora mi pareva che la malga fosse sparita .... Tutta la conca ai piedi del monte Verzegnis, era illuminata da uno strano chiarore come se fosse una notte di luna piena, o meglio come nel chiarore lattiginoso del buio che precede un grande temporale. C’era una folle enorme che come in una teatro riempiva tutta la valle ed anche i pascoli in alto, fino sotto alle rocce. Come quando a primavera un prato si riempie di fiori sì che non si riesce più a vedere il verde del prato. Ma erano fiori senza colore, d’un bianco sporco, come gigli appassiti, petali sparsi alla rinfusa prima che marcissero del tutto.
La mia guida non mi fece scendere in mezzo a quelle figure evanescenti, ma prese subito a salire per il sentiero che porta alla grotta del Crist. Già nella mia gita precedente avevo visitato quella grotta. Situata in alto sulla parete all’ingresso della valle, prende il nome da un crocefisso che è stato scolpito nella roccia. Nel secolo scorso quando si viveva di agricoltura, avevo letta che era stata più volte meta di pellegrinaggi per implorare la pioggia, a ristorare i campi dove il sole stava bruciando i già poveri raccolti di granoturco e patate. Ci arrivammo in un attimo come due refoli di nebbia che il vento ha staccato dalla nebbia che riempie la valle. E da lassù la valle sembrava veramente ricoperta da un trine di nebbia...
C’era qualcuno nella grotta che ci attendeva, come se il nostro arrivo fosse stato preannunciato, come se la mia guida fosse attesa, perchè aveva un ruolo nella scena che era stata preparata nella valle e che aveva fatto accorrere tutte quelle presenze. Non mi presentò, come se anche la mia presenza fosse scontata e normale. Cercai l’immagine del Cristo che avevo visto nella mia precedente visita ma non c’era. L’avrei dovuto vedere, perchè al centro della grotta era acceso un grande fuoco come quello che avevo appena visto nella casa di Amelia. Le lingue di fuoco si riflettevano sulle pareti rischiarandole e dando l’impressione che si muovessero. Non era più una grotta ma qualcosa di vivo come se la montagna fosse un enorme essere vivente, una donna gigantesca, e la grotta fosse diventata la sua vulva.
Senza avere il coraggio di chiederle niente, mi voltai verso Amelia, cercando spiegazioni di ciò che mi stava accadendo. Non so se per rispondermi o perchè faceva parte del cerimoniale intonò una nenia lugubre come un “dies irae”, e la valle gli faceva eco come se tutte le presenze che avevo intuito più che visto, popolare la valle, rispondessero in coro.
Fuoco dio Lug-Beleno,
penetra la Madre terra,
falla vibrare con il tuo amore
perchè torni a generare,
entri in lei l’umore del vostro incontro,
e la bagni perchè riviva e dia frutto.
Come se mi fossi addormentato su un libro ed avessi sognato del libro stesso, mi risvegliai, guardando al fuoco nella casa di Amelia, come se fosse lo stesso fuoco della grotta del Crist. Mi guardai attorno, sorpreso nel non vederla dove l’avevo lasciata, sulla panca di fronte. Avrei dovuto chiamarla, avrei dovuto salutarla. Invece ricordando il sogno, mi prese la paura. Uscii in fretta ed in silenzio...Sicuro d’una cosa sola che non mi sarei fatto più vedere in quella casa, da quella strega, neppure nella malaugurata ipotesi d’una nuova frattura alle ossa...
Ho ripensato poi più volte a ciò che mi era capitato chiedendomi se anch’io con Amelia aveva fatto un “viaggio dell’anima” come sono capaci di fare gli uomini nati con la camicia. Non so. Forse lei era capace di un tanto, ed aveva usato i suoi poteri perchè la potessi seguire. Perchè non mi aveva voluto spiegare niente? Forse perchè era evidente la simbologia di ciò che mi aveva fatto vivere.
Quando il mio amico Enore mi raccontava di quando bambino la mamma lo portava in processione a pregare il Crist di Val, inconsciamente lo portava a pregare perchè Dio rendesse fertile la natura. Era solo cambiata la prospettiva. Si chiedeva al Dio del cielo di far piovere “Rorate caeli desuper ed nubes pluant iustum” “Stillate cieli dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia” mi diceva il mio amico che si usava cantare. Confondendo il Giusto o la giustizia del canto d’avvento, che riporta le parole del profeta Isaia, con la pioggia. Ma in fondo era proprio un atto di giustizia che si chiedeva, chiedendo che non andasse sprecato tutto il lavoro fatto a primavera per dar da mangiare ai figli.
I Celti invece chiedevano che fosse il Dio dall’interno a fecondare la natura. Forse Amelia era una sciamana e aveva voluto portarmi a toccare con mano la continuità tra la religiosità dei Celti e quella cristiana, a farmi capire come molta delle religiosità celtica sia stata in qualche modo incorporata, prendendo forme e simboli cristiani, nel substrato culturale del popolo dei Carni.

lunedì 15 dicembre 2008

L'addio di Pilato a Saulo.

