sabato 26 marzo 2011

La profezia dei Dobes sulla fine del mondo.

La profezia sulla fine del mondo al 21 dicembre 2012 si ritrova anche nella storia dei Dobes, il Popolo dei Piccoli Uomini che ha abitato la Carnia nella notte dei tempi, ma con un originale interpretazione dell’idea della fine del mondo.

La profezia e la storia del Piccolo Popolo sono state scoperte in una pergamena ritrovata casualmente sul monte Arvenis in Carnia da un mio amico, che poi ha provveduto alla traduzione ed alla trascrizione, e mi ha lasciato in eredità il manoscritto.

Io ho ritenuto di dover portare alla luce storia e profezia nel libro “I Dobes, la saga del Piccolo Popolo di Carnia”.

Il libro è acquistabile nelle Librerie Feltrinelli.

E’ possibile leggere l’anticipazione delle prime pagine (e anche acquistare il libro) all’indirizzo:

http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=590175

Mandi.

Igino Piutti.

mercoledì 2 marzo 2011

L'orma del tempo.


Ho raccolto tutti i racconti pubblicati nel blog in un volume che si può leggere in anteprima o acquistare on line nella Libreria di Il Mio Libro. CLICCA QUI PER ENTRARE.
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Racconti
1a edizione 2/2011
Formato 15x23 - Copertina Morbida - bianco e nero
232 pagine
Il libro è anche acquistabile presso le Librerie Feltrinelli.

domenica 20 febbraio 2011

La saga del Piccolo Popolo di Carnia.

Forse l'amore per la mia terra m'ha preso la mano, e la fantasia mi ha condotto in uno strano percorso che ho intitolato"I Dobes, la saga del Piccolo Popolo di Carnia"...

Nella notte dei tempi, in un’epoca sospesa tra storia e preistoria, quando sulle Dolomiti s’era affermato il regno dei Fanes, qualcuno sostiene che le Alpi Carniche fossero abitate dal Piccolo Popolo dei Dobes. Per qualcuno sono estinti, per altri vivono ancora, invisibili nelle terre di Carnia, montagna senza confini tra cielo e terra, tra storia e fantasia, tra realtà e poesia…

Vivono ancora nel respiro dei boschi e nel mormorio dell’acqua, nel palpito delle albe e nel brivido dei tramonti. Parlano ancora nella ingenuità del sentire degli ultimo carnici…

La loro leggenda è stata ritrovata in una pergamena che, finalmente, viene portata alla luce nelle pagine di questo libro, acquistabile nelle librerie Feltrinelli e in internet nel sito di Il mio libro…

Il lettore che volesse avventurarsi nella lettura dovrà scusare la forma approssimativa, ma non ho la pazienza necessaria per tornare a rivedere e correggere la prima stesura fatta di getto al computer in vari momenti.

martedì 15 febbraio 2011

Il lago di Monte Cucco.


Il bèc d’àur (il caprone d’oro).

