domenica 13 gennaio 2008

Lis Vinadis di Arta.



Tutti coloro che s’interessano della storia della Carnia sanno, o dovrebbero sapere, che una volta tra Arta e Sutrio c’era il lago di Soandri. Il pianoro di Alzeri era franato nell’alveo del torrente But, creando una diga che aveva formato il lago. Una volta… ma quando?..
Il Grassi che oltre ad essere stato uno storico era un prelato e che quindi può essere senz’altro considerato degno di fede, sostiene che si trattava del Medioevo e precisamente dell’XI secolo. Per essere nato a Formeaso, a meno d’un chilometro dalla diga in questione, gli si dovrebbe poter credere anche quando, a conferma, ricorda che ai suoi tempi (siamo nel settecento) si vedevano ancora a Sutrio ai piedi della rocca sulla quale sorge la chiesa di Ognissanti gli anelli ai quali venivano agganciate le barche.
“Panzane!” dice invece il Marinelli nella sua Guida della Carnia facendo eco al Gortani. Il lago c’è stato effettivamente come risulta dalle indagini geologiche, ma qualche migliaio di anni fa, nel periodo appena postglaciale.
Forse c’era ancora quando l’uomo arrivò in Carnia, almeno seimila anni prima di Cristo. Quei primi uomini videro il torrente But rompere la diga, svuotare il lago e riprendere il suo corso naturale, e raccontarono ai loro figli che c’era una volta un lago.
Quando? Una volta, non molto tempo fa…
I figli lo ripeterono ai figli ed ai nipoti. Così, dopo ottomila anni, anche mio nonno, quando ero bambino, mi raccontava che una volta, come fosse poco tempo fa, a Sutrio c’era il lago di Soandri.
Ma l’origine del lago nel racconto di mio nonno era molto più complessa e fantasiosa di come la riporta il Grassi che pure quanto a fantasia nella sua storia della Carnia dimostra d’averne tanta da riuscire a riempire tutti i buchi neri della storia ufficiale, fino a fare di Zuglio la capitale del Friuli longobardo.
Una frana dal monte Rivo trascinata dal torrente Radice lungo il pendio del falsopiano di Alzeri fino a sbarrare la corrente del fiume But, se non è un fatto storicamente provato è comunque plausibile. Ma per mio nonno gli eventi si erano svolti in modo ben più complesso, le cose erano andate ben diversamente…
C’era sta una gara tra San Pietro, salito da Roma fino in Carnia per costruirsi la chiesa sul costone sovrastante il municipium romano di Iulium Carnicum, e il diavolo, che gli voleva impedire la costruzione di quell’avamposto cristiano in Carnia. Gli uomini che abitavano quelle montagne, a partire dall’invidia, avevano tutti i sette vizi capitali, ed anche qualcuno in più, quindi erano tutti suoi, sosteneva il diavolo. San Pietro, dal canto suo, ribatteva che anche per i barbari carni era morto in croce in Palestina il figlio di Dio.
Il diavolo ce l’aveva in particolare con gli abitanti di Soandri, il paese che sorgeva ove oggi c’è il Comune di Sutrio, perchè si erano convertiti in massa al cristianesimo. C’era il rischio che il loro esempio fosse seguito dagli altri villaggi della Carnia, anche perchè, tutti potevano facilmente constatare quanto grandi fossero i vantaggi derivati dalla conversione. Negli altri paesi (allora come ora!) andava tutto storto, anzi, a dir il vero, sempre peggio, pioveva quando avrebbe dovuto far bel tempo, e c’era un sole da spaccare le pietre quando la campagna avrebbe avuto bisogno di pioggia. Per i cristiani di Soandri invece, tutto andava per il verso giusto. Quando pregavano che piovesse, Pietro interrompeva il suo lavoro di muratore, faceva raccogliere due o tre nuvole sopra il paese e subito si metteva a piovere. Quando la gente lo pregava che facesse beltempo, con gli scongiuri di San Pietro, il sole riusciva subito ad aprirsi un varco tra le nuvole, proprio sopra il paese.
