martedì 15 aprile 2008

La campana dell'Ospedale di Gemona

Al dott.Pietro De Antoni ed alla sua equipe,

testimonianza di sincera e profonda gratitudine

per una accoglienza che all’alta professionalità

ha saputo unire l’humanitas autentica e sincera,

caratteristica distintiva da sempre

dell’uomo e soprattutto della donna friulana.

La campana dell’Ospedale di Gemona. [1]

Questa storia l’’avevo già sentita raccontare da alcuni amici che erano stati ricoverati all’ospedale di Gemona del Friuli. Ma ci avevo riso su!... “Panzane!” avevo commentato…Che in certe notti, all’interno dell’ospedale si senta suonare una campana, mi era parsa una circostanza, frutto della debolezza di chi, da degente, si trova a vivere le ansie e le tensioni legate alla malattia e le preoccupazioni sulle prognosi. Una operazione chirurgica è sempre un qualcosa a rischio!.. Nelle notti passate nella vana attesa di un po’ di respiro e di sollievo, nell’inutile tentativo di trovare una posizione nello scomodo letto d’ospedale per conciliare il sonno, si possono sentire i rumori più diversi, immaginando per questi le interpretazioni più fantastiche…

Ma quando è toccato a me di finire ricoverato in ospedale a Gemona, sono stato costretto a ricredermi!... Già la prima sera, verso mezzanotte, mentre cercavo invano di addormentarmi, ho sentito distinto il suono d’una campana. Ho pensato fosse la suggestione per il racconto che mi era stato fatto dagli amici. E del resto stavo così male…Avevo purtroppo altro cui pensare, prima di capire se si trattasse d’una campana o di che altro…

La seconda sera stavo un po’ meglio ed infatti m’ero addormentato senza fatica già a prima sera, senza pensare ad altro che a quello che sarebbe stato l’esito della mia malattia, l’esito dell’operazione alla quale i chirurghi avevano deciso di sottopormi. Ma fui svegliato di soprassalto nel cuore della notte da un suono di campana, chiaro e distinto. Assolutamente inconfondibile!... Forte al punto d’avermi svegliato!... Si succedevano alcuni rintocchi distinti, di campana che suona a distesa, poi d’un tratto il suono si trasformava nel rumore di qualcosa che si rompe, come se la campana si fosse sfasciata… Sono laicamente abituato a credere soltanto a ciò che percepisco con i miei sensi… Vista l’ora, esclusi subito che il suono potesse venire da una qualche chiesetta situata nella campagna circostante l’ospedale. Non sapevo se ne esistessero. Ma anche se ne fosse esistita più d’una, nessuno si mette a suonare una campana nel cuore della notte…Si trattava quindi solo di capire che cosa stesse producendo un rumore che poteva far pensare al suono d’una campana.

Dopo una mezz’ora, il suono si interruppe definitivamente. Ripromettendomi comunque di capire di cosa si trattasse…rimandai la verifica alla notte successiva…Nel caso avessi risentito quel suono. Ripresi quindi a dormire.

La notte successiva per l’ansia di sapere se il suono si fosse fatto riascoltare, non riuscivo a prendere sonno… “Meglio così!” pensai. La spiegazione per ciò che avevo udito la sera precedente poteva essere proprio il fatto che m’era parso di svegliarmi, mentre invece il ripetersi di quel suono che poi finiva in un rumore, faceva parte d’un sogno.

Stavo guardando l’orologio che segnava la mezzanotte e trasalii sentendo di nuovo, ancora più netto e distinto che la sera precedente, un suono che non poteva essere se non quello d’una piccola campana. Ero perfettamente sveglio, avevo appena controllato l’ora…non potevo avere dubbi: nella notte stava suonando una campana!... Dal timbro si poteva pensare alla campanella che sovrasta l’ingresso nelle chiese di campagna. S’udiva distintamente una serie di rintocchi e poi un tonfo, il rumore di qualcosa che si rompe, come se la campana si fosse staccata dagli ancoraggi, fosse caduta al suolo e si fosse rotta nell’impatto.

Infilai la vestaglia e raggiunsi la testata del corridoio, dalla parte da cui mi sembrava venisse il suono, strascinandomi al fianco il trespolo con i sacchetti di medicinali e la sacca del catetere.

