lunedì 2 giugno 2008

L'uomo che parlava alle Agane.


Lella faceva la ricercatrice all’Università di Udine, ad antropologia, o in qualche altro simile corso di laurea. Era sta incaricata di una ricerca sulle Agane in Carnia. Doveva indagare sul perché nella Carnia, più che nel resto della montagna friulana, fosse venuto meno nella tradizione popolare, il ricordo delle Agane. Come si sa, questi spiriti dell’acqua sono noti in tutta la montagna con il nome di Agane, Aguane, Anguane, Aganis, Gane, Vivane ed altro, e sono descritti in modi molto diversi, alle volte come bellissime fate altre come bruttissime streghe dalle mammelle a penzoloni. Nella Valcellina la loro memoria è rimasta fino a dare il nome all’Ecomuseo della valle. Nella Valcanale, ed in particolare a Chiusaforte, si ricordano associate a varie località. Tra i ladini delle Dolomiti, sono molto diffuse le leggende sulle anguane e proprio con una Anguana che adotta una bambina, prende inizio la saga dei Fanes, la saga sull’origine dei ladini. A livello nazionale l’Anguana ha dato il nome al Museo dell’uomo e della montagna istituito dall’Istituto Nazionale di Ricerca sulla montagna.
Questi dati Lella se l’era scritti nelle premesse. Aveva anche definito che il passaggio da fate a streghe fosse la conseguenza degli interventi dell’Inquisizione che aveva cercato di demonizzare le tradizioni legate alla visione panteistica d’una natura viva, popolata da spiriti che sapevano entrare in relazione con gli uomini. Ma il suo compito vero era quello di fare una ricerca sul campo, verificando se in qualche paese della Carnia, si parlava ancora delle agane. Aveva visitato Vinaio, con l’idea che Gans fosse una ulteriore variazione del nome. Ma come s’è già avuto modo di vedere a proposito dei Gans di Trava, questi esseri non potevano essere confusi con ninfe d’acqua.
Comunque la visita a Vinaio non era stata vana, da una vecchia del paese, aveva avuto l’informazione che nella borgata di Dolàces c’era un vecchio pastore, Meni di Flèch che raccontava storie di Agane.
Nella speranza di aver trovato finalmente una pista da seguire, il giorno dopo salì con il fuoristrada fino in Malga Corce e poi raggiunse a piedi Dolaces. Oggi la borgata è disabitata, ma già al momento della visita di Lella tutti gli abitanti avevano lasciato le loro case per trasferirsi più a valle, ad eccezione di uno, appunto Meni di Flech che continuava a vivere come un eremita, deciso a non abbandonare il suo paese “se non nella cassa da morto”.
Si era ai primi di maggio, e la primavera era finalmente arrivata anche nella borgata a 1300 m. sul mare, alle falde del monte Dauda, esposta a nord, abitata quando per sopravvivere non si poteva guardare troppo per il sottile, ed uno spiazzo coltivabile, anche se troppo in alto e con cattiva esposizione, poteva andar bene per ricavare l’indispensabile alla vita di una famiglia.
Meni di Flech stava crogiolandosi al primo tiepido sole, seduto sulla panca di legno a fianco dell’ingresso della sua casa. Aveva gli occhi aperti eppure Lella aveva l’impressione che non l’avesse vista, pur essendo già arrivata a pochi metri da lui. L’avevano avvertita a Vinaio che si trattava di una persona originale. E si poteva ben dire originale il vecchio che le stava davanti, con quel cranio lucido come una palla di biliardo al quale faceva da contrappunto una barba bianca, folta e non curata. In mezzo un viso bruciato dal sole, segnato da rughe profonde, scavate dal tempo, dal quale emergevano due occhi azzurri fissi a guardare nel vuoto. Ma quel non essere vista, quegli occhi che guardavano e non vedevano, come se anche gli occhi fossero assorti a guardare nel pensiero, era qualcosa di troppo originale...
Pensò che fosse pazzo, e per un momento esitò… Per una giovane donna, non era certo consigliabile l’intrattenersi sola con un pazzo, tra le case deserte d’un paese abbandonato in mezzo alla montagna. Ma la curiosità della donna e della ricercatrice vinse sui pur legittimi timori.
“Buongiorno!” lo salutò fermandosi a due passi da lui.
Al saluto parve svegliarsi, e la guardò stupito come chi si sveglia dopo un brutto sogno a fa fatica a riconoscersi nella realtà che lo circonda. Tra quelle case ormai pericolanti non era certo abituato ad aprire gli occhi su una bella ragazza, e infatti rispose al saluto con un: “che ci fa lei qui?” che sembrava più a un se ne vada, piuttosto che ad un s’accomodi.
“Non la voglio importunare!” volle precisare Lella per scusarsi in anticipo, ancora meno sicura d’aver fatto bene a svegliarlo. “Se vuole me ne vado subito!”
“Ma allora perché è venuta?”
“Per motivi di studio, devo incontrare persone che conoscono delle leggende!”
Rise divertito. E Lella si tranquillizzò, forse la persona non era poi così poco raccomandabile come la faccia la faceva apparire. A volte, anche tra gli uomini, non c’è corrispondenza tra contenitore e contenuto...
“Ai miei tempi si studiavano le tabelline, non le leggende”, disse ridendo.
“Sa, è un po’ tutto cambiato!” commentò lei cercando di ingraziarselo.
“A chi lo dice! Ma che leggende le interessano?”
“Quelle sulle Agane.”
Si rabbuiò come se quella parola fosse stata una provocazione nei suoi confronti: “Le Agane, non sono una leggenda”, disse con forza. “Si sono ritirate ad abitare sulla cima del monte Dauda” e indicò con la mano la montagna in alto, alle cui pendici si trovava la borgata
Per una che cercava si sapere qualcosa sulle Agane, trovarsi con uno che era convinto esistessero ancora, era una vera fortuna, Lella si vedeva già con tra le mani una ricerca degna di pubblicazione.
“Come fa a sapere che abitano ancora sul Dauda”
“Lo testimoniano i ruderi della malga di Chiàs di sopra”
“Ma cosa hanno a che fare i ruderi di una malga con le Agane?”
La fece sedere sulla panca vicino a se, come se fosse una sua nipote, e prese a raccontarle la breve storia della malga.
Devi sapere che il Daùda è una montagna sacra!
Alle sue pendici, dalla parte di Zuglio, c’è la malga che prende il nome dal monte, da questa c’è la malga Chiàs. Ma sono due malghe di mezza quota, la cima della montagna, non è mai stata utilizzata a pascolo perché è la casa delle Agane. Ai miei tempi tutti i pastori lo sapevano e nessuno avrebbe spinto le sue bestie fin lassù. Anche perché, a conferma che si trattasse d’una montagna sacra, veniva proprio dalle bestie che si rifiutavano di salire sui pascoli della cima.
Lo sapeva anche suo nonno, continuò a raccontare Meni, ma era uno uomo senza Dio che per qualche soldo in più, avrebbe sfidato il diavolo all’inferno. Pensò che su quei pascoli avrebbe potuto allevare un bel numero di capi di bestiame, e decise di costruire una malga in quota, per poter utilizzare i pascoli fin ad allora inutilizzati. Venne così costruita la malga di Chiàs di sopra.
In un primo momento ebbe qualche difficoltà a trovare dei pastori disposti a gestire la malga, ma alla fine trovò qualcuno, come lui senza timor di Dio, o costretto dal bisogno a non curarsi della voce popolare che considerava la montagna riservata alle Agane. Ma nessuno di questi pastori resistette in malga più di qualche giorno. Come le stelle in cielo si accendono soltanto al far della notte, così sulla montagna al calare delle ombre della notte s’accendevano le voci delle Agane. “E’ come se la montagna fosse piena di noci, e nella notte un gran numero di persone, si mettesse a mescolarle” raccontavano i pastori abbandonando la malga. “C’è un rumore assordante di noci mescolate, che impedisce di dormire”. I più coraggiosi avevano anche cercato di capire da dove venisse quel chiasso di noci rimestate. Ma se andavi a destra lo sentivi venire da sinistra, e viceversa. Era come se tutta la montagna fosse piena di grilli, che invece del solito “cri, cri”, emettevano un assordante “cra, cra”. “Son le Agane!” si convincevano alla fine anche i pastori meno portati a credere alle leggende, e abbandonavano la malga.
Il nonno era evidentemente disperato. Aveva impegnato tutti i suoi soldi nella costruzione della malga. Ed ora non poteva avere nessun ritorno economico dall’investimento, perché non si trovavano pastori per gestirla…Disperato, pensò di utilizzare come pastore Bepi Scivilott, quello che si direbbe lo scemo del villaggio.
Bepi era un ragazzo al quale il cervello gli era mancato sin dalla nascita, ma poi ancora bambino era rimasto senza genitori, e questo fatto non aveva certo migliorato il suo sviluppo…
Dormiva nella casa che gli avevano lasciato i genitori, ma viveva di fatto nella borgata, facendosi ospitare a caso, ora da una famiglia ora da un’altra. “Qualche paese alleva il maiale di S.Antonio, noi allevavamo Bepi Scivilott”. Il soprannome che in italiano potrebbe essere tradotto con “zufolo” gli era stato dato perché sapeva trarre delle melodie eccezionali dagli zufoli che si costruiva da solo ricavandoli dai rami di giàtul (salica). Tutti in paese lo aiutavano, nessuno avrebbe pensato di poter approfittare del suo ritardo mentale. Il nonno si! Era un uomo senza scrupoli. Lo portò in malga e lo lasciò a dormire da solo. Si aspettava di vederselo rientrare spaventato in paese già nella notte, e invece all’alba del giorno dopo lo trovò felice, e per come riusciva a farsi capire, deciso a continuare a vivere da solo in malga. Meglio di così! Il nonno non si preoccupò di capire. Vide la possibilità del guadagno e gli affidò un gregge di capre. E le bestie che non avevano mai voluto salire ai pascoli del Dauda, con lui presero a salire fin sulla vetta della montagna. Anzi nelle tiepide sere di agosto Scivilott si fermava a dormire con le sue bestie sotto alcuni faggi cresciuti proprio sulla cima.
E quel rumore di noci rimescolate? Mah!. Scivilott diceva che era musica. Sia di giorno che di notte lui intonava melodie con il suo zufolo, e la montagna rispondeva trasformandosi in una fantastica orchestra. A volte i pastori di Malga Meledis lo sentivano anche cantare. Il suo canto che sembrava stonato e sgradevole agli altri uomini, evidentemente piaceva alle Agane. Era come se le sue corde vocali suonassero una musica su un registro diverso da quello degli uomini, che però era il registro delle Agane. Era ritardato nel parlare con gli altri esseri umani, ma riusciva a entrare in perfetta sintonia con le Agane .
Ma quando morì Scivilott, e purtroppo per lui e per il nonno, morì giovane, non si trovò più nessuno che sapesse condurre le bestie al pascolo sulla montagna delle Agane. Nessuno che sapesse comunicare con loro, facendo loro accettare il brucare dell’erba delle bestie. Le capre non salirono più sulla montagna. La malga Chias di sopra non utilizzata si ridusse presto a un rudere.
“Se vuoi ti accompagno a vedere i resti!” concluse il vecchio. “Così avrai la conferma dell’esistenza delle Agane”
“Grazie, sarà per un'altra volta!” gli rispose Lella e non volle offenderlo spiegandogli che non aveva senso la relazione diretta che lui faceva tra la malga ridotta ad un rudere, e la esistenza delle Agane sul monte Dauda. Se anche fosse vero che non vi pascolano le capre, potrebbe essere soltanto perché, per qualche caratteristica del terreno, ritengono immangiabile quell’erba.
La guardò con lo sguardo penetrante che gli aveva osservato arrivando. Come allora le era parso che guardasse dentro ai suoi pensieri, ora ebbe la sensazione che leggesse dentro ai pensieri di lei. Scosse la barba incolta in segno di disapprovazione e le disse:
“Se passassi di qui qualche notte sentiresti suonare il violino. Non sono gli spiriti. Son io che suono. Alle volte…Lo suonavo il violino, da giovane, nelle feste da ballo a Vinaio o a Lauco nella Casa del popolo. Ancora qualche volta mi esercito… Lo suono così da dilettante autodidatta. Dalle suo corde si riesce a far uscire un suono d’una delicatezza infinita, dalle nostre corde vocali sappiamo solo far uscire suoni e parole sgradevoli di inimicizia e di odio. Se le sapessimo suonare come si suona il violino…E’ evidente che suonate così, le nostre corde vocali, non ci possono mettere in relazione con l’ultramondo. A Scivilott che sapeva suonare male le sue corde vocali con la tecnica degli uomini, forse madre natura aveva dato il dono di suonarle con la tecnica delle fate, la tecnica del violino. Sapeva pur suonare lo zufolo meglio di qualsiasi altro uomo!..
Per questo poteva parlare con le Agane. E se lui ci parlava, è vero che esistono!!!…”