La valle del Chiarsò nella quale sorge il Comune di Paularo viene chiamata anche valle di Incaroio. Un nome anche questo probabilmente storpiato nella traduzione dal carnico. Il termine locale Cjaròi infatti, doveva semmai venir tradotto con Caroio. Ma la frase andare “in Cjaròi” per significare l’andare nella valle del Cjaroi, credo alla fine abbia dato luogo alla storpiatura per cui oggi ci troviamo a parlare della valle d’Incarojo invece che di quella del Caròio. Ma comunque la si voglia chiamare la valle di Paularo, l’etimo di Cjaròi nella parlata locale è chiaramente di derivazione celtica.
La conferma indiretta viene dal fatto che in nessuna valle della Carnia si sono trovate evidenti tracce della presenza dei Celti come in questa, in particolare con il ritrovamento del cimitero celtico di Misincinis. E’ quindi logico che nella tradizione orale di questa valle ci siano molti leggende che si richiamano erspressamente al periodo celitco. Fra queste la più famosa è senza dubbio quella del bèc d’àur (caprone d’oro) che si racconta a Valle e Rivalpo.
Anche di questa leggenda non c’è una versione unica, ci sono varianti diverse che concordano tuttavia su alcuni elementi. L’elemento comune è il fatto che gli altopiani di mezza montagna in destra del Chiarsò erano un tempo abitati dai Pagàns. E’ questo il nome con il quale i conquistatori romano-cristiani, chiamavano gli ultimi residui del clan celtici, che continuavano a vivere la loro cultura e la loro religione isolati sulle montagne. In molte zone della Carnia ci sono delle grotte denominate dei Pagàns o Salvàns, a ricordo degli ultimi gruppi di pagani o selvatici uomini dei boschi che vi hanno abitato. Solo nella valle del Cjaròi tuttavia, si raccontano delle leggende espressamente riferite a queste persone.
Si racconta dunque a Valle Rivalpo che sopra il paese, in località Chiaserualis c’era un villaggio, del quale si possono ancora vedere i resti, abitato dai Pagàns. Un villaggio analogo sorgeva nei pianori di Pornescis, sopra il paese di Cleulis al di là del rio di Valle. Quello di Cjaserualis era il villaggio celtico più importante della valle perchè oltre al solito villaggio con le case dai tetti di paglia, aveva un grande castello. Già questo fatto sarebbe stato sufficiente a distinguerlo dagli altri villaggi, ma il fatto straordinario era che il castello non era stato costruito da mani umane, e che non vi abitavano degli umani. Era stato portato lì da non si sa dove, da essere ultraterreni... Un po’ come si racconta per la casa di Nazareth portata dagli angeli a Loreto. Vi abitava un caprone d’oro, o rivestito d’oro. Qui i racconti si differenziano. Secondo quelli di Valle che sono più portati ad esagerare il Bèc era proprio interamente fatto di oro, secondo quelli di Rivalpo, più realisti il caprone era un vero animale, con il pelo fatto di fili di oro. Che tra le due borgate ci siano due versioni diverse, risulta più che naturale, se si pensa che neppure sul nome della località hanno la stessa versione, ciò che a valle è Cjarsovalas a Rivalpo diventa Cjarasualas. Per non far torto nè agli uni nè agli altri, nel raccontò userò d’ora in poi il termine di Chiaserolis, usato dal Lazzarini che all’inizio del secolo scorso è stato il primo a studiare i resti del villaggio.
Comunque, lasciando perdere la disputa sul nome, nel merito a me onestamente (non me ne abbiano quelli di Valle!) sembrerebbe più credibile l’idea di un animale con il manto d’oro. Se così fosse gli studiosi troverebbero un interessante spunto di ricerca per provare a capire come sia possibile che in una valle della Carnia, si sia diffuso lo stesso mito del vello d’oro che secondo la mitologia greca si trovava nella Colchide, nell’attuale Asia Minore, e che fu rapito da Giasone e Medea. Un collegamento che intriga anche uno come me che, pur non potendosi considerare uno studioso della materia, non può dimentica d’essersi laureato con una tesi proprio sulla tragedia di Medea.
Guarda il caso! Studiare all’Università il mito di Medea che rapisce il vello d’oro, per poi ritrovarsi da vecchio sui monti della Carnia, con lo stesso mito!...
Perchè, caso vuole, che anche la leggenda della valle del Cjaròi si sviluppi sul tema del rapimento del vello d’oro, o del bèc fatto d’oro. Comunque, anche per quelli di Valle che lo credevano fatto d’oro, il bec non era una semplice statua, ma un essere soprannaturale vero e proprio. Tutte le tradizioni orali convengono sul fatto che si trattava di un essere straordinario che proteggeva i Pagàns, privilegiando come è evidente quelli del villaggio dove risiedeva. Aveva una particolare virtù, si diceva che favorisse la fecondazione delle donne...Forse era soltanto una diceria, ma sta di fatto che tutte le famiglie di Cjarsevualis avevano nove o dieci figli, mentre la gran parte delle donne di Pronescis non avevano figli. Se non si fosse invertita la tendenza, era in pericolo la stessa sopravvivenza del villaggio, per questo a quelli di Pronescis, (ad estremi mali estremi rimedi!) venne l’idea di rapire il Bec d’àur, per portarlo nel proprio villaggio.
Nel mito greco Medea si mosse accompagnata dagli Argonauti per rapire il vello d’oro custodito da Creonte. Quelli di Pornescis si mossero in massa, uomini e donne, con tutte le armi di cui potevano disporre, guidati dal loro Druido. Attraversarono il rio Valle di notte per prendere di sorpresa nel sonno quelli di Chiarsevualis. Ma quelli di Chiarsevualis avevano il bèc d’aur che da essere sopranaturale qual’era, intuì il pericolo e nella notte prese a suonare all’impazzata la campanella che, dalla torre più alta del castello, di solito suonava al far dell’alba e quando le prime ombre del tramonto si distendevano sulla valle. Il Druido che s’era recata al castello a chiedere il perchè di quell’allarme, venne informato del pericolo che stavano correndo il villaggio ed organizzò immediatamente una spedizione che si mosse per fermare quelli di Pornescis, prima che si potessero avvicinare alle casupole usate come abitazione per incendiarle....