Il diavolo non sapeva più che pesci pigliare. Pietro che di pesci s’intendeva se la rideva e continuava ad andare avanti con la sua costruzione, pietra dopo pietra, mentre il diavolo correva su e giù per la Carnia facendo brontolare il tuono, scagliando terribili saette sugli alberi più grandi e più belli della valle, ed ogni tanto scardinando persino le montagne con terremoti spaventosi.
A dire di mio nonno avrebbe sacraboltato tutta la Carnia, che tradotto dall’italofriulano vorrebbe dire che l’avrebbe messa sottosopra , se non gli fosse venuta in soccorso sua madre con una idea geniale. “Fai franare il monte di Rivo nel fiume e vedrai!” gli disse. Satana che per essere maschio non arrivava alla perfidia di sua madre, sulle prime non capì il suggerimento, ma ubbidiente come era verso sua madre, malgrado fosse un diavolo, diede subito ordine alle streghe di far rotolare dei massi dalle falde del monte di Rivo, fino a sbarrare il corso del torrente But.
“Meglio di così!…” pensarono gli abitanti di Soandri, che il giorno dopo si trovarono un piccolo lago, appena sotto il paese. “San Pietro per non perdere le abitudini s’è costruito un piccolo lago, ed ora insegnerà a pescare anche noi!…”
S’accorsero del trucco del diavolo solo la prima volta che chiesero a Pietro di far piovere. Mentre scrosciava la pioggia, l’acqua del lago cresceva, cresceva…e avrebbe rapidamente sommerso tutto il paese… “Torni il sereno!” dovettero supplicare in fretta. Appena in tempo!.. perchè l’acqua aveva già invaso le case più basse. Ma così, per evitare di allagare il paese, non poterono più chiedere a San Pietro di aver la pioggia. La valle in breve si inaridì, non ci fu più foraggio per gli animali, ingiallirono e si seccarono i campi di granoturco di patate e di fagioli, e si diffuse una terribile carestia.
“Salvaci!”, chiedevano gli abitanti di Soandri a S.Pietro, ma neppure il primo degli apostoli poteva qualcosa contro il maleficio delle streghe del Landri che aveva reso inamovibili i massi collocati a formare la diga. “E in effetti”, precisava mio nonno, “i sassi restarono lì a formare il lago finchè le streghe furono eliminate dalla Santa Inquisizione”. Al povero Pietro non restò altro da fare che, ( in modo, a dir il vero, molto poco cristiano!), ricambiare maleficio con maleficio, sortilegio con sortilegio.
“In eterno raschierete con le vostre mani le rocce del monte di Rivo”, gridò l’apostolo alle streghe, tanto arrabbiato che gli tremavano persino i peli della barba. “E sono ancora lì che con le mani grattano il monte” concludeva mio nonno. In realtà, anche oggi, il monte sembra quasi si stia sbriciolando a poco a poco lasciando emergere, ove la roccia è più consistente, dei costoni che ricordano dei torrioni o dei campanili. Sono appunto i Torrioni (detti anche campanili) dei Lander, meta turistica molto frequentata sopra il paese di Arta Terme.
Pensavo a tutte queste cose e soprattutto al racconto di mio nonno, la sera dell’ultima mia salita alla statua della Madonna dei Lander, che una devozione recente ha messo a guardia di uno dei torrioni. Troppo stanco, facevo fatica ad addormentarmi e riflettevo sullo strano modo di pensare dei friulani. Nella nostra lingua non c’è il termine “futuro”, mentre il termine “passato” diventa un “una volta” imprecisato e senza tempo, un termine che schiaccia l’uno sull’altro secoli e millenni finendo per far convivere San Pietro, costretto a costruirsi da solo la chiesa, con le streghe chiamate a costruire la diga del lago di Soandri. Il termine “una volta”, è come un quadro senza tempo sul quale ognuno lascia una pennellata, finché si modifica l’impianto originario e il quadro cambia, facendo apparire nuove figure, nuove scene.
Anche la leggenda del racconto di mio nonno, pensavo, forse si era sovrapposta ad altre che si raccontavano prima, perché anche prima del cristianesimo qualcuno aveva certamente sentito il bisogno di trovare una spiegazione per la stranezza del monte di Rivo, regolare e boscoso sugli altri versanti, roccioso, scosceso e friabile, su quello che guarda alla chiesa di S.Pietro.