L’ospedale di Gemona, ricostruito dopo il terremoto del 1976 avrebbe dovuto essere un modello di struttura ospedaliera innovativa. A quei tempi facevo il Sindaco a Tolmezzo ed avevo più volte seguito le discussioni al riguardo perché la nuova struttura, avrebbe dovuto collegarsi a rete, con l’ospedale esistente in Carnia. Avevo anche provato a lanciare l’idea che Tolmezzo e Gemona rinunciassero alla costruzione di un loro ospedale, per costruirne uno unico per l’Alto Friuli, dalle parti di Amaro o di Stazione per la Carnia. Ma finì che mi “tirarono le pietre” sia quelli di Gemona che quelli di Tolmezzo, per cui dovetti salvarmi dicendo che si trattava di una provocazione.

Al di là di queste divagazioni personali, non so chi sia stato l’architetto ma, vivendoci dentro, il risultato mi è parso molto inferiore rispetto alle previsioni. Organizzare un ospedale su un unico interminabile corridoio centrale, non mi pare una grande soluzione! Quando ci si trova sul corridoio, e tutte le porte interne sono aperte, si ha l’impressione di trovarsi nel tunnel sotterraneo di un enorme formicaio, dove malati, parenti, medici, infermieri si incrociano e si spostano come file di formiche impazzite.

Non pensavo evidentemente a tutto questo mentre (confesso!) non senza un po’ di paura, mi spostavo per raggiungere la testata del corridoio. Si ha un bel dire che ci deve essere una spiegazione per tutto. Ma che spiegazione poteva avere un suono di campana a mezzanotte?...La mia camera non era molto distante, e raggiunsi subito la testata del corridoio. Per chiudere in qualche modo il lungo budello centrale, l’architetto ha previsto sulle due testate una specie di garitta che aggetta verso l’esterno, senza nessun significato funzionale, ma come una soluzione estetica per muovere la facciata di testa.

Entrai nella garitta, fissando gli occhi sull’esterno alla ricerca di qualcosa che mi potesse riportare al suono della campana. Fui lì lì per svenire e non per problemi legati alla mia degenza ed alla mia malattia, ma spaventato a morte per ciò che i miei occhi stavano vedendo.

Avrei dovuto avere davanti agli occhi i piazzali di accesso all’ospedale che portano ai magazzini ed alle celle mortuarie, e invece alla mia vista si presentava una scena completamente diversa, inaspettata ed inspiegabile…Mi diedi un pizzicotto per confermarmi che non stavo sognando. Non sognavo!... Ero perfettamente sveglio, ma quella che avevo davanti non poteva essere che la scena d’un sogno…

Avevo già notato di giorno che i piazzali circostanti l’ospedale sono chiusi verso l’esterno da una barriera di alberi di pioppo molto alti. Meno fitti nella parte in cui la proprietà dell’ospedale confina quasi con le case del paese di Ospedaletto. A proposito di questo paese, avevo letto durante il giorno che il nome deriva dal fatto che già nel XII secolo era sede di un ospedale per i viandanti che, venendo da Aquileia dovevano affrontare i passi delle Alpi carniche e giulie per raggiungere il Norico. Avevo pensato al curioso destino del luogo che dopo ottocento anni manteneva ancora la sua vocazione a zona ospedaliera…

Sul lato verso Gemona, la fila dei pioppi diventa invece un vero bosco fitto. I fusti molto alti sono tutti piegati verso il paese, a conferma che il vento soffia prevalentemente da nord a sud, e costringe gli alberi ad una posizione perennemente inclinata. A prima vista mi avevano fatto venire in mente la marcia di pinguini, o la marcia di persone operate all’addome, costrette ad avanzare piegate per evitare di tirare sulla ferita…

Si era appena all’inizio di primavera…su alcuni alberi erano già spuntate le prime foglioline, ma per la gran parte erano ancora spogli come durante l’inverno. Sui lunghi tronchi di colore chiaro si succedevano ad intervalli di due-tre metri, delle specie di collari di colore scuro dai quali si dipartivano i rami, rivolti verso l’alto come mani scheletriche alzate a forza verso il cielo.