Secondo una delle versioni lo scontro avvenne dove oggi sorge la malga di Albareit bassa, che prenderebbe il nome dal biancore che si notava anche da grande distanza dove oggi si stendono i pascoli della malga, che era dato dalle ossa dei cadaveri della carneficina in cui era finita la battaglia. . Secondo un’altra versione invece lo scontro avvenne sui prati di malga Plombs e mentre “nel castello il Bec d'Aur assisteva allo scontro fra i Pagans l'ira crebbe in lui. Come potevano quei miseri uomini pretendere di trattare un dio come se fosse qualcosa di loro proprietà? Così il Bec d'Aur si animò ed uscì dal castello per punire la presunzione degli uomini. Corse verso il crêt che sovrastava Cjaserualis, e con i colpi delle sue potenti corna fece saltare in frantumi la roccia, questa franò improvvisamente con un enorme boato, e precipitò sul campo di battaglia uccidendo gran parte dei Pagans impegnati nello scontro. Anche il castello fu travolto e distrutto in un solo istante, con tutte le sue mura che avevano sfidato intatte i secoli.
A me, confesso, questa seconda versione non convince... La malga Plombs e il crepaccio che si sarebbe formato per l’ira del bèc che ha frantumato la montagna, si trova oltre il villaggio di Chiaserolis per chi viene da Pronescis. Se veramente dovesse essere questa l’origine del crepaccio, cioè l’ira del Bec d’àur per la guerra tra pagàns, si dovrebbe supporre che ci sia stato un altro assalto a Chiaserolis da parte degli abitanti del villaggio di Ciagnòn situato sull’altopiano sopra l’attuale abitato di Cabia. Con quelli di Ciagnon gli abitanti di Cjarsevalis, avrebbero potuto incontrarsi a metà strada nei pressi di Suart, e lì il Bec d’aur avrebbe potuto mandare in frantumi la roccia dando luogo al crèt di Plombs, tuttora visibile, ma non con quelli di Pronescis che erano dall’altra parte...
Se anche nei Vangeli ci sono quattro diverse versioni di come gli apostoli hanno scoperto che Gesù era risorto, non deve far meraviglia che ci siano delle imprecisioni su come sia finita la guerra tra Chiaserolis e Pronescis...L’unica cosa certa è che oltre malga Plombs c’è un crepaccio che si sarebbe formato a seguito della cornate del Bec d’àur.
“Credere o lasciare”, soleva dire mio nonno. Tutti concordano invece sull’ultima parte della leggenda nella quale si racconta di come dopo questa battaglia fratricida, i pochi supersiti si dispersero sulle montagne della Carnia, nei boschi e nelle caverne tanto è vero che le madri minacciano i figli più irrequieti dicendo loro "Cjale che vegnin i Pagans e ti puartin vie se no tu fâs il brâf" (attento che vengono i pagani ei ti portano via se non fai il bravo)..
Il Bec d'Aur offeso per quanto avevano fatto i Pagans non tornò più fra gli uomini e tutt'ora vaga per le montagne senza che nessuno lo possa mai incontrare. Camminando lascia impronte profonde nel terreno e dove si ferma a riposare la sua sagoma rimane segnata sull'erba bruciata dal potere che emana il suo corpo. Ogni tanto i montanari trovano queste tracce e sanno che sono quelle del Bec d'Aur che un tempo viveva nel castello di Cjaserualis.
A conferma che si tratta d’una storia vera e non di una leggenda gli abitanti sia di Valle che di Rivalpo sono concordi nel sostenere che, nel rio Plombs, così è chiamato il primo tratto del rio Pòi, affluente del Chiarsò, è stata trovata la campanella che dalla torre del castello, suonò l’allarme nella famosa notte dello scontro. La si può ancora vedere nella chiesa di S.Martino. E’ la campanella in bronzo sulla porta della sacrestia che avverte dell’ingresso in chiesa del prete, per l’inizio delle funzioni religiose.
Qui comunque, con la testimonianza di questa campanella, finiva il racconto, con il Bèc d’àur disperso non si sa bene dove sulle montagne della Carnia. Sarebbe finito così anche il mio racconto, se non avessi per caso incontrato a Rivalpo la Sepe. che di storie ne sapeva a bizzeffe. Era una vecchietta dall’età indefinibile. Molto piccola, con il viso che faceva pensare ad un teschio sul quale si fosse rinsecchita la pelle come si vede nelle mummie di Venzone. Il suo corpo, rimasto quello d’una bambina di dieci anni, era stato anche rattrappito ed ingobbito dalla vecchiaia, per cui sembrava ancora più piccola. Non una donna, ma uno dei “piccoli uomini” che anche secondo le leggende che lei andava raccontando, vivevano in Carnia ancor prima dei Carni. Abitava in una casupola sopra al paese, che sembrava fatta a sua misura. Entrando, anche a me che pure non sono alto, veniva istintivo di abbassare la testa per non correre il rischio di incocciare nel soffitto.
Le avevo portato in regalo una bottiglia di grappa perchè mi avevano detto che le piaceva e che la facilitava nel racconto. L’aprì ne bevve a canna alcuni sorsi. Ma ancora non si decideva a rispondere alla mia domanda su quanto sapesse a proposito del Bec d’Aur e mi tenne sulle spine per oltre un quarto d’ora. Poi, finalmente, come se la grappa fosse riuscita a liberarla d’un groppo che teneva in gola: “Non è nulla la leggenda del rapimento del Bèc, che già saprai,” prese a dire, “a confronto del suo seguito”.
“Quale seguito?” la incalzai curioso. Prese così a raccontarmi di come non sia vero che il Bec d’Aur abbia abbandonato Valle e Rivalpo, e di rimessa mi ha dato la spiegazione sul perchè nella sua piccola casa si vedevano di continuo in visita delle giovani coppie. Secondo quel che mi ha raccontato la Sèpe, il bèc d’Aur vive ancora a Chiaserolis nella dimensione dell’invisibile, ed ha conservato tutti i suoi poteri nell’aiutare le donne ad avere figli. Mi ha riportato così una serie di casi di giovani coppie che da anni non avevano figli, che avevano provato ad interpellare i più grandi specialisti in ginecologia senza alcun risultato, e che seguendo il suo consiglio erano andati a far l’amore nel bosco tra i resti del villaggio di Chiaserolis, bevendo l’acqua del rio Plombs e immancabilmente dopo nove mesi erano venute a ringraziarla accompagnate dal pianto d’un bambino in fasce.
“Ma un giorno solo a fare l’amore in Chiaserolis?” ho dovuto per mio malgrado interromperla stupito, “per risolvere tutti i problemi di fecondazioni assistite, o eterologhe! Te l’immagini avremmo frotte di gente da tutto il mondo!”
“Io non so cosa sono queste fecondazioni “estrologhe”, mi ribattè lei imperterrita e piccata “e mi darebbe anche fastidio che la gente accorresse a frotte a Valle Rivalpo, io ti ho solo detto come stanno le cose...”
“Ma perchè tu non hai ricorso alla fecondazione del Bèc d’àur?” la provocai allora, sapendo che non aveva avuto figli. Mi vergognai di me stesso, per la battuta infelice. Ma oramai m’era uscita di bocca. Lei non parve particolarmente offesa, mi rispose tranquillamente che il Bec d’aur non è lo Spirito santo, ci vuole comunque un uomo, perchè la sua l’influenza abbia effetto, e lei era invece come Maria Vergine che per tutta la vita non aveva conosciuto uomo.