Mi addormentai con questo pensieri e mi sognai di star salendo di nuovo ai torrioni dei Lander. Ad accompagnarmi nel sogno, invece di Gianluca che mi aveva seguito durante il giorno sbuffando contro il mio cane ed imprecando contro le vespe che sembrava l’avessero preso in particolare simpatia, c’era ora mio nonno.
“Vieni!”, mi diceva, dandomi fretta e prendendomi in giro per la fatica che facevo a salire i tanti tornanti della mulattiera, che da Alzeri sale ai prati posti a corona attorno alla vetta rocciosa del monte di Rivo. Di prati, in realtà, durante il giorno ne avevo visti soltanto due, stretti attorno a stavoli diventati ormai fatiscenti nella fatica inutile di difendersi dall’avanzare inarrestabile del bosco. Nel sogno invece, tutto il versante era a prato. E su, dove ora c’è l’ultimo stavolo, c’era persino un villaggio di capanne. E più su ancora… sul pianoro dal quale si domina la valle, ove oggi c’è il bivacco, c’era una capanna più grande delle altre.
Stavo riprendendo fiato sul sentiero che finalmente, dopo tanto salire, si piega in orizzontale, attraversando il pianoro ondulato, quando vidi uscire dalla grande capanna un vecchio vestito di bianco. Bianchi aveva anche i capelli, che gli scendevano lunghi sopra le spalle, bianca la lunga barba che gli ricopriva il petto fino alla cintola.
“Mandi Lander!” lo salutò il nonno come si trattasse d’un vecchio amico. E senza alcuna presentazione, come se da tempo mi stesse aspettando, il vecchio prese a raccontarmi di come lui fosse il Druido, il capo del villaggio, di come attorno alla sua capanna ci fosse il cimitero, con i morti sepolti sotto i massi sparsi sul pianoro, attorno alle tre grandi pietre ove si celebravano i riti in onore del Dio Beleno. Notai che nel sogno le tre pietre erano molto più alte di come si vedono adesso. “Col tempo il terriccio del bosco le ha di certo in parte ricoperte…”
Svegliandomi, mi ricordo d’aver riportato dal sogno questa notazione banale sulle pietre e invece purtroppo di non avere alcuna memoria delle tante cose che il Druido Lander mi aveva raccontato e spiegato, durante le ore in cui eravamo stati seduti assieme a guardare la valle, attendendo il tramonto. La luce del risveglio che spesso cancella interamente la memoria di ciò che abbiamo sognato, non era tuttavia riuscita ad eliminare dalla mia mente il ricordo di ciò che nel sogno avevo potuto vivere e vedere, dopo aver lasciato Lander il Druido, al calare delle prime ombre della sera.
Era la notte del plenilunio di mezza estate, per capirci, per noi la notte di San Giovanni, il 24 giugno, anche se il nostro calendario basato sui giorni invece che sulle notti, e quindi più attento ai solstizi che ai pleniluni, non fa coincidere la notte di San Giovanni con il plenilunio. Il chiarore della luna era così vivo, che della notte restava soltanto un’ombra leggera, a coprire come un velo la valle. Si distingueva ogni cosa, come fosse giorno. Anche lontano, in quella luce irreale si poteva riconoscere chiaramente ogni montagna, ogni valle, ogni villaggio fin giù verso la pianura. Ma una volta individuati, tutti questi punti, in quella luce magica, parevano riferimenti d’un mondo diverso, in una diversa dimensione. Così pure d’un altro mondo sembrava in fondo alla valle, il letto bianco di ghiaie del torrente But, segnato dal serpente dell’acqua che brillava d’argento al riflesso dei raggi della luna.