Ebbene! Guardavo fisso, ma non c’erano più gli alberi, non c’era più i piazzali, non c’era più il paese di Ospedaletto, le cui case di giorno filtravano oltre il filare dei pioppi. Non c’era più nulla di tutto questo…c’era soltanto una grande costruzione bassa e circolare, che mi fece pensare ad una malga, con torno torno il ricovero degli animali ed al centro il “tàmar”

All’ingresso del fabbricato, dalla parte del paese. c’era una piccola chiesa, molto simile all’attuale chiesa di Ognissanti. Come questa con una porta affiancata da due colonne che sorreggono il piccolo architrave, su cui poggia la lunetta superiore. Al lati della porta due piccole finestre chiuse in alto ad arco, e sopra tre piccoli rosoni a muovere simmetricamente la parte superiore della facciata. Al culmine la solita piccola cella campanaria. Ai lati della chiesa c’era due ingressi, chiusi da cancellate di legno. Da qui si entrava nel cortile che mi ricordava il “tamar” delle malghe. Il ricovero che circondava il cortile, che mi richiamava le “lòges” delle malghe, era unico, senza soluzione di continuità, ma i montanti di legno che sorreggevano la copertura, distanti tra loro quattro-cinque metri, lo dividevano in piccole stanze che avevano la stessa dimensione. Ogni stanza era chiusa da portelloni di legno.

Il tetto di tutta la costruzione, fatto di scandole, spioveva verso l’interno e faceva sì che il complesso avesse in qualche modo una sua eleganza architettonica. Ma non si trattava d’un ricovero per animali, non era una malga. Da tutte le parti si vedevano esseri umani doloranti…

Si trattava certamente di un ospedale! Ogni stanza era piena di ammalati che giacevano su giacigli di paglia, coperti soltanto di qualche straccio. E c’erano ammalati anche nel cortile, ricoperti anche loro di pochi stracci, per potersi riparare dal freddo della notte e dalla rugiada. Si capiva che in qualche modo erano in lista di attesa, nella speranza che si liberasse un posto dentro ai ricoveri…

La prima “loge” sulla sinistra entrando, (si intuiva facilmente), era quella riservata a sala operatoria. C’erano dei chirurghi, all’opera su un paziente che con le sue urla di dolore, riusciva a coprire tutto il brusio di lamenti che costituiva il rumore di fondo del posto. Mi avvicinai per guardare, e, con stupore e spavento allo stesso tempo, vidi che ero io la persona sotto i ferri…

Non poteva essere!...Io in effetti stavo guardando…Eppure la persona che gridava dal dolore mi rassomigliava in modo assoluto, come se fosse una perfetta mia controfigura…

“Perché non gli date qualcosa per alleviargli il dolore?” chiesi. Mi faceva pena sentirlo urlare, mi faceva pena ancora di più per il fatto che avevo l’impressione d’essere al posto del mio sosia, a straziarmi dal dolore…

“Chi sei? Che vuoi? Fatti i c… tuoi…” prese ad inveire contro di me quello che doveva essere il capo dei chirurghi, senza neppure degnarmi d’uno sguardo, tutto intento come era alla sua operazione. Non si risparmiò neppure una valanga di improperi, di imprecazioni e di vaffa… che non mi pare il caso di riportare…

“Chiedevo soltanto!” mi sono scusato.

“Ma non sai”, prese a gridare il secondo dei chirurghi “che per questo tanghero abbiamo fatto venire a posta il capo anestesista dell’Ospedale di Tolmezzo. Ora gli sta praticando le soluzioni anestetizzanti più innovative, a livello europeo. Premendo sulla giugulare con una sua tecnica particolare sta cercando di far assopire il cervello, mentre gli sta facendo bere da una fiasca un prodotto di sua invenzione, realizzato su ricetta d’una zia francese, macerando erbe raccolte nei prati di Fusea, messe a macerare nell’alcool metilico che si forma come testa e coda nel processo di distillazione della grappa…”

“Sarà!” commentai. “Ma questo mio sosia, malgrado queste innovazioni, sta soffrendo come una bestia. Non vorrei che fosse un triste presagio di ciò che dovrò soffrire anch’io!..

“Non aver paura! Non hai nulla da temere tu!” mi rassicurò una voce da dietro le mie spalle.

Mi voltai. La stranezza dell’incontro con il mio sosia che si stava operando, mi aveva già messo in grande imbarazzo, incapace di capire dove diavolo fossi finito. Il nuovo incontro non fece che aumentare la mia confusione. Avevo davanti fratello Umberto!!!... Si trattava senza ombra di dubbio dell’amico che era stato a farmi visita al pomeriggio. Avevamo bevuto assieme del buon Tocài, fino alla sera precedente il mio ricovero in ospedale. Ma che cosa ci faceva vestito da frate?...

Capii subito che si trattava del responsabile della struttura. Dava ordini, indicazioni, suggerimenti…

“Cosa fai qui? gli chiesi.

“Non vedi? rispose, “ mi hanno affidato la responsabilità di gestire questa struttura. Io seguo gli aspetti organizzativi, il capo chirurgo gli aspetti sanitari”.