Quasi a chiedere scusa per la mia impertinenza, dimostrando interesse per il racconto le chiesi se bastava una visita a Chiaserolis per godere del miracolo. “No!” mi rispose precisa e convinta, guardandomi fisso negli occhi, quasi a sfidare la mia incredulità. Si deve tornare per quindici giorni di seguito. E dopo aver fatto l’amore la donna deve bere dell’acqua ferruginosa alla sorgente che si trova sotto i “ciampùs” i piccoli campi, che non sono altro che le tombe del cimitero dei Celti...
L’aggiunta che la Sèpe faceva alla leggenda corrente, mi aveva confermato nell’idea che quella del Bèc d’Aur fosse la leggenda più importante dei Carni, che in qualche modo collegasse la cultura celtica a quella greca. Desiderai quindi sentire al riguardo il parere di Diver Dalce, l’autore che è riuscito ad inventarsi la storia di un soggiorno in Carnia nell’antichità, dello stesso Pitagora.
L’ho trovato che stava rovistando nella campagna dietro alle case del paese di Misincinis, per trovare conferma d’una sua teoria nella quale la leggenda del Bec d’àur aveva un riferimento di assoluto rilievo. “Scusi,” gli chiesi a bruciapelo, “lei che ha persino immaginato Pitagora tra queste montagne cosa mi dice d’una possibile relazione tra le leggende del Bèc d’Aur a Valle Rivalpo e del Vello d’Oro in Grecia?”. All’udire la mia domanda, si fermò di scatto, come se qualcosa l’avesse ferito. Aveva in mano una punta di freccia e prese a pulirla. Puliva la freccia e mi parlava, come se la sua attenzione fosse rivolta alla freccia e non alle parole che mi diceva.
“Lei è più intelligente di quanto può sembrare!” iniziò. Non risposi e non mi offesi perchè sapevo che per parlare con lui si dovevano subire gli attacchi della sua originalità e lo lasciai parlare, lasciando partire il registratore. Risentendo le sue parole, uno sproloquio più che un racconto, ho pensato che fosse finito per dar di matto come l’architetto dei suo romanzo sui Celti. Comunque senza assumermi nessuna responsabilità, solo per dovere di cronaca, mi pare giusto riportare ciò che mi ha detto.
A suo dire, in epoca preromana il collegamento tra la Grecia e l’Altoadriatico era un fatto normale. Per i collegamento con le cave di sale di Halstatt e della Baviera, si preferiva il collegamento via mare, più agevole rispetto alle difficoltà che avrebbe comportato l’attraversamento a piedi dell’attuale penisola balcanica. Si risaliva poi il corso del Tiliaventus e quindi quello del Chiarsò per poi attraversare le Alpi al passo di Meledis. Se si conviene su questa teoria è evidente l’importanza che sin dall’antichità più remota aveva la valle del Cjaròi, la valle di sosta prima dell’attraversata delle Alpi. Per questo assieme ai Carni si insediarono nella valle delle colonie greche, e fra queste la più famosa fu quella che si insedio sull’altopiano ai piedi del monte Tersadia. Anche questo nome è stato storpiato. Si chiamava a quei tempi Tessaglia, a ricordo della regione della Grecia da cui erano arrivati i coloni, e il vello di Chiaserolis è lo stesso della storia di Medea!
“Questa poi!” non riuscii a far a meno di esclamare e con l’esclamazione chiusi i registratore pensando che il mi interlocutore si fosse bevuto il cervello.
Ma ripensando poi a ciò che mi aggiunse, a registratore spento, mi pentii d’averlo fatto. Avrei potuto documentare almeno la fantasia senza limiti di Diver...
Mi portò a ragionare sul fatto che le case del villaggio erano a base rettangolare, mentre quelle celtiche, come si vede bene sul monte Sorantri a Raveo sono rotonde. E questo, a suo dire era sufficiente a dimostrare che il villaggio non era celtico.
Mi ricordò come nella leggenda greca si dica che Giasone e Medea tornando dalla Colchide, puntiti da Giove, smarriscano la rotta e finiscano nell’Adriatico per poi risalire il Po e attraverso il Rodano raggiungere la Liguria e poi la Sardegna e infine il Monte Circeo, per purificarsi presso la maga Circe. Secondo Diver i trascrittori non conoscendo la geografia hanno fatto un errore i georeferenziazione. In effetti i fiumi percorsi, uscendo dall’Adriatico, sono proprio il Tiliaventus e il Cjaròi, e la maga Circe abitava nel lago che c’era a quel tempo sulla cima della montagna del Cucco proprio dirimpetto al Tersadia. Lassù Giasone e Medea furono purificati dalla maga Circe per gli omicidi che avevano commesso, e in segno di gratitudine, lasciarono agli abitanti di Chiaserolis che li avevano ospitati un pezzetto del vello d’oro che aveva la virtù di favorire la fecondità delle donne, ma anche degli animali e di tutta la natura.
Quando ci si lascia prendere dalla fantasia e la si mescola all’amore per il proprio paese, si finisce per immaginare il proprio paese al centro del mondo. In questa ottica si può capire la ricostruzione fantastica di Diver. Anche se, a dir il vero, anch’io ho trovato qualche riscontro nei racconti che mi ha fatto la Sepe legati alle montagne di Valle Rivalpo.
Anche lei infatti mi ha detto che sul monte Cucco c’era un lago. Il monte sarebbe stato un vulcano, come ce ne sono altri al mondo, il cui cratere era riempito d’acqua a formare un lago. Poi a seguito d’un terremoto s’era spezzato un lato dell’argine e l’acqua era precipitata portandosi dietro la montagna, dando origine ai crepacci del Lander, e travolgendo infine il municipium romano di Iulium Carnicum. Anche la Sèpe mi ha detto che sulle acque del lago del monte Cucco, si nascondeva una fata che ogni tanto usciva a prendere il sole come fanno ora le colonie di marmotte che numerosa popolano la conca nella quale sorgeva il lago. Una fata che sembra sia scesa in forma d’angelo ad avvertire gli abitanti di Zuglio del pericolo incombente. Ma anche allora, come adesso non si credeva nè alle fate nè agli angeli, per cui quando l’onda del lago si precipitò sul paese distrusse le case e travolse tutti gli abitanti, come in tempi recenti è capitato al paese di Longarone travolto dall’onda del lago artificiale del Vajont invaso da una enorme frana.
Resterebbe il problema di spiegare come il termine Circe sia stato storpiato fino a diventare Cucco, ma se Cjaròi e diventato Incaroio tutto è teoricamente possibile...