mercoledì 30 aprile 2008

La valle del tempo.

L’ultima volta che sono stato a Pesariis ho avuto l’avventura d’un incontro davvero fuori dal comune. Il bello è che quando ho chiesto al mio amico Carlo che abita lì, di darmi dei ragguagli sul personaggio che avevo incontrato, mi ha detto che non conosceva nessuna persona che corrispondesse alle caratteristiche che gli andavo descrivendo.

“Non crederai che mi sto inventando gli incontri!” obiettai.

“Io non obietto nulla!” ribattè Carlo. “Ma posso assicurarti che in tutta la valle Pesarina non esiste una persona con i lunghi capelli bianchi che scendono fin sulle spalle e con una lunga barba bianca che arriva fino alla cintola del calzoni, come descrivi la persona che dici di aver visto…”.

“Eppure non posso aver sognato, perché stavo camminando per il paese…”

Stavo appunto camminando per il paese di Pesariis, un giorno di fine aprile, aspettando Delio che mi avrebbe accompagnato in visita agli originali orologi che sono stati realizzati negli angoli più caratteristici del paese. Piuttosto che una giornata di inizio primavera sembrava una giornata d’autunno inoltrato. Piovigginava. Sul paese si aggiravano nuvole nere, pesanti di pioggia, dalle quali si sfilacciavano refoli di nebbia che si insinuavano nelle strette viuzze. Mi guardavo attorno, ammirato per come era stato sistemato il paese, ripristinando sulle strade l’acciottolato il “codolàt” d’un tempo.

Quando fui davanti a casa Bruseschi, che come diceva il depliant che stavo leggendo “era stata la residenza di una delle più autorevoli famiglie del paese, fin dal XV secolo, come testimoniano documenti dell’archivio parrocchiale” vidi con sorpresa che era aperta. “Forse qualcuno ci sta facendo dei lavori” pensai, e non resistetti al desiderio di infilarmi per l’uscio socchiuso, per visitare l’interno della casa.

“E’ permesso?” chiesi a voce alta.

Nessuno mi rispose. A meno che non si dovesse considerare una risposta il suono d’una pendola che da una delle stanze, diffuse per le stanze l’eco di quattro rintocchi, a ricordarmi che era l’ora per l’appuntamento per il quale mi ero recato a Pesariis. “Faccio in fretta, ed arrivo subito!” dissi tra me e me, come se l’amico che mi stava aspettando avesse potuto sentire. Mi affrettai, pensando ad uno sguardo molto veloce e superfiale a quella tipica casa carnica. Ma quando fui nella grande cucina, dovetti fermarmi perché c’era qualcuno seduto sulla panca attorno al focolare. In un primo momento pensai si trattasse d’una ricostruzione, come quelle che si trovano nel Museo Carnico di Tolmezzo, ma poi mi parve si muovesse…

“Mi scusi!” dissi, “Ho trovato aperto ed ho pensato di poter fare una visita veloce…Ho chiesto permesso, ma non mi aveva risposto nessuno…

“E chi ti dovrebbe dare il permesso?..” disse il vecchio, confermando con la voce, che avevo visto giusto, che non si trattava d’un figurante ricostruito…

Sul lato destro del focolare era infatti seduto un vecchio di grande statura. Per i lunghi capelli bianchi e la lunga barba bianca, mi faceva pensare ad una immagine di Cristo in qualche quadro d’autore, anche se non riuscivo a definire quale. Ma il viso era rinsecchito, segnato da profonde rughe, le mani lunghe e affusolate distese sulle ginocchia, ricordavano quelle d’uno scheletro. Era un vecchio…molto vecchio… Vestito con gli abiti da festa come si vedono i ritratti nelle fotografie del primo novecento… Ai piedi, che poggiava sui bordi del focolare, calzava degli scapets nuovi, molto ricamati… Li notai perché mi parevano stonati, mi parevano calzature da donna, che non si intonavano con l’abito e soprattutto con l’età…

Ma più che l’abbigliamento mi aveva stupito la battuta alla quale non sapevo cosa replicare… Chi mi doveva dare il permesso? Visto che mi ero intrufolato nella casa senza permesso, qualcuno che c’era, avrebbe dovuto dirmi se potevo fermarmi, o se dovevo uscire…

“Sa. La curiosità. Ho trovato aperto…” ripetei per chiedere scusa di nuovo.

“Sei nella valle del tempo!” disse il vecchio con la cadenza e l’importanza di chi sta recitando una sentenza. “E il tempo non chiede il permesso a nessuno…”

Mi ricordai che in valle a Pradumli c’era un famoso centro di anarchici. Pensai che il vecchio, con quelle battute originali sul tempo, potesse essere l’ultimo degli anarchici…

Certo che il tempo scorre senza chiedere il permesso a nessuno. “Ruit ora”, dicevano i latini e in quel “ruit” più che l’idea dello scorrere c’è quella del rotolare irrefrenabile, del rovinare inarrestabile…Ma perchè gli avrei dovuto spiegare queste cose al vecchio?..

Comunque, senza aspettarsi nessuna spiegazione da me, mi chiese invece se sapevo perché la valle Pesarina si chiamasse la valle del tempo.

“Essendo famosa perché vi si fabbricano gli orologi” risposi, presumo che qualcuno abbia collegato l’idea dell’orologio con quella del tempo, e vi abbia costruito un marchio intelligente perché molto originale ed evocativo. Mi piace l’idea della valle del tempo!...

“Mi fa piacere che ti piaccia!” recitò di nuovo il vecchio, con il tono di un attore tragico. “Ma la spiegazione è un'altra. Si chiama la valle del tempo perché è qui che è stato inventato il tempo…”

“Altro che anarchico!” pensai. “Questo è proprio fuggito da qualche manicomio…”

“Siediti!”, mi disse deciso. Maledicendo la curiosità che mi aveva fatto entrare in quella casa, e sicuro di avere a che fare con un pazzo che, come si sa, è sempre meglio assecondare… mi sedetti dall’altra parte del focolare, sulla panca opposta alla sua, ed ascoltai, prima preoccupato poi sempre più meravigliato ed incuriosito questa strana storia sugli sbilf della valle Pesarina.

Il vecchio prese a dire che come in Irlanda tutti sanno che il mondo dei piccoli uomini esisteva prima del mondo degli uomini, così in Carnia si dovrebbe sapere che il mondo degli Sbilf era precedente a quello degli uomini. Io non avevo nulla da obiettare, convinto come sono che il mondo degli sbilf sia il mondo delle favole, cioè il mondo nel quale tutto è possibile. Il vecchio però mi parlava sicuro di riferirsi a delle storie vere…e quindi mi guardai bene dal dirgli che io le ritenevo delle favole…chissà poi comunque quale sarà la verità?...