Commentando il mio romanzo "La verità ci rende liberi" che ha come protagonista Pilato un internauta mi ha consigliato la lettura del Maestro e Margherita di Bulgakov. Il suggerimento è intelligente, e lo ringrazio, ma l'avevo preceduto, al punto di inserire una pagina copiata da Bulgakov nel mio romanzo (denunciando il fatto in nota). Riporto per lui il brano del romanzo, invitandolo a scoprire dove inzia e finisce la citazione di Bulgakov.
Da "La verità ci rende liberi" cap. 23 - L'addio a Pilato.

Ma se Pilato aveva convocato d’urgenza Saulo prima di partire, non lo aveva fatto per discutere su come il nuovo discepolo aveva intenzione di impostare la diffusione del Vangelo. Prima di partire avrebbe voluto per l’ultima volta cercare di capire l’essenza di quel messaggio, cercare di darsi una risposta alla domanda che gli si era fissata nella mente da quella maledetta sera: “Che cosa è la verità”.Era venuto malvolentieri in Palestina. Aveva considerato l’incarico una sorta di punizione, se non di condanna. Aveva vissuto quegli anni nella speranza e nell’attesa d’un nuovo incarico, ed ora che l’incarico era arrivato, gli dispiaceva quasi di dover partire.Alle volte girando nel deserto, la veste si impiglia negli arbusti, dovendo proseguire, la veste si strappa e in quel brandello di veste è come se restasse qualcosa di noi. Quella domanda senza risposta era come un brandello di sé, rimasto nel deserto della Palestina. Anche se fosse finito a governare tra le nevi della Britannia, quella domanda rimasta impigliata tra le spine della Palestina, l’avrebbe inseguito fino alla morte. A meno che non fosse riuscito a darsi una risposta.Prima dell’arrivo di Saulo c’era stato un violento temporale, ma adesso il sole era tornato su Gerusalemme e, prima di andare ad affogare nel Mediterraneo inviava raggi di addio alla città odiata dal governatore e indorava i gradini dell’ingresso del palazzo. La fontana del cortile si era completamente ripresa e cantava a piena voce, i colombi erano ritornati sulla sabbia del cortile, tubavano, saltavano i rami rotti dalla furia del temporale, beccavano qualcosa nella sabbia bagnata. Sul tavolo preparato sotto il fresco del porticato, fumava un piatto di carne.“Ma cosa vuoi che ti dica che non ti abbia già detto?” disse Saulo avvicinandosi al tavolo assieme a Pilato.“Nulla finchè non ti sarai seduto ed avrai bevuto un po’ di vino,” rispose gentilmente Pilato, sdraiandosi, e indicò l’altro letto. Saulo si sdraiò e un servo gli versò del denso vino rosso. Un altro servo, chinandosi con cautela sulla spalla di Pilato, riempì la coppa del governatore. Poi questi allontanò i due servi con un gesto.Mentre Saulo mangiava e beveva, Pilato, sorseggiando il vino lo guardava attraverso le palpebre socchiuse. Avrebbe voluto entrare nella sua mente, capire che cosa veramente intendeva quando parlava d’essere stato illuminato.Saulo non rifiutò neppure una seconda coppa di vino, inghiottì con evidente soddisfazione un paio di ostriche, assaggiò la verdura lessa, mangiò un pezzo di carne. Saziatosi, lodò il vino:“Ottimo vitigno, governatore, ma non è Falerno?”“Cecubo di trenta anni,” replicò affabile Pilato.Saulo si mise una mano sul cuore, rifiutò di mangiare altro, affermò di essere sazio. Allora Pilato riempì la propria coppa, l’ospite lo imitò. Entrambi rovesciarono un po’ di vino nel vassoio e il procuratore disse a voce alta, alzando la coppa:“Per noi, per te, Cesare, padre dei romani, il più caro e il più buono degli uomini!”Dopo queste parole vuotarono la coppa e gli schiavi africani tolsero le pietanze dal tavolo lasciandovi la frutta e le caraffe. Di nuovo il procuratore li allontanò con un gesto, e rimase solo con il suo ospite nel porticato del palazzo. Solo allora Saulo notò che sul tavolo c’era una terza coppa.“Per chi è?” chiese incuriosito, immaginando che dovesse arrivare qualcun altro.“Per nessuno,” rispose serio Pilato. “E’ questa coppa il motivo per cui ti ho fatto chiamare. Non te ne avevo mai parlato. Ma forse non è un caso che sia qui… Forse la verità è come un mosaico, fatto di tante piastrine in se insignificanti, ma che ricomposte formano una figura. Me l’ha data Pietro uno dei seguaci di Jeshù, arrestato con lui in quella famosa notte. Ho visto che ci teneva, ma pur di salvarsi quella notte mi avrebbe consegnato anche sua madre. Mi ha raccontato che era la coppa nella quale Jeshù aveva bevuto la sera prima, accompagnando il gesto con delle parole misteriose.”
[1] La scena è una citazione-copia dal Maestro e Margherita di Bulgakov