sabato 8 gennaio 2011

Da Menocchio a Romedio.



Da come sono ricostruite le vicende per le quali è finito al rogo Domenico Scardella detto Menocchio, mugnaio a Montereale Valcellina nel 1500, si ricaverebbe l’impressione che il suo sia stato un caso isolato. In quegli anni in Friuli imperversava il Tribunale dell’Inquisizione e non passava giorno che in un paese e nell’altro non ci fosse chi finiva al rogo. Ma si trattava di solito di streghe. Menocchio invece era stato arrestato nel 1584 e bruciato qualche anno dopo proprio come eretico. Sosteneva che “questo che fu crocifisso era uno dei figlioli de Dio, perché tutti semo fioli de Dio, homo come noi ma di maggior dignità”. E non rinunciò a professare questa sua fede, anche a costo di lasciarci la pelle. Che ad un mugnaio mentre vedeva girare le ruote del suo mulino mosse dall’acqua sia venuta l’idea che “tutti semo fioli de Dio”, mi era sempre parso poco credibile. Ci doveva essere per forza una corrente di pensiero che era arrivata fino alle pale del suo mulino, con questa teoria teologica così originale che si collegava a quell’altra, non meno originale che al principio “ tutto era caos e quel volume feze una massa come si fa il formazo nel latte et in quel deventorno vermi et quelli furono anzeli et tra quel numero di angeli vi era ancho Dio, creato anchora lui”. Erano gli anni della riforma protestante. Molti friulani frequentavano “le Germanie” come cramars, era logico si fosse diffuso anche in Friuli lo spirito della riforma. Anche a Tolmezzo in quegli anni era finito sotto processo tale Matteo Bruno che per salvarsi dal rogo abiurò mentre a Vinaio nel 1588 venne giustiziato Daniele Dionisio.
In questo contesto si colloca la leggenda dell’Eremita di Vuerpa, ed anche in questo caso la leggenda serve a capire ed a ricostruire meglio il momento storico. Anche in questo caso Romina, la vecchia che me l’ha raccontata, sosteneva che non di leggenda ma del racconto d’un fatto realmente accaduto e quindi di un fatto storico. Ma a me, come ho già detto altre volte, interessano gli elementi del racconto che aiutano a ricostruire il momento storico, non mi fa differenza sapere se i fatti sono realmente accaduti o se sono usciti dalla fantasia di qualcuno.
Comunque, al di la delle solite divagazioni, Romina era una vecchia che avevo incontrato a Vuerpa, borgata poco sopra il paese di Vinaio in Comune di Lauco. C’ero arrivato per la tradizionale festa del pastor, organizzata ogni anno a settembre per celebrare il ritorno del bestiame dall’alpeggio e più che dalla festa ero rimasto incuriosito proprio da quelle quattro case adagiate su un pianoro alle falde del monte, con davanti un panorama eccezionale.
Non c’era nessuno nel piccolo borgo. Erano tutti alla festa. Almeno così m’era parso, ma poi avvicinandomi alle case sono stato attratto da una vecchia che sedeva su una panca accanto all’ingresso d’una vecchia casa. Immobile come se fosse stata una statua. Fissava in silenzio il panorama, con l’attenzione di chi guarda per la prima volta una scena, mentre non c’era scena che le potesse risultare più familiare, dal momento che non c’erano dubbi che quella fosse la sua casa.
Avvicinandomi, un po’ guardavo a lei un po’ seguendo il suo sguardo guardavo al panorama che lei stava fissando. S’apriva davanti la conca tolmezzina che si perdeva a mezzogiorno in una serie infinita di valli e di quinte di montagne. Lei continuava a guardare immobile come se non si fosse accorta del mio avvicinarmi, ma quando le fui accanto, quasi fosse un saluto o una riflessione ad alta voce, senza fare un cenno di movimento verso di me disse
Mi stupiva il suo comportamento, ma mi stupì ancor di più il fatto che le parole con le quali mi accolse erano le stesse che avevo nella mente mentre guardavo quel panorama. Come se avesse potuto leggermi nel mio pensiero.
“E mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni!” disse tra sé e sé ma a voce alta in modo che sentissi. Pensai ad uno strano modo di salutare, colpito dal fatto che anche a me, mentre guardavo al confondersi dell’orizzonte lontano con l’azzurro del cielo, erano venute in mente i versi dell’Infinito di Leopardi: “Tra queste immensità s’annega il pensier mio, e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Da lassù le valli della Carnia, coperte ancora da un trine leggero di nebbia che s’andava dissipando al sole del mattino, parevano appena uscite dall’Oceano primordiale. E le montagne torno a torno erano fate appena uscite dall’acqua, adagiate ad asciugarsi all’ultimo sole di settembre.
Lei invece, la vecchia pareva uscita da una stampa antica. Volata a caso fin davanti a quella casa, come una immagine ritagliata da un vecchio libro ed incollata su uno fotografia. Tra le profonde rughe che segnavano il viso, si riusciva a leggere e distinguere bene la bellezza d’un tempo, i lineamenti delicati le fattezze armoniose. Gli occhi ormai infossati quasi si stessero ritirando nelle cavità del cranio, avevano ancora la luce e la vivacità degli occhi d’una giovane ragazza esuberante e sbarazzina. Ma ciò che più colpiva erano i capelli. Malgrado l’età non erano bianchi: il biondo d’un tempo s’era appena scolorito in un grigio con sfumature dorate. Ed erano attorcigliati in lunghi boccoli, come usano certi popoli primitiva dell’Australia. Ma non bastava! I boccoli erano raccolti in una crocchia dietro dalla nuca, dalla quale poi si dipartivano nuovamente a raggiera a formare una sorta d’aureola. Se mi avesse detto che era una fata o una strega non avrei potuto non crederle. Era più difficile pensare che fosse una donna nata e vissuta tra quelle quattro case sulla montagna. Invece era proprio, così a dimostrare che anche a Vuerpa di Lauco la realtà può superare l’immaginazione.
“Che cosa cerca da queste parti?” mi chiese quando le fui davanti.
“Nulla di particolare,” le risposi. “Sono qui per la festa, e m’è venuta l’idea di esaminare meglio la borgata per capire come si possa vivere tra quattro case in cima ad una montagna”.
“Si vive, si vive!” replicò, “come in qualsiasi altra parte. Un giorno dopo l’altro, sospinti dal tempo fino ad incontrare la morte” Poi notando il mio stupore alla sua risposta aggiunse: “Non so perché ma pensavo che fosse uno che si interessa di leggende”.
Sorpreso per la sua risposta filosofica, al sentire l’aggiunta restai basito. Mi aveva letto nel pensiero sull’Infinito di Leopardi, ed ora s’immaginava il vero motivo del mio interesse a quelle case anche se non le avevo fatto neppure il minimo accenno…In effetti mi ero inoltrato nella borgata proprio pensando che, isolati come erano vissuti, quando fin lassù non arrivavano che sentieri, certamente avevano prodotto nei secoli qualche favola particolare legata al particolare ambiente di montagna.
“Non so come ha fatto ad immaginarlo,” le dissi. “Ma è vero sto cercando di raccogliere delle leggende, prima che se ne perda la memoria. Fino alla vostra generazione c’è stata una trasmissione continua da generazione in generazione. Oggi anche quassù è arrivata la strada asfaltata. Come l’asfalto ha coperto i sassi della carrareccia, così il progresso sta cancellando ogni memoria del passato.”
“Se è vero!” commentò lei. “E’ arrivato nel posto giusto,” aggiunse poi, “perché qui è la casa stessa ad essere una storia che pare una leggenda”.
Senza aggiungere altro, si alzò tutta arzilla e mi aprì la porta invitandomi a seguirla. Era una tipica casa carnica del primo novecento. Sull’atrio, dal pavimento lastricato a grandi pietre irregolari, davano due stanze una a destra ed una a sinistra e davanti partivano le scale in legno per il piano superiore. A fianco s’apriva la porta che dava alla dispensa. La aprì e mi fece scendere per alcuni gradini. Tutto normale ci trovavamo nella cantina. Ma era la cantina ad essere fuori dal normale. Non si trattava d’una vera cantina in muratura ma d’una grotta.
“E’ in questa grotta che inizia la storia della casa…” prese a raccontarmi Romina.