Come la storia degli uomini inizia con la Genesi, allo stesso modo la storia degli sbilfs ha una sua genesi… All’inizio dei tempi…gli sbilfs vivevano nella valle senza tempo…S’alzava il sole per segnare l’inizio d’un nuovo giorno, calava la notte e segnarne la fine, ma i giorni si succedevano uguali e senza fine… Se non c’è una fine sulla quale misurare il tempo, non c’è neppure il tempo…

Gli sbilf vivevano in completa libertà e quindi in completa anarchia, con la sola regola che la libertà di ognuno deve avere il limite, unico ed insuperabile, nella libertà dell’altro…Nessuno era proprietario di qualcosa, perché tutti erano proprietari di tutto... Tutti si volevano bene, perché tutti rispettavano il comandamento di Dio che aveva imposto di non mangiare dall’albero dell’amore, posto al centro del giardino dell’Eden. Finchè arrivò la sbilfa di Eva che non rispettò il comandamento di Dio e volle cogliere il frutto dell’albero dell’amore. Ma l’amore implica il rapporto esclusivo con la persona amata, il desiderio esclusivo di vederla, il sospirare impaziente nell’attesa… L’incontro d’amore divenne un fine, e il fine originò il tempo…Lo sbilf Adamo sentì la necessità di misurare il tempo che lo separava dal prossimo incontro con Eva, e nel torrente che scorreva nella valle senza tempo, inventò un modo per fare in modo che lo scorrere dell’acqua segnasse il tempo…Fu così che gli sbilf, cominciarono a sentire il peso del tempo e chiamarono Pesarina il torrente, e la valle divenne la valle del tempo…

E la competenza acquisita dagli sbilf nel realizzare strumenti per misurare il tempo, concluse il vecchio, si è trasferita poi agli uomini. Per questo la valle del tempo si chiama anche valle degli orologi, perché, come in nessun altro posto, tra queste case si sanno realizzare strumenti per misurare il tempo…

Ero appunto salito in valle per vedere quegli originali orologi, e Delio che avrebbe dovuto accompagnarmi mi stava aspettando, certamente preoccupato per il mio ritardo…Ero finito ad ascoltare il racconto d’un vecchio fuori dal tempo, che mi parlava dell’origine del tempo…per poi scoprire che il vecchio non esiste… come forse neppure il tempo esiste…

domenica 27 aprile 2008

Il Druido di Catelraimondo.

Avevo in programma di partecipare all’inaugurazione dei lavori di completamento del Parco Archeologico Culturale di Castelraimondo a Forgaria del Friuli il 14 ottobre del 2006, ma per sopravvenuti impegni, ho dovuto rinunciare. La curiosità di vedere che cosa era stato scoperto dopo quasi venti anni di studio, da parte dell’Università di Bologna e di Parma, su un sito che risale certamente all’epoca preromana, mi ha portato a visitare il luogo alcuni giorni dopo. L’ambiente è notevole! Salendo in macchina da Forgaria la strada su cui sono arroccate le case della borgata che si è sviluppata sul Zuc Scjaramont, ti si apre ad ogni tornante sempre più ampio il paesaggio per il quale l’altura era stata scelta come luogo di vedetta. Ma anche come luogo di residenza privilegiata, per un popolo come quello dei Celti che sentiva la “poesia degli ampi orizzonti”.

Lasciata l’autovettura nel cortile deserto dell’ultima villa costruita da qualcuno che indubbiamente come i Celti sa apprezzare la poesia dei “respiri della valle”, ho proseguito a piedi secondo le indicazioni del sentiero attrezzato. Quelle pietre che sono state riportate alla luce dalla infinita pazienza dei giovani archeologi, mi davano una emozione profonda. “Sto mettendo i piedi”, pensavo, su sassi lavorati da persone che ci hanno preceduto, nella storia di questi luoghi, di duemilaquattrocento anni. Che pensieri, che parole hanno legato il loro lavoro a quei sassi? Nel silenzio scandito solo dal rumore dei miei passi mi pareva di sentirli, di sentire il vociare del cantiere, di annusare l’odore del sudore nello sforzo di smuovere quei grossi massi, senza altra attrezzatura che le mani, e la capacità di far forza assieme. “Oh! issa!”l’onomatopea che accompagna lo sforzo, forse era la stessa anche nella lingua dei Celti. “Oh! issa!” mi pareva di sentire riecheggiare nel bosco, e gli alberi contorti del bosco incolto, favorivano la mia immaginazione. “Oh issa!” mi pareva ribalzasse il grido di sasso in sasso, come se i sassi ne ripetessero l’eco dopo tanti secoli…

Era una giornata uggiosa d’autunno. Sembrava che stesse per piovere da un momento all’altro, ma non pioveva… Anche il tempo pareva sospeso, nella storia sospesa tra quelle fila di sassi, che erano stati un tempo una muraglia, che erano stati la base di una casa, di una stalla di una torre, che erano stati gli oggetti del pensiero di altri uomini. Pietre come lapidi, in un cimitero nel quale gli uomini avevano scandito il succedersi dei singoli giorni di millenni di storia. Ero solo e camminavo con precauzione, con devozione quasi, come se fossi veramente in un cimitero. Dopo quasi due ore di visita, avevo visto abbastanza. Avevo letto tutti i cartelli. Sapevo già tutto… Mi ero più volte soffermato a contemplare il panorama che dal un lato spazia sulle colline moreniche e la valle del Tagliamento, dall’altro controlla la stretta valle dell’Arzino. Avrei potuto ripartire, ma non riuscivo a decidermi, anche il mio volere restava sospeso… Era come se una voce che non sentivo, ma che mi parlava dentro, mi costringesse a restare, a camminare ancora tra quelle pietre, indeciso sul da farsi.

Fu la pioggia che alla fine mi costrinse a partire. Le gocce d’una nebbiolina che stava salendo dal paese, mi distolse con un brivido di freddo dai miei pensieri e mi risvegliò dalla suggestione del luogo che mi aveva portato fuori dal tempo… Corsi per raggiungere la macchina, ma invece che entrare pensai di ripararmi sotto la tettoia del laboratorio che sorge accanto al luogo nel quale avevo parcheggiato. Così, senza pensarci!... Forse solo perché volevo ancora guardare il panorama della valle, che tra i fili di pioggia diventava quasi fiabesco ed irreale…

Era un laboratorio di falegname. Un uomo, penso il proprietario o un lavorante, stava mettendo a posto alcune assi. Si fermò sorpreso per l’intrusione, non prevista…

“Mi scusi, gli dissi a mo’ di saluto. “Sta piovendo!”

“Vedo!” rispose asciutto.

“Mi ero intrattenuto su al parco!” aggiunsi quasi a chiedere scusa.

“Le è piaciuto?”

“Straordinario!” commentai e poi sempre a giustificarmi per l’intrusione nel suo laboratorio gli spiegai del mio interesse per i Celti, delle ricerche che avevo condotto. Vedendo che mi stava seguendo con interesse, e che non voleva smettere di piovere, mi lasciai trasportare dalla foga del discorso, e presi a parlargli della idea che mi ero fatta sulla loro religione fondata sulla compresenza del mondo dell’invisibile con quella del visibile.

Ad un certo punto mi interruppe bruscamente. “Guardi,” mi disse “è da tempo che cerco una persona come lei. Ho un racconto da farle…E’ come se da tempo volessi confessarmi, senza riuscire a trovare il prete all’altezza di valutare i miei peccati… Non ne ho mai parlato con nessuno, per non farmi prendere in giro, ma da quello che ho appena sentito sui suoi interessi, penso sia lei la persona adatta con cui potermi confidare…”

Prese a dire…

Anch’io, come lei un momento fa, ho sempre sentito sin da bambino la suggestione del sito del Casteraimondo. Abito qui vicino, e il parco del castello è sempre stato per me il mio giardino pubblico. Quando volevo fare due passi facevo un giro sul colle, ad ogni ora del giorno, ed a volte, nelle notti di luna, anche di notte… Poi è arrivata l’Università, sono arrivati gli studenti, ho fatto amicizia con loro, li ho anche aiutati nel lavoro di ricerca. Ho visto venire alla luce le pietre, le fondamenta delle case... Quando hanno deciso di costruire le tettoie per riparare i resti che avevano messo in luce, mi sono opposto… Mi pareva che quelle costruzioni moderne avrebbero rovinato la poesia dei luoghi. Mi spiegarono della necessità di riparare i reperti. Io ribattevo della necessità di non stravolgere l’atmosfera che si respira sul colle del castello. Alla fine prevalse l’esigenza di proteggere i reperti, e si sono fatte le tettoie di riparo… Non mi piacevano, ma questo non mi impedì di continuare a frequentare il parco archeologico di Castelraimondo. Fino ad un paio di mesi fa…poi non ho avuto più il coraggio di mettervi piede…

“Come mai?” lo interruppi.

“Perché mi è capitato quel che le vorrei raccontare e che non ho mai raccontato a nessuno. Se vuole starmi a sentire, e mi promette di non prendermi per pazzo…”.

Mi pareva di sentire l’architetto del romanzo de “I Celti ritornano”, ma non glielo dissi, anzi lo assicurai che sulle presenze dei Celti avevo già raccolto tante testimonianze, che mi portavano a credere ci fosse qualcosa di misterioso e di inspiegabile…

“Misterioso ed inspiegabile!” ripetè, “proprio come ciò che è capitato a me”. E riprese a raccontare…

Era un pomeriggio dello scorso mese di agosto. Si stava avvicinando un temporale minaccioso. Grossi nuvoloni neri si erano abbassati fino a lambire il colle del castello. Non era certo il momento per fare una passeggiata, eppure mi era venuto il desiderio di salire, come quando ti viene voglia di una sigaretta, nel momento più inopportuno…”Vado e torno!” mi dissi e presi a salire quasi di corsa per il sentiero già completato, pronto per l’inaugurazione. Ero appena arrivato nei pressi dei resti di quella che era stata recuperata come la “casa-santuario” dei Celti, quando si mise a piovere come non avevo mai visto, come se S.Pietro avesse aperto all’improvviso tutte le cateratte del cielo… Contro la luce dei lampi si vedevano fili di pioggia grossi come corde, e i tuoni sembrava entrassero nel suolo per smuovere le pietre come ci fosse stato un terremoto. Mi riparai sotto la tettoia che copre i resti della casa. Mi ero opposto alla sua costruzione, ma ero il primo ad averne un vantaggio…Nella vita capita spesso di dover approfittare di ciò che è stato realizzato nostro malgrado… Tuoni, lampi e il rumore assordante della pioggia sul tetto… Mi sembrava di essere finito in un inferno…”Passerà” pensavo, e invece si faceva sempre più buio, come se la cima del colle fosse finita dentro ad un nuvolone fitto e nero.