“Ho avuto già modo di prendermi i suoi insulti!”

“Lo conosciamo! Ma mai come in questo caso le apparenze ingannano. E’ un bravuomo un po’ troppo confusionario, pianta casini catastrofici per un nonnulla, ma è molto professionale e soprattutto ha una grande sensibilità, un cuore grande. Per un amico poi si fa in quattro… Per fare un piacere ad un amico, alle volte è capace di buttarmi all’aria tutta l’organizzazione che con difficoltà sono riuscito ad attivare”.

“Comunque caro Umberto o fra Umberto se preferisci, se questo è un ospedale, si poteva spendere anche qualcosa di più per farne una struttura un po’ più decente,” obiettai.

“Guarda, ribattè, che questa è una delle strutture più nuove di tutta l’alta Italia. Io comunque non vi ho responsabilità né in positivo nè in negativo. Io devo far funzionare ciò che c’è… Con questo compito mi hanno spedito sin quassù i miei superiori del convento di S.Antonio a Padova.

Confesso di aver lasciato Padova senza alcun entusiasmo. Si stava così bene laggiù nel convento di città, alternando la preghiera al passatempo dei piccoli lavori nell’orto… Qui è tutto diverso. Anche la fede qui finisce per vacillare. Di fronte a tanta sofferenza non puoi non chiederti dove sia Dio…

Per aiutarmi e consolarmi ha voluto seguirmi anche mia madre, come Monica seguiva S.Agostino. Ma ora si è ammalata gravemente anche lei…Non vorrei finisse come con S.Agostino e la madre Monica. Mi dispiacerebbe doverla seppellire nel cimitero di questo paese…”

“Vedrai che guarirà!” gli dissi, con una di quelle solite frasi di circostanza che sovrabbondano nelle relazioni tra persone all’interno degli ospedali. “Se ritieni tu che questa sia tra le strutture migliori…” continuai. “Non posso non crederti, ma io continuo ad avere i miei dubbi. Ho visto poco fa passare due inservienti che portavano su un tavolato le scodelle per la cena. Mi hanno ricordato le due persone in primo piano nel quadro di Brugel il Vecchio “Banchetto nuziale”.

Bruegel il Vecchio: Il banchetto nuziale

Bruegel il Vecchio: Il banchetto nuziale

Vi ho visto dentro una brodaglia d’un colore misterioso, strano e indistinto, esalante un lezzo che mi ha costretto a voltarmi dall’altra parte per non vomitare. I giacigli poi, sui quali riposano gli ammalati non mi paiono un granchè...”

“Sul cibo hai ragione! Lascia un poco a desiderare! Abbiamo appaltato il servizio alla Cooperativa degli Affamati, ed abbiamo il sospetto che ci facciano la cresta per poter aiutare i propri soci. Sui giacigli no, non hai ragione… i nostri sono fatti con fieno odoroso raccolto in montagna, negli altri ospedali sono invece fatti con le stoppie del grano, e sono quindi anche meno soffici”. “Scusami un momento”, aggiunse e si spostò in fretta nella direzione da cui era arrivata una invocazione d’aiuto più forte e straziante. Risi tra me e me vedendolo allontanarsi sculettando, sì che la tonaca a mezz’aria dondolava come fosse una campana.

Bene! Avevo capito quale era il suo ruolo… avevo capito quasi tutto sull’organizzazione di quello strano ospedale. Ma lui, il mio amico, lì come c’era finito? Lo conoscevo come un fervente praticante la Chiesa, non mi risultava tuttavia si fosse fatto frate. E io che ci stavo a fare? Lui era vestito con il saio dei francescani. La tonaca si allargava a coprire lo stomaco dilatato dai bicchieri di Tocài, poi scendeva larga come una campana, fino a poco sotto le ginocchia. Da sotto sbucavano le due gambe, magre e rinsecchite come quelle di un ammalato. I piedi infilati in un paio di sandali troppo grandi, lo costringevano a camminare dondolando il corpo e strascinando i piedi. Per questo avevo riso prima guardandolo allontanarsi di corsa…

Gli avrei voluto chiedere delle spiegazioni! Ma dal momento che mi aveva visto e non si era stupido della mia presenza, doveva essere in qualche modo tutto normale ciò che mi stava capitando. Ero io che non capivo… Ma non capivo che cosa?... Ero anch’io vestito come loro?... Non ci avevo fatto caso...tutto preso da ciò che mi circondava non avevo pensato a me… Loro erano tutti vestiti con brevi tuniche dai colori smorti… Mi facevano pensare a personaggi ambientati nel Medioevo, come riprodotti in qualche quadro dei fiamminghi.