mercoledì 10 dicembre 2008

La fine dei Carni.


Continuano a dirmi che le storie che scrivo sui Celti in Carnia me le sto inventando. Giuro che non è vero, che parto sempre da qualche documento. Ma nessuno mi crede. Non ho quindi grandi speranze che mi si presti fede su questo importante ritrovamento che ho fatto in una vecchia casa di Formeaso, o per l’esattezza in un rustico adiacente. Il proprietario aveva incaricato una Ditta di provvedere a rifondare l’edificio. Gli operai scavando nello scantinato, solo per caso riuscirono ad evitare un grave incidente sul lavoro. D’un tratto un pezzo del pavimento era crollato, mettendo alla luce l’esistenza di un altro piano interrato. Passato lo spavento per il rischio evitato di finire di sotto, gli operai hanno urgentemente l’impresario. Questi pensò che si dovesse andar sotto a vedere, non fosse altro perché si doveva pensare ad una variante per rimediare all’imprevisto. Si fece calare personalmente. “E’ solo una piccola grotta” disse da laggiù. “La si può riempire con una betoniera di calcestruzzo e il problema è subito risolto, senza neppure scomodare l’ingegnere direttore dei lavori”. Alla sera avvertì della cosa il proprietario, spiegandogli di come era stato efficiente nel risolvere l’imprevisto…”s’immagini se l’avesse saputo la Soprintendenza!..”Ho comunque controllato, prima di riempirla, se c’era qualcosa nella grotta, ma ho trovato solo questo recipiente arruginito che comunque le ho recuperato”.
Il mio amico s’era così trovato tra le mani una sorta di piccolo secchio chiuso con il coperchio. Avrebbe voluto inveire contro l’impresario che preso quella stupida decisione senza informarlo. Ma se la grotta era già stata riempita di calcestruzzo non c’era più nulla da fare. Non senza fatica riuscì ad aprire il secchio e si trovò tra le mani un rotolo di pergamena. Quando mi chiamò a vedere il reperto gli dissi che avrebbe dovuto consegnarlo alla Soprintendenza. Convenni con lui che sarebbe però scoppiato un casino. “Roba da finire in galera, per uno stupido di impresario!…”
Mi lasciò la pergamena per alcuni giorni e riuscii a trascriverla integralmente. Era scritta in latino e vi si parlava della conquista definitiva della Valle del But da parte dei Romani e della definitiva sottomissione dei Celti al potere di Roma. E’ vero che ho fatto l’insegnante di latino e quindi avrei anche potuto tradurla alla lettera, ma a me sono sempre piaciute le traduzioni libere nelle quali il traduttore reinterpreta il testo, mettendoci anche qualcosa di suo, e così ho reinterpretato liberamente anche la pergamena di Formeaso. Non ho competenze sufficienti per stabilire a che epoca risalisse, ma giurerei che è stata scritta all’epoca dei fatti che racconta, e quindi al secondo secolo dopo Cristo.
Racconto di come i Carni si sono infine sottomessi al potere di Roma. Così titolava la pergamena, e si capisce subito che è un racconto di parte, fatto da un carnico che non può non riconoscere la fine dell’autonomia del Carni, ma che la vuol far passare quasi come una decisione dei Carni, piuttosto che il risultato di una sconfitta militare. Da come sono andate le cose, almeno nel suo racconto, non credo abbia tutti i torti.
E’ vero che il trionfo per la vittoria sui Gallo-Carni l’aveva celebrato il console Emilio Scauro nel a.C. E’ vero che già da quei tempi la valle del But era stata occupata dai Romani che avevano costituito un loro avamposto tra Zuglio e Formeaso per presidiare la strada che portava al passo di Monte Croce. Ma è anche vero che la conquista si limitava al fondovalle e che sulle montagne della Carnia continuavano ad abitare indisturbati i Carni. Pare accertato anzi che tra i due popolo per un diversi secoli si fosse stabilita una sorta di pacifica convivenza.