“E qui comincia il mio racconto…” riprese il mio interlocutore, dopo una breve pausa, facendo il gesto di asciugarsi il sudore dalla fronte. Continuò…ad un tratto mi parve di vedere una luce che usciva dalla terra, dal centro della casa, nel posto ove gli archeologi dicono di aver ritrovato i resti della cerimonia per la posa della prima pietra. La luce crebbe lentamente come se si gonfiasse, e apparve una persona… Era la luce ad essere la persona… Vestita di bianco, con una lunga barba, i lineamenti del viso e l’età indefinite. Non avevo dubbi: era l’immagine di un Druido, come l’avevo vista in tanti libri. Pensai che mi avrebbe toccato e che sarei morto, come avevo letto in tante leggende. Avrei voluto fuggire, ma non riuscivo a muovermi, come capita a volte nei sogni.

Forse aveva letto nel mio pensiero e mi parlò senza muoversi, per non spaventarmi. “Era questa la mia casa!” prese a dire. E’ questa ancora la mia casa, perché io sono ancora qui… Come ancora sono ancora qui nell’eternità tutti quelli che hanno vissuto qui, nello scorrere del tempo della storia. Non viviamo nella dimensione dell’eternità, voi in quella del tempo. Un tempo tra le due dimensioni ci si comunicava... Io ero uno di quelli che sapeva uscire dalla dimensione del tempo per ritrovarmi con quelli che vivono nella dimensione dell’eternità. Lo strumento che avete trovato, il synx, (come si legge nel pannello illustrativo) era lo strumento che mi permetteva di mettermi in contatto con il mondo senza tempo. E’ capace di emettere degli ultrasuoni che consentono il rapporto con l’altra dimensione… Oggi con te, m’è riuscito il percorso inverso, ma non l’ho fatto per spiegarti queste cose, alle quali voi non sapete più credere… Sono tornato per fugare i dubbi che a qualche studioso sono venuti ritrovando in questa casa i corpi di bambini nati morti. Nulla di strano, è una credenza che sei secoli si è sviluppata anche nella vostra religione: avete pensato che i bambini potessero risorgere per un momento per ricevere il viatico per una eternità felice. Anche noi lo pensavamo… Pensavamo che nella dimensione dell’eternità, l’individuo dovesse avere memoria del suo essere stato nel tempo. Li portavano a me, perché io dessi loro la memoria della vita dei loro genitori, non potendo avere loro memoria d’una vita che non avevano vissuto…

Così mi ha detto e senza aspettare che io gli rivolgessi la parola, che gli facessi delle domande, che gli chiedessi delle spiegazioni, si è spento come un fuoco che cessa di ardere, e si è sciolto di nuovo nel centro della sua capanna…

Faceva già freddo in quella giornata piovosa di ottobre. Ma il falegname continuava a tergersi il sudore della fronte, attendendo un mio commento…

Non sapevo che cosa dirgli. Anch’io mi stavo chiedendo per quale strano gioco delle coincidenze, dovevano finire a me tutti questi racconti sui Celti. Perché invece che salire in macchina come sarebbe stato più logico, ero finito in questo laboratorio di falegname a sentire questo così originale e strano racconto?...

Se l’idea di quel racconto sui bambini nati morti fosse venuta a me, potevo darmi una spiegazione perché proprio in quei giorni stavo studiando la storia della Madonna di Trava di Lauco, ove la tradizione voleva che tornassero a rivivere i bambini nati morti, il tempo necessario per ricevere il battesimo. Ma il falegname mi confessò che non sapeva nulla della Madonna di Trava, e che non aveva capito a che cosa si riferisse il Druido quando parlava di una credenza presente anche nella nostra religione…

martedì 15 aprile 2008

La campana dell'Ospedale di Gemona

Al dott.Pietro De Antoni ed alla sua equipe,

testimonianza di sincera e profonda gratitudine

per una accoglienza che all’alta professionalità

ha saputo unire l’humanitas autentica e sincera,

caratteristica distintiva da sempre

dell’uomo e soprattutto della donna friulana.

La campana dell’Ospedale di Gemona. [1]

Questa storia l’’avevo già sentita raccontare da alcuni amici che erano stati ricoverati all’ospedale di Gemona del Friuli. Ma ci avevo riso su!... “Panzane!” avevo commentato…Che in certe notti, all’interno dell’ospedale si senta suonare una campana, mi era parsa una circostanza, frutto della debolezza di chi, da degente, si trova a vivere le ansie e le tensioni legate alla malattia e le preoccupazioni sulle prognosi. Una operazione chirurgica è sempre un qualcosa a rischio!.. Nelle notti passate nella vana attesa di un po’ di respiro e di sollievo, nell’inutile tentativo di trovare una posizione nello scomodo letto d’ospedale per conciliare il sonno, si possono sentire i rumori più diversi, immaginando per questi le interpretazioni più fantastiche…

Ma quando è toccato a me di finire ricoverato in ospedale a Gemona, sono stato costretto a ricredermi!... Già la prima sera, verso mezzanotte, mentre cercavo invano di addormentarmi, ho sentito distinto il suono d’una campana. Ho pensato fosse la suggestione per il racconto che mi era stato fatto dagli amici. E del resto stavo così male…Avevo purtroppo altro cui pensare, prima di capire se si trattasse d’una campana o di che altro…

La seconda sera stavo un po’ meglio ed infatti m’ero addormentato senza fatica già a prima sera, senza pensare ad altro che a quello che sarebbe stato l’esito della mia malattia, l’esito dell’operazione alla quale i chirurghi avevano deciso di sottopormi. Ma fui svegliato di soprassalto nel cuore della notte da un suono di campana, chiaro e distinto. Assolutamente inconfondibile!... Forte al punto d’avermi svegliato!... Si succedevano alcuni rintocchi distinti, di campana che suona a distesa, poi d’un tratto il suono si trasformava nel rumore di qualcosa che si rompe, come se la campana si fosse sfasciata… Sono laicamente abituato a credere soltanto a ciò che percepisco con i miei sensi… Vista l’ora, esclusi subito che il suono potesse venire da una qualche chiesetta situata nella campagna circostante l’ospedale. Non sapevo se ne esistessero. Ma anche se ne fosse esistita più d’una, nessuno si mette a suonare una campana nel cuore della notte…Si trattava quindi solo di capire che cosa stesse producendo un rumore che poteva far pensare al suono d’una campana.

Dopo una mezz’ora, il suono si interruppe definitivamente. Ripromettendomi comunque di capire di cosa si trattasse…rimandai la verifica alla notte successiva…Nel caso avessi risentito quel suono. Ripresi quindi a dormire.

La notte successiva per l’ansia di sapere se il suono si fosse fatto riascoltare, non riuscivo a prendere sonno… “Meglio così!” pensai. La spiegazione per ciò che avevo udito la sera precedente poteva essere proprio il fatto che m’era parso di svegliarmi, mentre invece il ripetersi di quel suono che poi finiva in un rumore, faceva parte d’un sogno.

Stavo guardando l’orologio che segnava la mezzanotte e trasalii sentendo di nuovo, ancora più netto e distinto che la sera precedente, un suono che non poteva essere se non quello d’una piccola campana. Ero perfettamente sveglio, avevo appena controllato l’ora…non potevo avere dubbi: nella notte stava suonando una campana!... Dal timbro si poteva pensare alla campanella che sovrasta l’ingresso nelle chiese di campagna. S’udiva distintamente una serie di rintocchi e poi un tonfo, il rumore di qualcosa che si rompe, come se la campana si fosse staccata dagli ancoraggi, fosse caduta al suolo e si fosse rotta nell’impatto.

Infilai la vestaglia e raggiunsi la testata del corridoio, dalla parte da cui mi sembrava venisse il suono, strascinandomi al fianco il trespolo con i sacchetti di medicinali e la sacca del catetere.

L’ospedale di Gemona, ricostruito dopo il terremoto del 1976 avrebbe dovuto essere un modello di struttura ospedaliera innovativa. A quei tempi facevo il Sindaco a Tolmezzo ed avevo più volte seguito le discussioni al riguardo perché la nuova struttura, avrebbe dovuto collegarsi a rete, con l’ospedale esistente in Carnia. Avevo anche provato a lanciare l’idea che Tolmezzo e Gemona rinunciassero alla costruzione di un loro ospedale, per costruirne uno unico per l’Alto Friuli, dalle parti di Amaro o di Stazione per la Carnia. Ma finì che mi “tirarono le pietre” sia quelli di Gemona che quelli di Tolmezzo, per cui dovetti salvarmi dicendo che si trattava di una provocazione.

Al di là di queste divagazioni personali, non so chi sia stato l’architetto ma, vivendoci dentro, il risultato mi è parso molto inferiore rispetto alle previsioni. Organizzare un ospedale su un unico interminabile corridoio centrale, non mi pare una grande soluzione! Quando ci si trova sul corridoio, e tutte le porte interne sono aperte, si ha l’impressione di trovarsi nel tunnel sotterraneo di un enorme formicaio, dove malati, parenti, medici, infermieri si incrociano e si spostano come file di formiche impazzite.

Non pensavo evidentemente a tutto questo mentre (confesso!) non senza un po’ di paura, mi spostavo per raggiungere la testata del corridoio. Si ha un bel dire che ci deve essere una spiegazione per tutto. Ma che spiegazione poteva avere un suono di campana a mezzanotte?...La mia camera non era molto distante, e raggiunsi subito la testata del corridoio. Per chiudere in qualche modo il lungo budello centrale, l’architetto ha previsto sulle due testate una specie di garitta che aggetta verso l’esterno, senza nessun significato funzionale, ma come una soluzione estetica per muovere la facciata di testa.