Non potendo chiedere in modo diretto come mai fossimo lì, ed a fare che cosa, ebbi l’idea di chiedere che giorno fosse. Posi la domanda alla prima inserviente che mi passò accanto.

“Siamo al 25 gennaio dell’anno domini 1348” mi rispose con una puntale precisione, come se non fosse stato sorpreso dalla mia domanda. Avevo già avuto modo di constatare ed apprezzare la disponibilità e l’umanità delle inservienti. Mi ero dimenticato di chiedere se si trattasse di suore di qualche ordine o di laiche. Erano le uniche persone vestite a modo, con le tuniche pulite e in ordine. Fiori di grazia sbocciati per caso nel campo del dolore!...

L’inserviente nella sua grande disponibilità, stava per aggiungere qualcosa forse per aiutarmi a capire di più, quando un urlo straziante si districò ed emerse tra il groviglio di gemiti, pianti e imprecazioni che costituiva il rumore di fondo costante caratteristico di quella specie di ospedale.

“La peste!” urlò qualcuno con quanto fiato aveva in gola.

Vidi Fra Umberto precipitarsi nella direzione dalla quale era arrivato il grido. Incrociò i quattro inservienti che avevano raccolto in una coperta l’ammalato, a cui era stata diagnosticata la peste.

“Non potete!” gridò cercando di fermarli. “E’mia madre!”

“Che sia anche la madre del padreterno, a noi non ce ne frega!” reagì brutalmente uno dei quattro. “Ha la peste e deve essere portata via!” “Ha la peste!” urlò di nuovo perché tutti nel campo capissero quale nuovo pericolo incombeva su tutti.” Con uno spintone fecero cadere fra Umberto che si stava frapponendo e proseguirono nel loro cammino per portare l’infetta al di fuori dell’ospedale.

Uscirono per una porticina che si trovava sul lato opposto alla Chiesa, e depositarono l’appestata nel prato retrostante l’ospedale.

Fra Umberto li inseguiva supplicandoli che avessero pietà. “E’ mia madre!” continuava a ripetere come fosse una giaculatoria. Ma quelli non gli davano retta... Quando lo raggiunsi, era solo accanto alla povera madre, rannicchiata dentro a degli stracci che avrebbero dovuto essere una coperta.

Piangeva ed imprecava contro l’ingratitudine degli uomini. “Fossimo rimasti a Padova!”. E invece siamo venuti fin quassù in Friuli a fare del bene…E questo sarebbe il grazie per il bene che abbiamo fatto?...

Non sapevo che dirgli…Ci sono circostanze nelle quali è il frate che deve consolare gli altri, trovando nel Vangelo le parole di speranza. Io da laico non avevo argomenti per aggiungere nessun commento… Le parole di compassione e di misericordia si rivolgono con facilità agli altri, molto più difficile è rivolgerle a noi stessi…Anche Fra Umberto si dimenticò d’un tratto di tutte le parole di consolazione che aveva usato con gli ospiti dell’ospedale, e prese ad imprecare contro tutto e contro tutti, per l’ingiustizia di cui si sentiva vittima, e di cui era vittima soprattutto sua madre. Dopo aver fatto tanto volontariato in ospedale, ora era stata abbandonata a morire lì nel freddo d’una notte di gennaio, come se fosse stata un cane randagio…

Mentre fra Umberto imprecava, prese a suonare la piccola campana della chiesa. Forse il sacrestano con quel suono voleva accompagnare in paradiso la madre di Fra Umberto. Il suono della campana avrebbe dovuto riportarlo alla preghiera, ritrovare nelle preghiere per i moribondi il modo per accompagnare la madre nell’ultimo viaggio… Ma non riusciva a pregare…Gli pareva che l’ingiustizia fosse troppo madornale per poter essere perdonata, per dare un senso alla preghiera.

“Che la maledizione di Dio possa scendere su di voi!” gridava. Che Dio possa distruggere questo ospedale dalle fondamenta, e tutto questo paese come fece con Sodoma e Gomorra…”

“Mentre così diceva, la terra prese a tremare, e il prato a muoversi come se le viscere della terra fossero sconvolte da un terribile singulto. Dalle montagne si staccavano enormi massi che scendevano con un fragore assordante, sollevando enormi nuvole di polvere. L’edificio dell’ospedale fu attraversato da una vibrazione improvvisa e si sfasciò come se fosse stato di cartapesta. Quanto tempo durò il cataclisma? Forse un minuto soltanto, ma parve una eternità…Non c’era più l’ospedale, non c’era più la chiesetta all’ingresso…Tutto era ridotto ad un cumulo di macerie, ad una sorta di strano formicaio.