Mi spiegò che si trattava d’una grotta naturale che il caso dell’evoluzione geologica aveva voluto si formasse su quella montagna. Forse era stata abitata anche in epoca preistorica, ma questa poteva essere solo una supposizione. Era certo invece che era stata abitata nel 600 da un originale eremita eretico di nome Romedio. Negli anni successivi si era sviluppato una sorta di culto popolare che aveva fatto del frate un santo, capace di grandi miracoli, per cui sulla grotta era stata costruita una chiesetta. Poi il santo aveva perso l’abitudine di fare i miracoli e così era venuta meno la devozione nei suoi confronti, la chiesetta era stata abbandonata e finita in macerie.
“Con i sassi della Chiesa mio nonno a iniziato a costruire questa casa, inglobando la grotta come cantina”. Era emigrato come molti altri carnici a fare il muratore in Baviera ed era tornato, come tanti altri soprattutto in Val Pesarina, tutto preso dalle idee del socialismo anarchico, convinto che la religione fosse “l’oppio del popolo”. Si gloriò per tutta la vita d’aver trasformato le fondamenta d’una chiesa nelle fondamenta della sua casa, finchè non fu trovato impiccato, senza nessuna ragione plausibile, ad una trave della soffitta della casa…
“La maledizione del capostipite in qualche modo è scesa fino a me, che sono l’ultima erede senza figli. Con me si estinguerà la discendenza. Nessuno vorrà abitare in una casa maledetta, e in breve ci sarà solo un cumulo di macerie a coprire l’ingresso di questa grotta. Non si saprà neppure che esista e si perderà la storia legata ad essa, la storia dell’eremita Romedio”.
Non trovai parole per commentare espressioni così prive di speranza ed in silenzio la seguii di nuovo sull’aia, per sedermi accanto a lei sulla panca di legno a guardare la fuga delle montagne giù nelle valli ed a sentire il racconto della vita di Romedio l’eremita di Vuerpa.
Durante il Seicento molti furono accusati di eresia o stregoneria e bruciati al rogo. Chi si voleva liberare di un nemico non doveva far altro che inventarsi un accusa, e il Tribunale dell’Inquisizione provvedeva al resto. Ma anche se tutti in Carnia sapevano che Romedio era un eretico, nessuno s’arrischiò a denunciarlo. Come si sapeva che era eretico, così si sapeva che aveva dei poteri straordinari, che aveva compiuto miracoli eccezionali.
Tutti si chiedevano da dove gli potessero venire questi poteri. Dal momento che non credeva in Dio, non potevano che derivargli dal Demonio, e nessuno s’arrischiava a mettersi contro un figlio del demonio, neppure il prete di Vinaio che pure aveva avuto modo di confrontarsi con lui in uno scontro verbale nell’osteria del paese, avendo la conferma che fosse eretico. “E della peggiore specie!” Forse per paura, per non mettersi contro il Diavolo, forse per stima per una persona che sapeva sviluppare dei ragionamenti molto profondi, forse soltanto perché affascinati dal suo modo di parlare, erano comunque in molti quelli che ogni giorno da Vinaio e da tutta la Carnia salivano a far visita all’eremita. Fra di loro si era formata una sorta di setta segreta, la setta degli amici di Romedio e non c’era pericolo che si tradissero denunciandosi a vicenda all’Inquisizione. L’unica eccezione era stata quella di Daniele Dionisio di cui ho già ricordato la brutta fine. Era anche lui uno dei più assidui frequentatori dell’eremita. Ma a denunciarlo per altri motivi erano state altre persone del paese. Non uno dei devoti di Romedio.
L’eremita quando sentiva che si erano raccolte alcune persone all’imboccatura della grotta, usciva e sullo spiazzo che sarebbe poi diventata l’aia della casa, e quindi nel luogo ove mi trovavo assieme a Romina, teneva dei discorsi, un po’ come si legge faceva qualche secolo prima S.Francesco. “Discorsi i cui contenuti sono giunti fino a me, di generazione in generazione”, soggiungeva la mia interlocutrice, “e che finiranno con me, non avendo io discendenti a cui trasmetterli. Con questo preambolo, quasi volesse coinvolgermi nel compito di tramandare il pensiero di Romedio, mi fece il riassunto d’una serie di ragionamenti e di riflessioni, che in qualche parte mi ricordavano quelli di Menocchio. Per questo dicevo in premessa che probabilmente in quegli anni sulle montagne friulane s’era sviluppata una originale forma di religione, come via di mezzo tra quella cattolica e quella protestante, una sorta di teologia della liberazione.
Romedio metteva in discussione la Bibbia per tanti aspetti a partire dalla prima riga. Non è vero diceva che “ in principio Dio creò il cielo e la terra”, all’inizio c’era il caos, la materia informe, eterna ma inconsapevole della propria esistenza. Poi ci fu la luce, nel senso che la materia prese coscienza della propria esistenza. La luce era Dio, era nel mondo e per mezzo suo si fece il mondo, imponendo un ordine alla materia. La materia è il principio del male, ossia il demonio da cui nasce la schiera dei diavoli, la coscienza dell’esistere è il principio del bene da cui si sviluppa la schiera degli angeli. La storia dell’umanità è la guerra dei due principi, fatta di tante storie di individui in ognuno dei quali si scontra un angelo ed un demonio.
Una cosmogonia evidentemente molto vicina a quella di Menocchio. La contestazione sulla Bibbia si trasferiva poi ai vangeli. Le evidenti contraddizione anche tra i quattro vangeli canonici, dimostrano che non possono essere presi come verità di fede sosteneva, ripetendo Menocchio che diceva agli inquisitori “circa le cose delli evangeli credo che parte siano veri et parte li evangelisti abbiano messo de suo cervello, come si vede nelli “passi” che uno dice a un modo et uno dice a un altro”.
Ma l’elemento che più avvicinava la teologia di Romedio a quella di Menocchio, era la convinzione che ribadiva in ogni suo discorso che l’uomo è figlio di Dio, che ognuno di noi è figlio di Dio.
Su questi concetti sviluppava poi una sua particolare teoria religiosa che in qualche modo tentava di mediare tra i concetti del libero arbitrio e del servo arbitrio, dando una sua particolare soluzione al problema della predestinazione.
Se lo spirito di Dio è la coscienza di esistere dell’Universo e nel corpo di ogni uomo vive lo spirito che è la sua coscienza di esistere, è evidente che cosa si voglia intendere definendo l’uomo come figlio di Dio, come è evidente che in questa definizione è implicito il concetto della sua immortalità. Il corpo nasce dalla materia e soggiace alle leggi della materia, lo spirito viene dallo Spirito universale e torna allo spirito avendo maturato con il corpo l’esperienza di individuo. C’è un atomo della coscienza universale che si incarna in un uomo e diventa coscienza individuale, per tornare per sempre alla coscienza universale mantenendo la sua individualità.
Nel periodo della convivenza, gli anni della vita dell’uomo, la sua esperienza di vita è quella del conflitto tra il demone della materia e l’angelo dello spirito. L’uomo è come un campo di battaglia nel quale si combatte un conflitto che non dipende da lui se non in minima parte. Il suo demone e il suo angelo cioè i caratteri positivi e negativi che gli vengono dalla natura si combattono generando una serie di circostanze che condizionano la sua vita. Ma come in un gioco virtuale, l’uomo può partecipare modificando le condizioni del campo di battaglia, che possono influire sull’esito della battaglia. La vita è quindi una battaglia a tre tra un demone un angelo ed un uomo, come diceva anche Menocchio, “tra un corpo un’anima ed uno spirito”.
Per capire l’umanità si deve immaginare che l’atmosfera sia carica di semi e ne lasci cadere alcuni che vivono le regole della natura sulla terra riproducendosi per poi diventare di nuovo semi capace di librarsi nuovamente e per sempre nell’aria. Le leggi della terra non sono imposte dall’atmosfera, il seme è libero di trasformarsi, dipende da lui il processo di trasformazione e quindi il risultato con le caratteristiche che avrà il seme tornando a vivere nell’aria.
Romina avrebbe continuato all’infinito a parlarmi delle teorie di Romedio l’Eremita, ma mi stavano aspettando gli amici che avevo lasciato alla festa del Pastor. Con questa scusa, l’ho salutata promettendole che sarei tornato a trovarla con più tempo e più calma. Non ci sono più tornato. Ho infatti ripensato più volte a ciò che mi aveva detto e non ho saputo darmi una risposta. Si trattava di fantasie di un matto? O c’era un senso, se Menocchio per queste teorie s’era lasciato morire sul rogo, pur di non rinunciare all’idea di essere figlio di Dio?...