Entrai nella garitta, fissando gli occhi sull’esterno alla ricerca di qualcosa che mi potesse riportare al suono della campana. Fui lì lì per svenire e non per problemi legati alla mia degenza ed alla mia malattia, ma spaventato a morte per ciò che i miei occhi stavano vedendo.

Avrei dovuto avere davanti agli occhi i piazzali di accesso all’ospedale che portano ai magazzini ed alle celle mortuarie, e invece alla mia vista si presentava una scena completamente diversa, inaspettata ed inspiegabile…Mi diedi un pizzicotto per confermarmi che non stavo sognando. Non sognavo!... Ero perfettamente sveglio, ma quella che avevo davanti non poteva essere che la scena d’un sogno…

Avevo già notato di giorno che i piazzali circostanti l’ospedale sono chiusi verso l’esterno da una barriera di alberi di pioppo molto alti. Meno fitti nella parte in cui la proprietà dell’ospedale confina quasi con le case del paese di Ospedaletto. A proposito di questo paese, avevo letto durante il giorno che il nome deriva dal fatto che già nel XII secolo era sede di un ospedale per i viandanti che, venendo da Aquileia dovevano affrontare i passi delle Alpi carniche e giulie per raggiungere il Norico. Avevo pensato al curioso destino del luogo che dopo ottocento anni manteneva ancora la sua vocazione a zona ospedaliera…

Sul lato verso Gemona, la fila dei pioppi diventa invece un vero bosco fitto. I fusti molto alti sono tutti piegati verso il paese, a conferma che il vento soffia prevalentemente da nord a sud, e costringe gli alberi ad una posizione perennemente inclinata. A prima vista mi avevano fatto venire in mente la marcia di pinguini, o la marcia di persone operate all’addome, costrette ad avanzare piegate per evitare di tirare sulla ferita…

Si era appena all’inizio di primavera…su alcuni alberi erano già spuntate le prime foglioline, ma per la gran parte erano ancora spogli come durante l’inverno. Sui lunghi tronchi di colore chiaro si succedevano ad intervalli di due-tre metri, delle specie di collari di colore scuro dai quali si dipartivano i rami, rivolti verso l’alto come mani scheletriche alzate a forza verso il cielo.

Ebbene! Guardavo fisso, ma non c’erano più gli alberi, non c’era più i piazzali, non c’era più il paese di Ospedaletto, le cui case di giorno filtravano oltre il filare dei pioppi. Non c’era più nulla di tutto questo…c’era soltanto una grande costruzione bassa e circolare, che mi fece pensare ad una malga, con torno torno il ricovero degli animali ed al centro il “tàmar”

All’ingresso del fabbricato, dalla parte del paese. c’era una piccola chiesa, molto simile all’attuale chiesa di Ognissanti. Come questa con una porta affiancata da due colonne che sorreggono il piccolo architrave, su cui poggia la lunetta superiore. Al lati della porta due piccole finestre chiuse in alto ad arco, e sopra tre piccoli rosoni a muovere simmetricamente la parte superiore della facciata. Al culmine la solita piccola cella campanaria. Ai lati della chiesa c’era due ingressi, chiusi da cancellate di legno. Da qui si entrava nel cortile che mi ricordava il “tamar” delle malghe. Il ricovero che circondava il cortile, che mi richiamava le “lòges” delle malghe, era unico, senza soluzione di continuità, ma i montanti di legno che sorreggevano la copertura, distanti tra loro quattro-cinque metri, lo dividevano in piccole stanze che avevano la stessa dimensione. Ogni stanza era chiusa da portelloni di legno.

Il tetto di tutta la costruzione, fatto di scandole, spioveva verso l’interno e faceva sì che il complesso avesse in qualche modo una sua eleganza architettonica. Ma non si trattava d’un ricovero per animali, non era una malga. Da tutte le parti si vedevano esseri umani doloranti…

Si trattava certamente di un ospedale! Ogni stanza era piena di ammalati che giacevano su giacigli di paglia, coperti soltanto di qualche straccio. E c’erano ammalati anche nel cortile, ricoperti anche loro di pochi stracci, per potersi riparare dal freddo della notte e dalla rugiada. Si capiva che in qualche modo erano in lista di attesa, nella speranza che si liberasse un posto dentro ai ricoveri…

La prima “loge” sulla sinistra entrando, (si intuiva facilmente), era quella riservata a sala operatoria. C’erano dei chirurghi, all’opera su un paziente che con le sue urla di dolore, riusciva a coprire tutto il brusio di lamenti che costituiva il rumore di fondo del posto. Mi avvicinai per guardare, e, con stupore e spavento allo stesso tempo, vidi che ero io la persona sotto i ferri…

Non poteva essere!...Io in effetti stavo guardando…Eppure la persona che gridava dal dolore mi rassomigliava in modo assoluto, come se fosse una perfetta mia controfigura…

“Perché non gli date qualcosa per alleviargli il dolore?” chiesi. Mi faceva pena sentirlo urlare, mi faceva pena ancora di più per il fatto che avevo l’impressione d’essere al posto del mio sosia, a straziarmi dal dolore…

“Chi sei? Che vuoi? Fatti i c… tuoi…” prese ad inveire contro di me quello che doveva essere il capo dei chirurghi, senza neppure degnarmi d’uno sguardo, tutto intento come era alla sua operazione. Non si risparmiò neppure una valanga di improperi, di imprecazioni e di vaffa… che non mi pare il caso di riportare…

“Chiedevo soltanto!” mi sono scusato.

“Ma non sai”, prese a gridare il secondo dei chirurghi “che per questo tanghero abbiamo fatto venire a posta il capo anestesista dell’Ospedale di Tolmezzo. Ora gli sta praticando le soluzioni anestetizzanti più innovative, a livello europeo. Premendo sulla giugulare con una sua tecnica particolare sta cercando di far assopire il cervello, mentre gli sta facendo bere da una fiasca un prodotto di sua invenzione, realizzato su ricetta d’una zia francese, macerando erbe raccolte nei prati di Fusea, messe a macerare nell’alcool metilico che si forma come testa e coda nel processo di distillazione della grappa…”

“Sarà!” commentai. “Ma questo mio sosia, malgrado queste innovazioni, sta soffrendo come una bestia. Non vorrei che fosse un triste presagio di ciò che dovrò soffrire anch’io!..

“Non aver paura! Non hai nulla da temere tu!” mi rassicurò una voce da dietro le mie spalle.

Mi voltai. La stranezza dell’incontro con il mio sosia che si stava operando, mi aveva già messo in grande imbarazzo, incapace di capire dove diavolo fossi finito. Il nuovo incontro non fece che aumentare la mia confusione. Avevo davanti fratello Umberto!!!... Si trattava senza ombra di dubbio dell’amico che era stato a farmi visita al pomeriggio. Avevamo bevuto assieme del buon Tocài, fino alla sera precedente il mio ricovero in ospedale. Ma che cosa ci faceva vestito da frate?...

Capii subito che si trattava del responsabile della struttura. Dava ordini, indicazioni, suggerimenti…

“Cosa fai qui? gli chiesi.

“Non vedi? rispose, “ mi hanno affidato la responsabilità di gestire questa struttura. Io seguo gli aspetti organizzativi, il capo chirurgo gli aspetti sanitari”.

“Ho avuto già modo di prendermi i suoi insulti!”

“Lo conosciamo! Ma mai come in questo caso le apparenze ingannano. E’ un bravuomo un po’ troppo confusionario, pianta casini catastrofici per un nonnulla, ma è molto professionale e soprattutto ha una grande sensibilità, un cuore grande. Per un amico poi si fa in quattro… Per fare un piacere ad un amico, alle volte è capace di buttarmi all’aria tutta l’organizzazione che con difficoltà sono riuscito ad attivare”.

“Comunque caro Umberto o fra Umberto se preferisci, se questo è un ospedale, si poteva spendere anche qualcosa di più per farne una struttura un po’ più decente,” obiettai.

“Guarda, ribattè, che questa è una delle strutture più nuove di tutta l’alta Italia. Io comunque non vi ho responsabilità né in positivo nè in negativo. Io devo far funzionare ciò che c’è… Con questo compito mi hanno spedito sin quassù i miei superiori del convento di S.Antonio a Padova.

Confesso di aver lasciato Padova senza alcun entusiasmo. Si stava così bene laggiù nel convento di città, alternando la preghiera al passatempo dei piccoli lavori nell’orto… Qui è tutto diverso. Anche la fede qui finisce per vacillare. Di fronte a tanta sofferenza non puoi non chiederti dove sia Dio…

Per aiutarmi e consolarmi ha voluto seguirmi anche mia madre, come Monica seguiva S.Agostino. Ma ora si è ammalata gravemente anche lei…Non vorrei finisse come con S.Agostino e la madre Monica. Mi dispiacerebbe doverla seppellire nel cimitero di questo paese…”

“Vedrai che guarirà!” gli dissi, con una di quelle solite frasi di circostanza che sovrabbondano nelle relazioni tra persone all’interno degli ospedali. “Se ritieni tu che questa sia tra le strutture migliori…” continuai. “Non posso non crederti, ma io continuo ad avere i miei dubbi. Ho visto poco fa passare due inservienti che portavano su un tavolato le scodelle per la cena. Mi hanno ricordato le due persone in primo piano nel quadro di Brugel il Vecchio “Banchetto nuziale”.

Bruegel il Vecchio: Il banchetto nuziale

Bruegel il Vecchio: Il banchetto nuziale

Vi ho visto dentro una brodaglia d’un colore misterioso, strano e indistinto, esalante un lezzo che mi ha costretto a voltarmi dall’altra parte per non vomitare. I giacigli poi, sui quali riposano gli ammalati non mi paiono un granchè...”