Ci fu un periodo quindi nel quale la Carnia era divisa in due parti: quella romana nel fondovalle e la Carnia libera dei Celti sulle montagne. Cerano due sistemi di viabilità, una romana di fondovalle, ed una celtica in quota. E’ stato evidentemente il periodo più importante per la storia della Carnia, quello nel quale, come in un crogiuolo si sono fuse due civiltà, quella celtica e quella romana, per dare vita ad una civiltà ed una cultura nuova, assolutamente originale, derivata dall’incrocio e dalla fusione lenta tra le due culture precedenti così profondamente diverse.
Ma quando nella prima metà del Trecento, Costantino decise di creare un nuovo collante per l’impero facendo della religione cristiana una religione di stato, si pose il problema di unificare sotto lo stesso Dio tutti i popoli dei territori dell’Impero romano. Anche in Carnia si pose quindi il problema di conquistare-convertire i Carni che sulle montagne continuavano ad adorare Beleno.
Nel 370 l’imperatore Valentiniano che si era dedicato con energia alla sistemazione dei confini, volendo rafforzare il collegamento con il Norico, decise di intervenire da un lato migliorando la viabilità nella valle del But, dall’altro sottomettendo tutto il territorio. Della scelta di migliorare la viabilità resta traccia su una lapide a Monte Croce Carnico che ricorda gli interventi fatti nel 373 dal curatore Apinio Programmatio che aveva aperto nuovi tratti di strada. Della scelta di procedere alla conquista definitiva dà atto la nostra pergamena, che trova conferma nella storia ufficiale dell’Imperatore Valente (364-375) che morì per un colpo apoplettico il 18 novembre 375 a Brigezio (Szony in Ungheria) mentre era impegnato a difendere dai Quadi iconfini orientali dell’Impero..
Al mese di agosto dello stesso anno della sua morte risalgono le vicende narrate nella pergamena. Transitando per la valle con l’esercito per andare in Ungheria aveva infatti deciso di fermarsi qualche giorno a Julium Carnicum per fare una spedizione sulla montagne e ottenere la definitiva sottomissione dei Carni. Erano proprio i giorni in cui i Carni festeggiavano la festa di Lugnasad. Come si racconta anche nel libro” I Celti ritornano”, i Carni erano soliti fare festa tutti assieme ogni anno in una località diversa. Quell’anno la festa doveva tenersi nella valle del Ciaroj.
Valentiniano si accampò con le sue legioni a Julium Carnicum e pensò di approfittare del fatto che per la festa di mezza estate si radunavano tutti i capi proprio nella valle di fronte. Gli sarebbe stato facile catturarli per farli prigionieri e conquistare definitivamente la Carnia.
Nell’attesa diede anche ai suoi legionari la libertà di darsi alle feste in onore di Bacco.
A Julium Carnicum si festeggiava Bacco con il vino che le truppe romane avevano al seguito, nella valle del Cjaroi si festeggiava Beleno con una infinita varietà di idromele!
I Celti iniziarono i festeggiamenti già il venerdì, giornata dedicata alla religione ed alla cultura e alla sera mentre impazzavano le musiche celtiche in ogni villaggio della valle, dai luoghi prominenti della valle venivano lanciate le “cidules” infuocate accompagnate da versi in onore di Beleno.
Il sabato la festa dilagò e la valle fu tutta piena di suoni e di colori. Nella notte in tutti i paesi, ma anche nei casolari sparsi e fino in alto negli alpeggi, si accesero i falò incendiando le mede costruite con le fascine che avevano meravigliato a suo tempo anche Cesare.
La domenica secondo la tradizione scesero tutti ad Arta a purificarsi alla fonte d’acqua pudia. Fu allora che Valentiniano mosse l’esercito da Julium Carnicum ad Arta.
Praticamente non ci fu scontro. I legionari si mescolarono ai Celti, i capi dei Celti si incontrarono con l’imperatore e presero atto che non ci potevano essere due Carnie una del fondovalle ed una delle montagne, ed accettarono di sottomettersi alla dominazione romana.