D’un tratto, dal luccicore del torrente presero a staccarsi delle scintille di luce, una miriade di lucciole, come è normale per la notte di San Giovanni. L’insieme dei punti luminosi prese lentamente a sollevarsi ed a salire infittendosi a formare una sorta di enorme sciame. La nuvola di luce s’alzò quindi come un refolo di nebbia dopo il temporale, distendendosi sul bacino del rio Ràndice per poi diffondersi ed occupare tutto il sovrastante anfiteatro dei torrioni del Lander. I punti di luce, salendo ed entrando tra le rocce, erano diventati sempre più grandi e si erano disposti in file sovrastanti, come se fossero veramente sulle gradinate di un anfiteatro.
Guardando dai bordi, ove mi ero avvicinato assieme a tutti gli altri abitanti del villaggio, ora si vedeva chiaramente che non si trattava di lumi. Erano invece giovani donne bellissime, con lunghi capelli biondi, risplendenti nei loro vestiti bianchi, come fossero fatti di luce.
“Sono le Vinadie”, prese a spiegarmi mio nonno, “le agane o fate dell’acqua di tutta la valle che si ritrovavano per la festa del plenilunio d’estate richiamate da Lander, il Druido di Soandri”. Tutto l’anfiteatro era ormai fatto di luce e nella luce si formò un po’alla volta un suono, come un respiro uscito dalla terra, prima debole, poi sempre più forte. Era una canzone, una nenia... Non ne capivo le parole, ma la melodia m’era familiare, con un contrappunto di suono di campane, che usciva proprio dai torrioni come fossero veramente dei campanili con dentro, nascoste nelle celle, le campane.
Portata dal vento la musica si sciolse lungo la valle, facendo accendere come d’incanto al suo passaggio dei grandi fuochi in corrispondenza d’ogni villaggio, d’ogni capanna sparsa sulle montagne. Ed anche gli abitanti di Soandri, che con me si erano disposti a corona ai bordi dell’anfiteatro, avevano nel frattempo acceso ognuno una torcia, formando una treccia di luce rossa, che bordava di porpora la bianca luce delle Vinadie. Sul colle di fronte, ove ora sorge la chiesa di S.Pietro, s’accese infine un ultimo falò, più grande di tutti, con rosse lingue di fuoco che salivano fino alle stelle.
Ricordo d’aver chiesto al nonno il significato di quell’ultimo grande fuoco, ma la domanda è l’ultimo ricordo del sogno. Sulla risposta mi sono svegliato, senza poterla ricordare, come non ricordo i discorsi di Lander il Druido.
I sogni sono purtroppo così, si ricordano a tratti, nel risveglio si perdono le cose più importanti. Restano soltanto dei lampi, perchè da lampi di singole suggestioni nascono i sogni. Avevo letto nei cartelloni per i turisti che il lago di Soandri non è esistito in epoca storica e che vengono chiamate “vinadie” le strisce che disegnano trasversalmente le faglie dei Lander. M’era venuto di pensare che il nome Soandri è così simile al Sorantri di Raveo ove è stato scoperto un villaggio dei Celti e quindi nel sogno avevo portato i Celti anche sul monte di Rivo, dove peraltro, se è vero che amavano i luoghi dai vasti orizzonti, non potevano non essersi insediati.
Non saprei invece per quale contorto modo della mia mente di fare gli accostamenti, nel sogno le vinadie fossero diventate delle fate, mentre nei cartelloni illustrativi avevo letto che, secondo la leggenda, le faglie del monte erano frequentate dai dannati. Forse in questo sovrapporsi delle fate alle streghe, delle fate ai dannati, stava tutta l’originalità del mio sogno.
Forse in questa sovrapposizione si poteva persino, in qualche modo, trovare la risposta alla domanda che mi ero posto prima di addormentarmi sul significato del “c’era una volta”. Una volta, quando?... Non ha importanza! Il fiume della Carnia non può vedere mai il mare, ma il mare vive dell’acqua del fiume della Carnia. L’acqua ch’è scesa giorno dopo giorno, anno dopo anno, assumendo persino nel tempo nomi diversi, forma ora un unico mare, un unico oceano.
Come nell’oceano-mare non si può distinguere l’acqua del fiume, così l’uomo del fiume non potrà mai leggere la storia dell’oceano-mare nel quale s’è disciolta anche la storia dei Celti, che hanno abitato le montagne del Friuli.

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