“Sul cibo hai ragione! Lascia un poco a desiderare! Abbiamo appaltato il servizio alla Cooperativa degli Affamati, ed abbiamo il sospetto che ci facciano la cresta per poter aiutare i propri soci. Sui giacigli no, non hai ragione… i nostri sono fatti con fieno odoroso raccolto in montagna, negli altri ospedali sono invece fatti con le stoppie del grano, e sono quindi anche meno soffici”. “Scusami un momento”, aggiunse e si spostò in fretta nella direzione da cui era arrivata una invocazione d’aiuto più forte e straziante. Risi tra me e me vedendolo allontanarsi sculettando, sì che la tonaca a mezz’aria dondolava come fosse una campana.

Bene! Avevo capito quale era il suo ruolo… avevo capito quasi tutto sull’organizzazione di quello strano ospedale. Ma lui, il mio amico, lì come c’era finito? Lo conoscevo come un fervente praticante la Chiesa, non mi risultava tuttavia si fosse fatto frate. E io che ci stavo a fare? Lui era vestito con il saio dei francescani. La tonaca si allargava a coprire lo stomaco dilatato dai bicchieri di Tocài, poi scendeva larga come una campana, fino a poco sotto le ginocchia. Da sotto sbucavano le due gambe, magre e rinsecchite come quelle di un ammalato. I piedi infilati in un paio di sandali troppo grandi, lo costringevano a camminare dondolando il corpo e strascinando i piedi. Per questo avevo riso prima guardandolo allontanarsi di corsa…

Gli avrei voluto chiedere delle spiegazioni! Ma dal momento che mi aveva visto e non si era stupido della mia presenza, doveva essere in qualche modo tutto normale ciò che mi stava capitando. Ero io che non capivo… Ma non capivo che cosa?... Ero anch’io vestito come loro?... Non ci avevo fatto caso...tutto preso da ciò che mi circondava non avevo pensato a me… Loro erano tutti vestiti con brevi tuniche dai colori smorti… Mi facevano pensare a personaggi ambientati nel Medioevo, come riprodotti in qualche quadro dei fiamminghi.

Non potendo chiedere in modo diretto come mai fossimo lì, ed a fare che cosa, ebbi l’idea di chiedere che giorno fosse. Posi la domanda alla prima inserviente che mi passò accanto.

“Siamo al 25 gennaio dell’anno domini 1348” mi rispose con una puntale precisione, come se non fosse stato sorpreso dalla mia domanda. Avevo già avuto modo di constatare ed apprezzare la disponibilità e l’umanità delle inservienti. Mi ero dimenticato di chiedere se si trattasse di suore di qualche ordine o di laiche. Erano le uniche persone vestite a modo, con le tuniche pulite e in ordine. Fiori di grazia sbocciati per caso nel campo del dolore!...

L’inserviente nella sua grande disponibilità, stava per aggiungere qualcosa forse per aiutarmi a capire di più, quando un urlo straziante si districò ed emerse tra il groviglio di gemiti, pianti e imprecazioni che costituiva il rumore di fondo costante caratteristico di quella specie di ospedale.

“La peste!” urlò qualcuno con quanto fiato aveva in gola.

Vidi Fra Umberto precipitarsi nella direzione dalla quale era arrivato il grido. Incrociò i quattro inservienti che avevano raccolto in una coperta l’ammalato, a cui era stata diagnosticata la peste.

“Non potete!” gridò cercando di fermarli. “E’mia madre!”

“Che sia anche la madre del padreterno, a noi non ce ne frega!” reagì brutalmente uno dei quattro. “Ha la peste e deve essere portata via!” “Ha la peste!” urlò di nuovo perché tutti nel campo capissero quale nuovo pericolo incombeva su tutti.” Con uno spintone fecero cadere fra Umberto che si stava frapponendo e proseguirono nel loro cammino per portare l’infetta al di fuori dell’ospedale.

Uscirono per una porticina che si trovava sul lato opposto alla Chiesa, e depositarono l’appestata nel prato retrostante l’ospedale.

Fra Umberto li inseguiva supplicandoli che avessero pietà. “E’ mia madre!” continuava a ripetere come fosse una giaculatoria. Ma quelli non gli davano retta... Quando lo raggiunsi, era solo accanto alla povera madre, rannicchiata dentro a degli stracci che avrebbero dovuto essere una coperta.

Piangeva ed imprecava contro l’ingratitudine degli uomini. “Fossimo rimasti a Padova!”. E invece siamo venuti fin quassù in Friuli a fare del bene…E questo sarebbe il grazie per il bene che abbiamo fatto?...

Non sapevo che dirgli…Ci sono circostanze nelle quali è il frate che deve consolare gli altri, trovando nel Vangelo le parole di speranza. Io da laico non avevo argomenti per aggiungere nessun commento… Le parole di compassione e di misericordia si rivolgono con facilità agli altri, molto più difficile è rivolgerle a noi stessi…Anche Fra Umberto si dimenticò d’un tratto di tutte le parole di consolazione che aveva usato con gli ospiti dell’ospedale, e prese ad imprecare contro tutto e contro tutti, per l’ingiustizia di cui si sentiva vittima, e di cui era vittima soprattutto sua madre. Dopo aver fatto tanto volontariato in ospedale, ora era stata abbandonata a morire lì nel freddo d’una notte di gennaio, come se fosse stata un cane randagio…

Mentre fra Umberto imprecava, prese a suonare la piccola campana della chiesa. Forse il sacrestano con quel suono voleva accompagnare in paradiso la madre di Fra Umberto. Il suono della campana avrebbe dovuto riportarlo alla preghiera, ritrovare nelle preghiere per i moribondi il modo per accompagnare la madre nell’ultimo viaggio… Ma non riusciva a pregare…Gli pareva che l’ingiustizia fosse troppo madornale per poter essere perdonata, per dare un senso alla preghiera.

“Che la maledizione di Dio possa scendere su di voi!” gridava. Che Dio possa distruggere questo ospedale dalle fondamenta, e tutto questo paese come fece con Sodoma e Gomorra…”

“Mentre così diceva, la terra prese a tremare, e il prato a muoversi come se le viscere della terra fossero sconvolte da un terribile singulto. Dalle montagne si staccavano enormi massi che scendevano con un fragore assordante, sollevando enormi nuvole di polvere. L’edificio dell’ospedale fu attraversato da una vibrazione improvvisa e si sfasciò come se fosse stato di cartapesta. Quanto tempo durò il cataclisma? Forse un minuto soltanto, ma parve una eternità…Non c’era più l’ospedale, non c’era più la chiesetta all’ingresso…Tutto era ridotto ad un cumulo di macerie, ad una sorta di strano formicaio.

Dalle macerie, appunto come da un formicaio, presero ad uscire delle ombre di persone che si incamminarono in una sorta di processione dentro al bosco di pioppi. Il bosco stesso si trasformò nella processione, che si snodò lentamente, come la corrente d’un fiume. Ma non scendeva, saliva… Credo verso il cimitero monumentale di Gemona, o verso il Duomo… non so…accompagnata dal suono della campana della chiesetta. A tratti si distinguevano bene i rintocchi, poi d’un tratto ai rintocchi si sostituiva il rumore della campana, che con il terremoto era caduta assieme alla chiesa…

Cantavano sommessamente, una melodia gregoriana che mi ricordava il Benedictus con il quale nella tradizione carnica si accompagnano i defunti al cimitero. Avevo l’impressione di far parte anch’io della processione orante. Cantavo ciò che cantavano gli altri, l’intonazione era quella del Benedictus, ma le parole era altre: era una sorta di parafrasi del Padre nostro che non avevo mai sentito prima:

Infinito Esistere da cui trae origini il mio divenire,

sia riconosciuta la tua esistenza

Si affermi un modo di convivenza tra gli uomini,

che tenga presente la tua esistenza

nella dimensione del nostro vivere quotidiano

come lo sarà nella dimensione eterna.

Dacci di vivere ogni giorno

nella tua dimensione dell’essere.

Perdona la nostra mancanza di fiducia

come noi perdoniamo la mancanza

di fiducia nei nostri confronti, da parte dei fratelli.

Non favorire la nostra mancanza di fede,

ma invece aiutaci a superare la tendenza a negarti!!!

Cantavano così…e l’originalità di quel Padre nostro mi portò a pensare che si trattasse del gruppo dei Catari di Gemona che come si legge nella storia, ricevettero la visita del vescovo cataro Pietro Gallo.

Cantavamo così, andando non so dove…Perché senza arrivare da nessuna parte, a un certo punto mi sono ritrovato nel mio letto d’ospedale, come se non l’avessi mai abbandonato. Cercavo di raccapezzarmi, dando un senso a ciò che mi pareva di aver visto e sentito...”Che cosa ho vissuto?” mi stavo chiedendo. “Un sogno? Un viaggio dell’anima, come quello che erano soliti effettuare i benandanti?”. Non riuscivo a darmi una risposta…

Le notti successive mi posi in attesa nella speranza di sentire di nuovo il suono della campana. Ne avevo parlato con il mio amico chirurgo, e come era prevedibile, si era messo a ridere ed a prendermi in giro… Avrei voluto sentire il suono, per farlo sentire anche a lui…avrei voluto far vedere anche a lui che cosa accadeva durante la notte attorno al suo ospedale.

Ma non si ripresentò l’occasione! Nemmeno io ho più sentito il suono della campana… Mi è rimasto quindi il dubbio di aver sognato… Sono arrivato comunque alla conclusione che il suono avesse come scopo quello di far rivivere a qualcuno quella scena. Io l’avevo vista. Io la potevo testimoniare. Non c’era più motivo perché si ripetesse. Il fatto d’aver avuto un testimone, aveva forse dato la pace eterna a quelle ombre di persona. Non so! Io mi sono limitato a scrivere ciò che ho visto…

Nella storia del Friuli in effetti si ricorda il disastroso terremoto del 25 gennaio 1348. Si ricorda anche la disastrosa epidemia di peste che nello stesso anno colpì chi s’era salvato dal terremoto. La peste, dice la storia, si sviluppò alcuni mesi dopo il sisma, ma forse come dimostra il caso della madre di Fra Umberto, l’epidemia stava già incubando, al momento del terremoto.