martedì 4 maggio 2010

Dagli Sbilf al bluetooth


Non è per dar torto alla Bibbia. Ci mancherebbe! Ma potrebbe anche darsi che l’evoluzione della specie animale fino alla nascita dell’uomo, non sia avvenuta in tutti i luoghi del globo terracqueo, allo stesso modo. Non metto in dubbio che nel Medio Oriente, dopo aver ordinato alla terra di produrre “esseri viventi secondo la loro specie”, Dio il giorno dopo abbia creato l’uomo a sua immagine. Ma da noi, in Europa prima dell’età dell’uomo, c’è stata quella dei piccoli uomini: la terra era popolata dagli Sbilfs e le acque dalle Agane. A Tolmezzo gli sbilf abitavano alle falde del monte Strabut, (che a quel tempo chissà come si chiamava), le Agane invece ai piedi della montagna nelle acque del But, che a quel tempo passava molto più vicino alla montagna, proprio ove oggi c’è il centro storico del paese. Chi volesse una conferma di questo assunto, può salire fino a Precefìc e, addentrandosi nel pianoro a mezza costa dello Strabut, troverà nell’atmosfera che vi si respira, una evidente e incontrovertibile prova della presenza nel luogo dei piccoli uomini, nella notte dei tempi.
La differenza tra gli Sbilf e gli uomini, non era tanto o non era solo nella dimensione del corpo. Erano degli uomini in miniatura, ma avevano la testa se si vuole anche più grande di quella degli uomini d’oggi, perché nel loro cervello si era sviluppata una grandissima capacità di pensiero. Gli uomini devono mediare con la parola o con la scrittura la comunicazione del loro pensiero, gli sbilf comunicavano direttamente. Il pensiero di chi voleva comunicare, si metteva immediatamente in relazione con il pensiero degli interlocutori, come se le onde del pensiero fossero onde radio
Nella evoluzione dai piccoli uomini agli uomini s’è persa questa particolare capacità di comunicazione. Derivava infatti dalla grande disponibilità degli sbilf a comunicare ed a rapportarsi in positivo con i propri simili. Diventando, con l’evoluzione, più consistente la massa corporea, ha preso sempre più rilievo la coscienza di sè, è diventato sempre più forte l’egocentrismo, sempre minore la disponibilità verso gli altri, e così anche la capacità di pensiero negli uomini si è chiusa in sé, è diventata capacità di riflessione più che di comunicazione. Obiettivo primario per l’uomo è diventato il proprio corpo e si è persa quella capacità di pensiero che faceva in modo che gli sbilf fossero tutti poeti. La capacità rimasta ora soltanto in qualche uomo eccezionale di saper cogliere e vivere la bellezza della natura, di godere nell’emozione nel rapporto immediato ed istintivo con la bellezza del creato.
Non è comunque che anche i piccoli uomini non avessero i loro problemi!... In particolare li angustiava l’impossibilità di conservare nel tempo il pensiero comunicato. Non conoscendo la scrittura e non avendo altre forme di registrazione, potevano comunicare solo in tempo reale e non in differita. Finchè non ci fu la invenzione di Gil e Tiz!...
Erano questi due Sbilf che vivevano in una grotta ai piedi dello Strabut, poco sopra l’attuale Museo Carnico. Tra l’imbocco della grotta e il greto del fiume passava un sentiero molto frequentato dai cani a passeggio. “Dovremmo riuscire ad inventare qualcosa del genere!” disse un giorno Tiz fra sé e sé.
“In che senso?” gli chiese Gil.
“Vedi! I primi fanno la pipì e quelli che vengono dopo la riconoscono. Se riuscissimo a far in modo che il pensiero si attaccasse alle cose, come la pipì dei cani, potremmo far in modo che quelli che seguono possano sentire il pensiero di chi li ha preceduti”.
Gil era un tipo che quando gli davi un input, gli si scatenavano i neuroni nel grande cervello. A forza di pensare gli venne la febbre, gli si sballarono tutti i valori, la glicemia gli andò alle stelle, ma alla fine pur stremato e sfinito ebbe ancora la forza di dire: “Ho trovato!”
“Che cosa hai trovato?” gli chiese Tiz, che, ormai quasi convinto di non poter salvare l’amico, si disperava per essere stato, con la sua domanda, la causa di tutto quel male.
Aveva trovato il modo di legare il pensiero ai dei punti che lui decise di chiamare punti di interesse! Presero così a segnare tutta la Carnia con il loro brevetto, e invitarono le Agane a ripetere i percorsi segnati da loro, riascoltando i loro pensieri. Loro due di giorno, come due cani, segnavano un nuovo sentiero, ed alla sera le Agane in folla uscivano dal But, per ripercorrere il sentiero accompagnate e suggestionate dai pensieri poetici che gli sbilf avevano legato ai punti di interesse.
Si ripeteva così ogni sera una scena di incredibile bellezza. Le fate dell’acqua uscivano dalla corrente, mentre gli ultimi riverberi di porpora del sole si spegnevano ad ovest sui Monfalconi e trasportate dalla brezza della sera, come uno sciame di farfalle, salivano le valli di Carnia traducendo in musica con le loro voci armoniose i pensieri suggeriti dagli sbilf. Una scena che si ripete forse ancora e che, come ho già detto, solo la sensibilità di quegli uomini eccezionali, che sono i poeti, può vedere…Deve essere infatti la scena che descrive Carducci nella poesia “In Carnia”:
De la But che irrompe e scroscia
elle ridono al fragor,
e in quel vortice d’argento
striscian via le chiome d’òr.
Questa leggenda mi è stata raccontata da persona degna di fede che abita nei pressi del luogo dove ci sarebbe stata la grotta dei due sbilf. Ma una conferma indiretta sul fatto che non è soltanto una leggenda mi viene dalla coincidenza per la quale proprio in quel posto, in ambiente che richiamava molto quello d’una grotta, gli uomini della ditta BoDi, hanno pensato ad un progetto che utilizza le moderne tecnologie per riproporre l’idea che hanno avuto, nello stesso luogo, ì due sbilf.
Agli sbilf che, come si è detto, erano poeti non ne è venuto nulla e neppure nessuno li ricorda, agli uomini di BoDi deve essere venuta invece una improvvisa ricchezza. Tant’è che si sono subito trasferiti in ambienti più luminosi e prestigiosi!!!
Per il “bene comune” c’è solo da augurarsi che come le Agane in folla seguivano i suggerimenti degli Sbilf, ci sia ora una folla di turisti che segue Bodì sui sentieri della Carnia diffondendo su tutto il territorio benessere e ricchezza.

(Favola scrittali 1°marzo 2010 in occasione del trasferimento di BoDi all’Agemont con i migliori auguri a Gil a Tiz e di riflesso a Stefano ed a tutti i collaboratori. Buon lavoro!)

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venerdì 26 febbraio 2010

La lavanda di Venzone.