Dalle macerie, appunto come da un formicaio, presero ad uscire delle ombre di persone che si incamminarono in una sorta di processione dentro al bosco di pioppi. Il bosco stesso si trasformò nella processione, che si snodò lentamente, come la corrente d’un fiume. Ma non scendeva, saliva… Credo verso il cimitero monumentale di Gemona, o verso il Duomo… non so…accompagnata dal suono della campana della chiesetta. A tratti si distinguevano bene i rintocchi, poi d’un tratto ai rintocchi si sostituiva il rumore della campana, che con il terremoto era caduta assieme alla chiesa…

Cantavano sommessamente, una melodia gregoriana che mi ricordava il Benedictus con il quale nella tradizione carnica si accompagnano i defunti al cimitero. Avevo l’impressione di far parte anch’io della processione orante. Cantavo ciò che cantavano gli altri, l’intonazione era quella del Benedictus, ma le parole era altre: era una sorta di parafrasi del Padre nostro che non avevo mai sentito prima:

Infinito Esistere da cui trae origini il mio divenire,

sia riconosciuta la tua esistenza

Si affermi un modo di convivenza tra gli uomini,

che tenga presente la tua esistenza

nella dimensione del nostro vivere quotidiano

come lo sarà nella dimensione eterna.

Dacci di vivere ogni giorno

nella tua dimensione dell’essere.

Perdona la nostra mancanza di fiducia

come noi perdoniamo la mancanza

di fiducia nei nostri confronti, da parte dei fratelli.

Non favorire la nostra mancanza di fede,

ma invece aiutaci a superare la tendenza a negarti!!!

Cantavano così…e l’originalità di quel Padre nostro mi portò a pensare che si trattasse del gruppo dei Catari di Gemona che come si legge nella storia, ricevettero la visita del vescovo cataro Pietro Gallo.

Cantavamo così, andando non so dove…Perché senza arrivare da nessuna parte, a un certo punto mi sono ritrovato nel mio letto d’ospedale, come se non l’avessi mai abbandonato. Cercavo di raccapezzarmi, dando un senso a ciò che mi pareva di aver visto e sentito...”Che cosa ho vissuto?” mi stavo chiedendo. “Un sogno? Un viaggio dell’anima, come quello che erano soliti effettuare i benandanti?”. Non riuscivo a darmi una risposta…

Le notti successive mi posi in attesa nella speranza di sentire di nuovo il suono della campana. Ne avevo parlato con il mio amico chirurgo, e come era prevedibile, si era messo a ridere ed a prendermi in giro… Avrei voluto sentire il suono, per farlo sentire anche a lui…avrei voluto far vedere anche a lui che cosa accadeva durante la notte attorno al suo ospedale.

Ma non si ripresentò l’occasione! Nemmeno io ho più sentito il suono della campana… Mi è rimasto quindi il dubbio di aver sognato… Sono arrivato comunque alla conclusione che il suono avesse come scopo quello di far rivivere a qualcuno quella scena. Io l’avevo vista. Io la potevo testimoniare. Non c’era più motivo perché si ripetesse. Il fatto d’aver avuto un testimone, aveva forse dato la pace eterna a quelle ombre di persona. Non so! Io mi sono limitato a scrivere ciò che ho visto…

Nella storia del Friuli in effetti si ricorda il disastroso terremoto del 25 gennaio 1348. Si ricorda anche la disastrosa epidemia di peste che nello stesso anno colpì chi s’era salvato dal terremoto. La peste, dice la storia, si sviluppò alcuni mesi dopo il sisma, ma forse come dimostra il caso della madre di Fra Umberto, l’epidemia stava già incubando, al momento del terremoto.

Dal Blog http://raccontipiutti.blogspot.com



[1] Quando sono stato ricoverato all’ospedale i Gemona il 1 aprile 2008 stavo lavorando ad un serie di racconti, per una ricostruzione fantastica della storia della Carnia, ed allo stesso tempo ad una rivisitazione laica del Vangelo. In ospedale ha letto “Morte a credito” di Celine. Nel racconto cercando di imitare lo stile di Celine, fondo assieme le cose alle quali sto lavorando, per presentare una ricostruzione fantastica della mia esperienza in ospedale.

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