Dal Blog http://raccontipiutti.blogspot.com



[1] Quando sono stato ricoverato all’ospedale i Gemona il 1 aprile 2008 stavo lavorando ad un serie di racconti, per una ricostruzione fantastica della storia della Carnia, ed allo stesso tempo ad una rivisitazione laica del Vangelo. In ospedale ha letto “Morte a credito” di Celine. Nel racconto cercando di imitare lo stile di Celine, fondo assieme le cose alle quali sto lavorando, per presentare una ricostruzione fantastica della mia esperienza in ospedale.

sabato 9 febbraio 2008

La frana di Cazzaso.

In ogni paese della Carnia si raccontano le stesse storie. Racconti della Carnia, come quello di Silverio sul Moscardo o delle Streghe sul Tenchia. Ma poi ci sono anche i racconti propri di ogni paese, legati a situazioni e fatti particolari, che ne hanno caratterizzato la storia. Il mio paese, Cazzaso, è noto come il paese in frana. Nel 1851 il monte Diverdalce è franato ed ha travolto il paese che sorgeva alle sue falde. Ma quelli di Cazzaso sono persone che non la danno vinta facilmente. Neppure alla montagna hanno voluto darla vinta, e sono tornati a costruire il paese, lì dove era prima, proprio sopra alla frana. E’ naturale quindi che i racconti particolari del paese siano in qualche modo legati alla frana. Anche l’evento della frana è in qualche modo diventato un racconto. Me lo ripeteva spesso mio nonno, giurando che l’aveva sentito direttamente da suo nonno, che aveva vissuto quei terribili momenti. Non so perché ma in Carnia, i racconti si trasmettono da nonno a nipote, invece che da padre e figlio. Sembra quasi che i padri siano troppo impegnati nel fare e non abbiano tempo per i figli. Il compito di mantenere e trasmettere le memorie viene quindi lasciato ai nonni. In fondo è un modo intelligente per attribuire anche agli anziani un ruolo importante nella comunità.
Scusandomi per queste divagazioni sociologiche e tornando a mio nonno, dicevo che quando ero ragazzo era solito raccontarmi di come era avvenuta la frana, ripetendo, a suo dire, il racconto di suo nonno. Mio nonno era uno a cui piaceva raccontare... Lo ricordo in osteria che raccontava, e tutti attorno a lui ad ascoltare. Lo ricordo nelle lunghe sere d’inverno. Ma il ricordo più vivo è sempre ambientato nelle fresche sere del mese di maggio. Nell’ampio cortile davanti alla casa, mentre la brezza della sera portava i rumori soffocati della valle, quei suoni, quelle voci che salivano dal fiume, davano l’impressione che ci fosse veramente un altro mondo che viveva in un’altra dimensione, e le parole del nonno davano voce a quel mondo, ricostruivano i fili che ancora ci legavano ai personaggi della storia del paese.
C’era nel cortile un sasso squadrato sul quale era solito sedersi, guardava alla valle, alla catena del Sernio dietro alla quale si spegneva l’ultimo respiro di luce, come se dal paesaggio dovesse trarre le parole ed il racconto, e prendeva a parlare… Parlava e masticava tabacco, per cui anche le parole assumevano sfumature di suono diverse, e si aveva l’impressione che non fosse più lui a raccontare ma qualcuno con una altra voce, veramente tornato dal passato. Il suo racconto sulla frana, iniziava sempre allo stesso modo, con la stessa frase: era una notte di novembre…
Era una notte di novembre e pioveva da giorni. Come è normale a novembre, il periodo appunto della “montàne di sàns”. La Carnia, come si sa, è uno dei luoghi più piovosi d’Italia. Si hanno normalmente dei periodi di piogge intese, che nella parlata locale hanno preso appunto il nome di “montàne”. Sono periodi di pioggia che ricorrono con cadenze annuali, in occasioni in qualche modo prestabilite. Quella dell’inizio di novembre, per la festa dei santi, è una delle più ricorrenti. Ma quel anno, continuava mio nonno, è stato qualcosa di veramente eccezionale. Sembrava veramente dovesse tornare il diluvio. Pioveva a dirotto già da una settimana e non dava l’impressione di voler smettere. Il rio Laune che scorre sopra il paese pareva un diavolo scatenato. S’era ingrossato come mai prima d’allora. Come una furia scatenata trascinava sassi, sradicava alberi. Da un momento all’altro ci si aspettava che tracimasse e travolgesse il paese. Gli uomini stavano a guardia e il sacrestano sul campanile si teneva pronto a suonare l’allarme.
Ciò che si temeva alla fine avvenne. Erano le otto di sera, del giorno dei morti. Le campane avrebbero dovuto suonare per accompagnare la processione per la visita di preghiera al cimitero. E invece suonò soltanto la campana “grande” quella che suona l’ Ave Maria quando muore qualcuno. Suonava “a morto” come non aveva mai suonato, come se anche lei sentisse che non si trattava della morte d’una persona, ma di tutto il paese…
Il torrente aveva tracimato e strava trasformando in torrenti di fango le strade del paese. Ma c’era di peggio, l’acqua si si era infiltrata sotto al paese, e tutto il paese si stava muovendo, stava scivolando a valle. Al suono della campana la gente era tutta fuggita, ritirandosi sulla collina del cimitero, verso il paese di Fusea, perché tutti sapevano che quello il luogo sicuro. A sottolineare i momenti di maggiore intensità drammatica dei racconti, mio nonno tirava lontano uno sputo di tabacco, e faceva una pausa. A questo punto era solito fare uno sputo più forte del solito, e una pausa più lunga…a sottolineare l’eccezzionalità dell’evento. Riprendeva, ci vorrebbe un romanziere russo per riuscire a rendere la drammaticità del momento.
La gente che avrebbe dovuto salire al cimitero per pregare per i morti era affollata tra le tombe a guardare giù il paese che si muoveva lentamente, che lentamente moriva. Quasi che la natura volesse prendersi gioco di quella povera gente, per un poco smise di piovere. Sopra il Diverdalce si squarciarono per un poco le nubi ed uscì la luna. E gli abitanti di Cazzaso dal cimitero poterono guardare il loro paese che scendeva, nel movimento della frana le case di contorcevano con stridii sinistri e poi si sfasciavano con lugubri tonfi. Il paese sembrava un grande animale ferito incapace di resistere alla forza della montagna che lo trascinava a valle, e che in un lamento esalava gli ultimi respiri. Ad una ad una si piegarono su se stesse tutte le case e del paese non si vedeva che un cumulo di macerie. Le nubi si chiusero di nuovo, la luna sparì, e gli abitanti rimasero soli e disperati in mezzo alle tombe dei morti. Anche i vivi, più morti che vivi, con la morte nel cuore per aver perso tutto. Si strinsero le famiglie attorno alle tombe dei loro morti, chiedendo ai morti un aiuto ed una speranza. I ragazzi aggrappati alle madri che tenevano in braccio i figli più piccoli. I padri a fianco, incapaci di una parola e di un gesto. Ma quando si è ridotti a riporre la speranza nei morti…
Ringraziamo comunque Dio perché siamo tutti salvi, continuava a ripetere il prete, girando da tomba a tomba. Ma ad un certo punto ebbe un soprassalto, come quando ci viene in testa qualcosa all’improvviso. “E la Turche?” gridò. Tutti si guardarono attorno a cercarla, ma lei non c’era. Pensavano di essersi salvati tutti, ma si erano dimenticati della Turche. Ormai era troppo tardi per pensarci, era rimasta senza dubbio travolta dalle macerie della sua casa.
La Turche era una vedova molto vecchia e senza figli. Viveva nella casa più povera del paese, un tugurio più che una casa. Quando in paese si parlava di streghe, per farsene una idea di pensava sempre a lei. Non che avesse dato segni di particolari capacità di magia. Ma tutta vestita di nero, chiusa la testa in un grande fazzoletto nero dal quale usciva un viso rinsecchito con un naso adunco ed il mento prominente, era la vera immagine di una strega. “Nessuno si stupirebbe una notte a vederla volare a cavallo di una scopa” era diventata una battuta ricorrente in paese quando si parlava di lei. Anche quel soprannome che in qualche modo sembrava avere a che fare con la Turchia, aumentava l’alone di mistero attorno alla sua figura. E invece anche il nome non era suo, ma le derivava dal marito che bestemmiava come un turco e per questo alla fine era stato soprannominato il “turc” il turco, e lei di conseguenza era finita per diventare la “Turche”.
La sua stamberga era in centro al paese, ma lei non usciva quasi mai se non per andare a lavorare in un piccolo orto che le aveva lasciato il marito, e dal quale ricavava quel poco che le era necessario per sopravvivere. Era anche terribilmente sorda, ed anche questo difetto aveva finito per isolarla sempre più. Non aveva parenti, non aveva amici, conoscenti…era insomma sola. Sola e sorda, quella sera non aveva sentito la campana suonare l’allarme ed era quindi stata travolta dalla sua casa e dalla frana. O forse era ancora in vita sotto le macerie e quindi si sarebbe dovuto organizzare una squadra di soccorso. Ma sarebbe stato un suicidio entrare nella frana ancora in movimento e quindi prevalse il suggerimento del prete di pregare per lei perché potesse salvarsi.
Il lento movimento della frana continuò per alcuni giorni e gli abitanti di Cazzaso avevano trovato una provvisoria ospitalità nelle case di Fusea. Quando alla fine tornò il bel tempo e ci si rese conto che la frana si era finalmente assestata, prima di vedere cosa era rimasto delle loro case si cercò tra la macerie della sua casa la Turche. Era morta e non restò che farne il funerale. La stampa del tempo quando parla della frana parla d’un morto, senza farne il nome. Era la Turche che anche senza nome divenne importante, perché un evento naturale come una frana o un terremoto senza neppure un morto, sembra qualcosa di poco rilievo. Il morto dà invece importanza all’evento. E infatti ci furono degli interventi pubblici per aiutare gli abitanti di Cazzaso a costruirsi una casa ai bordi della frana in Salaries, dove c’era già un casolare. Nacque così Cazzaso nuova.