Una volta, nel tempo prima della storia, la Carnia era abitata dagli Sbilfs e dalle Agane, le fate dell’acqua. Nella stretta di Venzone che prendeva il nome di porta della Carnia perché al tempo con questo nome si comprendevano anche le valli del torrente Fella, una colonia di Sbilfs si era insediata dove ora sorge il paese, mentre al di là dell’acqua del Tagliamento ove ci sono ora le case di Pioverno nelle grotte sotto all’attuale chiesa dell’Immacolata si erano insediate le Agane. La scelta non era stata casuale. A quei tempi si viveva secondo natura, non c’era la necessità di lavorare la terra, ma ci si doveva collocare dove la terra produceva i suoi frutti. Sulla sinistra del Tagliamento cresceva spontaneo il frumento il cibo preferito dagli Sbilfs. Sulla destra invece cresceva quella che oggi chiamiamo lavanda, il profumo preferito dalle Agane. A primavera la stretta tra il S.Simeone e il Plauris pareva la valle dell’eden con l’acqua limpida che si scioglieva in riflessi di cristallo, tra la distese dorate del frumento da una parte e del viola della lavanda dall’altra. Gli Sbilfs che credevano nella Madre Natura, avevano dato un nome femminile alle piante da cui traevano sostentamento e le avevano chiamate spighe. Le Agane che vivevano del profumo dei fiori avevano dato un nome maschile alle loro piante e chiamano spigo i gambi di quella che noi oggi chiamiamo lavanda.
Quando nel rincorrersi dei secoli iniziò la storia degli uomini le nostre montagne furono prima popolate dai Celti venuti dll’Est, e infine anche da queste parti arrivarono i romani a portare la civiltà con la guerra e gli eserciti. I soldati venivano reclutati da ogni parte dell’Impero. Fu così che arrivò nella piana di Venzone una legione tutta formata da Galati, i Celti dell’Asia Minore. Fra loro c’era un centurione di nome Venzo, finito a fare il militare per dimenticarsi le pene d’amore.
In patria era un alchimista innamorato del suo lavoro. Coltivava una pianta che i greci chiamavano nardo celtico, appunto perché coltivato dai Celti d’Asia minore, ed i romani invece lavandula spica. Dalle radici aveva imparato a distillare degli oli essenziali e dei profumi d’una delicatezza raffinata, e degli unguenti che avevano del miracoloso. Di lui si era innamorata una bellissima donna di nome Maddalena. Si erano sposati. Egli l’amava nel profondo del suo cuore, ma tutto preso dal suo lavoro la trascurava. Passava le notti a studiare nuove ricette, cercando le soluzioni più innovative per ricavare il massimo beneficio dalle virtù della pianta del nardo. Fu così che un mattina e non trovò più Maddalena in casa. La cercò invano per tutto il paese, ma invano. Si accorse che era sparito anche l’asino, e che era stato svuotato il magazzino nel quale teneva i suoi prodotti. Un amica della moglie gli riferì che s’era caricata i profumi e gli unguenti sull’asino e che era partita alla volta della Palestina, dove aveva sentito stava predicando un nuovo profeta di nome Gesù. Qualcuno sostiene sia la stessa donna di cui parla l’evangelista Luca raccontando che si era introdotta nella casa d’un fariseo ove Gesù si trovava a pranzo, “era venuta con un vasetto di olio profumato e stando dietro presso ai suoi piedi, piangendo cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato”. Era conosciuta come una peccatrice ma per quel gesto Gesù le disse “Ti sono perdonati i tuoi peccati”. Forse il collegamento può essere fantasioso oppure no, dal momento che non si specifica di che olio profumato si trattasse. Ma in una scena analoga nella quale a ungere i piedi di Gesù d’olio balsamico è Maria di Betania, la sorella di Lazzaro il resuscitato, si dice espressamente che ha usato “una libbra di olio profumato di vero nardo” e quindi non si può escludere si sia trattato proprio dell’olio di Venzo..
Comunque il nostro essendosi trovato alla porta della Carnia, celta galata a dover combattere contro altri Celti, i Carni, entrò in crisi di nuovo e chiese di essere congedato ed ottenne la proprietà dei campi di lavanda che già dal tempo degli Sbilfs cresceva dove oggi sorge il paese di Pioverno. Prese dimora nella grotta che s’apriva nel rilievo sul quale sorge ora la Chiesa del paese. Grotta che era stata delle Agane, e che lo è ancora perché non è che le fate dell’acqua siano sparite, sono solo diventate invisibili per l’incapacità dell’uomo a vedere oltre la dimensione del reale, come è diventata invisibile la grotta perché l’imboccatura è crollata a seguito d’un dei terribili terremoti che hanno interessato ed interessano ancora il monte S.Simeone
Qui, non più distratto dalle grazie della bella Maddalena, riprese con nuova lena le ricerche sulle proprietà benefiche dello spigo e a forza di innesti ed impianti riuscì a sviluppare un nuovo tipo di pianta con maggiori proprietà terapeutiche. Mentre dal nardo celtico l’olio essenziale ed il profumo si ricava dalla radice, nella nuova pianta le proprietà benefiche si trasferirono nel fiore esaltandosi. Divenne in breve famoso in tutta la Carnia perché con i medicamenti tratti da questo nuovo spigo sapeva curare ogni tipo di malattia.
Per ogni tipo di dolore prescriveva dei bagni di spigo. Si deve lavare la parte malata, scriveva, e quindi prescriveva delle diverse composizione di acqua ed olio di spigo. Da militare aveva imparato la lingua latina e in latino le sue ricette iniziavano sempre con “lavanda est” si deve lavare, e così un poco alla volta gli uomini della Carnia presero a parlare di ricette di lavanda, e lo spigo finì per essere chiamato lavanda: la lavanda di Venzo, che in latino diventava appunto “Lavanda Venzonis”, termine oggi correttamente tradotto in italiano come “Lavanda di Venzone”. I botanici la chiamarono lavandula angustifolia per la caratteristica delle foglie strette, distinguendola dalla lavandola spica, detto anche nardo celtico o valeriana celtica, che si coltiva ancora nella montagna carinziana e viene utilizzata soprattutto nelle terme di Bar Kleinchirhheim.
A sentire l’attuale nome comune, di primo acchito viene da pensare che sia stato il paese a dare la denominazione alla lavanda, e invece la storia del legionario Venzo, dimostra il contrario in modo inconfutabile…Comunque anche nel caso dello spigo, le Alpi divennero confine e discrimine, il genere spica si continuò a coltivare al di là, mentre l’angustifolia si diffuse al di qua per tutto l’arco alpino fino alla Liguria per poi da qui debordare in Provenza.
I carnici son gente rude poco portata ai profumi: gli uomini nel bosco e le donne con la gerla, ma anche Carnia pur se è venuta meno, non è mai scomparsa l’usanza di coltivare la lavanda. Valentino Osterman in La vita in Friuli” scriveva alla fine dell’Ottocento che “è pianta benefica; si coltiva negli orti per raccoglierne i fiori che a mazzi vengono collocati tra la biancheria sia per il loro gradevole odore, sia perché si ritiene giovino a tener lontane le tignole l’incubo (calciùt) e le malie tentate contro il compimento dei doveri matrimoniali. Giova pure contro il mal di capo e di nervi, per curare le ferite e per regolare le funzioni muliebri. Ha maggiore virtù se colta nella famosa notte di S.Giovanni.
Con questa ultima annotazione il richiamo dell’Osterman a Venzo è evidente, perché ormai tutti gli studiosi concordano sul fatto che risalgono al Celti i riti della notte di S.Giovanni. Anche la messa in evidenza dei poteri sulle “malie tentate contro il compimento dei doveri matrimoniali” è probabilmente riconducibile a Venzo che nella solitudine della grotta di Pioverno, rimpiangeva di aver trascurato la bella Maddalena, che se n’era andata a far la peccatrice in Palestina.
A proposito! C’è qualcuno che sostiene d’aver letto nei soliti documenti di cui non si trova ormai traccia che lo stesso nome di Pioverno è legato al legionario. Alla sua morte infatti sarebbe stata costruita una chiesetta dedicata al Pio Venzo, delle cui fondamenta risulterebbe si sia trovata traccia quando è stata costruita la Chiesa attuale. Nei secoli poi, come è capitato spesso, il nome sarebbe stato storpiato in quello di Verno.
Ma forse queste sono illazioni di storici che si lasciano guidare dalla fantasia invece che dall’amore per la ricerca. Certo è invece il fatto che Venzo teneva a precisare, consegnando le sue ricette, che per trarne i massimi benefici, gli oli essenziali ed i profumi di spigo o lavanda che dir si voglia, devono essere diluiti nell’acqua delle sorgenti popolate dalle Agane. In Carnia ce n’è diverse, ma sembra che sopra tutte egli consigliasse l’acqua di Applis ad Ovaro, dove l’acqua sgorga fresca e purissima direttamente dal terreono.
Per inciso si deve ricordare che come sono presenti nel mondo degli umani le Agane, così sono ancora presenti gli sbilf anche se invisibili. Come è noto ce n’è di diversi tipi e nomi come il Gan, il Mazarot, il Bagan, e il Pavàr . Ci sono quelli favorevoli agli uomini e quelli pericolosi come il Cialciùt che nell’era moderna s’è montato la testa, ha cambiato nome e si fa chiamare “stress” all’inglese. Gira di notte per le case degli uomini diffondendo la malattia della depressione. Come già ricordava l’Ostermann il potere benefico della lavanda si riscontra soprattutto nel tener lontano gli incubi provocati dai Cialcùt.. In termini moderni, come è ormai ampiamente dimostrato da tanti studi, si direbbe che ha dei poteri quasi magici per vincere il male del secolo: la depressione causata dallo stress.