Ma vuoi perché gli abitanti di Cazzaso ora come allora sono testardi, vuoi perché il nuovo paese era disagevole perché costruito su un pendio troppo ripido, vuoi perché si resta sempre legati al luogo in cui si è nati, dopo alcuni anni quando la frana si era definitivamente assestata, si decise di ricostruire il paese dove era e come era. Come abbiano fatto a mettersi d’accordo sui confini in un terreno che era stato stravolto dal movimento franoso, è un mistero. Ma in qualche modo si trovò l’accordo, si definì una strada centrale che attraversava la frana collegando due piazze, quella della fontana e quella di Ciaveç. Le macerie della casa della Turche restavano ai bordi della strada verso sud. Erano state il patibolo e la tomba della vecchia, nessuno avrebbe avuto il coraggio di toccarle e di costruirvi sopra qualcosa. Ma quando il paese era già tutto ricostruito e quasi non ci si ricordava più del terremoto, venne una signora dal Friuli in sposa ad un Piutti, e chiese di poter costruire la casa su quelle macerie. La Turche non aveva lasciato eredi, e nessuno del paese si oppose, anzi erano tutti felici che qualcuno avesse il coraggio di ripulire gli ultimi resti della frana. La Furlane così venne subito soprannominata la nuova arrivata, con l’aiuto seppur riluttante del marito, pose mano alla costruzione. Utilizzò in parte le pietre del tugurio preesistente, ma realizzò una casa ben più grande della precedente, ben più moderna e confortevole. Il marito che sapeva della storia della Turche e che pensava con gli altri paesani che su quei sassi ci fosse una qualche maledizione, l’aveva sconsigliata. Ma le donne friulane sanno farsi ubbidire. Fu costretto a seguire la moglie… Ma quando, ed erano appena entrati ad abitare nella nuova casa, fu trovato una mattina stecchito nel letto, anche la Furlane cominciò a chiedersi se veramente era stata una buona idea quella di farsi la casa, nel luogo in cui si era verificata una morte violenta. Il marito le era morto accanto nel letto con gli occhi sbarrati come se nel sogno avesse avuto un grande spavento… E una notte ebbe infine la conferma…La sua amica che veniva da Gorizia (per questo aveva preso il nome di Gurizàne), che abitava in corrispondenza della sua casa, al di sopra della strada, la sentì urlare con quanto fiato aveva in gola: “Lasciami, non mi toccare!” La vide poi correre su, cercando aiuto in camicia da notte, come una indemoniata.
Le aprì la porta, l’accolse il casa, la fece accomodare. Accese il fuoco per farle bollire un infuso di camomilla e intanto le chiedeva di parlare. Ma la Furlane la guardava spaventata, senza riuscire a dir parola, come se un grande spavento l’avesse resa muta. Fu solo al mattino quando sentì il suono della campana dell’Ave Maria che parve svegliarsi, come se quel suono fosse quello di una sveglia.
“Se sapessi cosa m’è capitato stanotte!...”
“Sono ore che ti chiedo di raccontare”, ribattè la Gurizane .
La guardò sorpresa come se prima non si fosse resa conto neppure d’essere nella casa dell’amica, e prese a raccontare…
“Mi sono svegliata d’un tratto, ma non ero nella mia camera…”
“Sarà stato un sogno, un brutto incubo!”
No. Era sicura d’essere sveglia ed al posto della sua bella casa c’era un tugurio, con l’impiantito di terra ed un focolare al centro costituito da tre pietre poste su tre lati. Era acceso il fuoco che riscaldava una piccola pentola appesa ad un filo di ferro che scendeva dal soffitto. Accanto al focolare era seduta una vecchia tutta vestita di nero, con un piccolo viso rinsecchito dagli anni. Stava facendo abbrustolire dell’orzo con l’attrezzo apposito. Teneva in mano una lunga asta di ferro che aveva all’estremità opposta una sorta di palla di ferro, nella quale c’era l’orzo. Girava lentamente l’attrezzo perché l’orzo si cuocesse senza bruciarsi.
“Se aspetti un po’, le disse ad un certo punto, “ci facciamo un caffè” come se sapesse della sua presenza e considerasse normale la cosa.
“Chi sei? Dove sono?” aveva chiesto lei.
“Sono la padrona di casa”, le aveva risposto la vecchia. “Sei a casa mia” aveva aggiunto commentando la frase con una risata sinistra.
“Voglio tornare a casa mia!” aveva ribattuto lei.
“Ma sei a casa tua!” rise la vecchia sarcastica. Brutta era brutta. Ma quando rideva era orribile. Sopra il mento prominente le si apriva la fessura della bocca con qualche raro dente. Era ciò che aveva sempre pensato potesse essere una strega!
“Ma come a casa mia?” chiese la Furlane.
“Hai pur voluto costruire la casa sulla mia! Ora quindi ciò che tuo è mio ciò che è mio è tuo. Tuo marito me lo sono già preso, ed ora sono venuta a prendere te. Ma non c’è fretta! Prima possiamo farci un caffè. Preparo l’orzo per la prossima volta ma il caffè è già nel pentolino e subito bolle. Manca poco ormai…”
Capì allora in un attimo che aveva ragione il marito, quando insisteva che non avrebbero dovuto fare la casa in un luogo maledetto. “Son tutte frottole” aveva sempre detto lei. Ora si rendeva conto che purtroppo non erano frottole. Aveva allora preso ad arretrare verso la porta per cercare di scappare, ma la vecchia aveva lasciato l’attrezzo dell’orzo e le stava venendo incontro, alzando le mani per prenderla. “Lasciamo! Non mi toccare” aveva allora lei gridato, e in un gesto istintivo di difesa raccolto le mani al petto. E in quel gesto come per caso s’era trovato tra le mani la medaglia della Madonna del Rosario. Il contatto della sua mano con la medaglia aveva fatto il miracolo: era scomparsa la vecchia, era scomparso il tugurio e lei era di nuovo nel suo letto.
“Vedi appunto che è stato un sogno!” commentò la Gurizane.
“Ti dico di no!” insistette la Furlane. “Sono abituata a sognare! Ma quello di stanotte non era un sogno. La Gurizane restava convinta che si trattasse d’un sogno, ma anche per calmare l’amica le consigliò di ripetere il racconto al prete, e l’accompagnò in canonica.
Immaginava che anche il prete la convincesse che s’era trattato d’un sogno ed invece, il vecchio sacerdote le credette subito, quasi se l’aspettasse la ricomparsa dell’anima della Turche.
“Ma cosa posso fare?” gli chiese la Furlane.
“Oggi diremo una Messa di suffragio per l’anima, e stasera all’Ave Maria verrò a casa tua a dare una benedizione. La notizia della ricomparsa della Turche si diffuse in un momento da porta a porta in tutto il piccolo paese e tutti si precipitarono in Chiesa per la messa di suffragio. Tutti infatti si sentivano un po’ in colpa per non essersi ricordati della Turche che essendo sorda non aveva potuto sentire la campana quando aveva suonato l’allarme per la frana. Alla sera poi, la curiosità vinse sulla paura, e tutto il paese era attorno alla casa della Furlane a seguire quello che avevano già definito come uno scongiuro.
Il prete era arrivato all’imbrunire, aveva indossato la stola viola, s’era preso accanto la Furlane che teneva il secchiello dell’acqua santa come se fosse un chierichetto. Si teneva pronto con in mano il libro di preghiere dei morti con un dito infilato tra le pagine a mo di segnalibro. Al primo rintocco della campana per l’Ave Maria, aprì il libro e prese a recitare il De Profundis. Aveva appena finito il primo versetto che la casa da Furlane prese a tremare. Tutti i presenti pensarono al terremoto. In effetti era come se fosse partito veramente un terremoto, ma interessava solo quella casa. Per il prete e per la Furlane invece la casa si era trasformata nel tugurio della Turche, e lei era di nuovo là come la sera prima, che faceva bollire il caffè mentre tostava dell’altro orzo.
“Perché sei tornata?” le chiese il prete.
Lei scoppio in una risata. “Non sai che è casa mia?” aggiunse poi.
“La tua casa è nel regno dei morti!”
“Non c’è pace per me nel regno dei morti.”
“Perché?”
Alla domanda del prete, come la sera prima lei lasciò lo strumento per tostare l’orzo e fece per avventarsi contro di loro due. Il prete fu lesto a tirarle addosso con l’aspersorio dell’acqua santa. Lei si fermò come sorpresa, e lui allora la benedì facendo con l’acqua il segno della croce e recitando per quattro volte il requiescat in pace. Appena toccata dall’acqua santa, lei si sciolse come un refolo di nebbia al raggio del sole, e con lei si sciolse l’immagine della sua casa.
Lo scongiuro per la Turche è stato poi raccontato così sia dal prete che dalla Furlane. Gli altri infatti non avevano visto e capito niente. Avevano sentito le parole del prete, ma non quelle dell’anima della Turche. Soltanto alla fine, quando il prete aveva dato la benedizione ed anche tutti loro si erano fatti il segno della croce, avevano visto uscire dalla porta della casa da Furlane un uccello spaventato. Per la velocità con la quale era uscito e perché era già quasi notte nessuno capì di che tipo d’uccello si trattasse.
Quando gli ultimi tocchi del suono della campana si dispersero nelle prime ombre della notte. Dal grande noce cresciuto nel prato sottostante la casa della Furlane, uscì il lugubre canto della civetta. Tutti pensarono allora che fosse una civetta l’uccello uscito dalla casa, che fosse la Turche, costretta dallo scongiuro ad abbandonare la casa, ma non ancora disposta ad abbandonare il paese.
Sono passati dei secoli, ma sul grande noce, di notte, si posa ancora a volte una civetta e nel suo lugubre lamento continua a ricordare la storia della frana e della Turche.